Ortodossi e postmoderni
Si riaccende la disputa tra ortodossi e postmoderni sul destino dei tassi, del dollaro e del ciclo economico.
di A. Fugnoli (Abaxbank)
Da Il Rosso e Il nero, settimanale di strategia di Abaxbank
di giovedì 26 maggio 2005
Con il T-Bond al 4.02 e il Bund al 3.29 si riaccende la disputa tra ortodossi e postmoderni sul destino dei tassi, del dollaro e del ciclo economico. Per gli ortodossi il quadro attuale è insostenibile e il dollaro è a rischio di rottura. Quando il dollaro inizierà a scendere in caduta libera, i tassi saliranno (questa volta anche quelli a lungo) e l’economia globale andrà incontro a una nuova fase di glaciazione.
L’Ocse, citata in questi giorni per la sua severità nei confronti dell’Italia, è ancora più severa con gli Stati Uniti. Nelle sue stime pubblicate ieri vede crescere il disavanzo delle partite correnti americane dal 5.7 del 2005 al 6.4 del 2006. Da qui la possibilità di una svalutazione improvvisa del dollaro del 30 per cento e la stima di tassi a lungo al 4.5 quest’anno e al 5.3 nel 2006. Al partito degli ortodossi sono iscritti d’ufficio
quasi tutti gli economisti americani di area democratica, ma non solo. Finora hanno sbagliato praticamente tutto.
I postmoderni (li chiamiamo così perché dicono che questa volta è tutto diverso) hanno invece guadagnato su tutta la linea. Hanno goduto di tutti i carry trade in circolazione. Si sono finanziati in yen e sono stati in dollari, investiti a loro volta in obbligazioni a lungo e per di più di bassa qualità. Hanno avuto più fiducia nell’espansione e sono quindi stati più pesati sull’azionario. I postmoderni sono una coalizione piuttosto eterogenea. I primi, ancora nel 2003, sono stati i teorici della Bretton Woods 2. Cina e Stati Uniti, hanno sostenuto, sono perfettamente complementari. Da soli hanno ogni genere di problema, ma considerati insieme sono in completo equilibrio e costituiscono un motore potente per una crescita globale non inflazionistica e assolutamente non dannosa per i bond. Con il passare del tempo questa posizione, inizialmente isolata, ha conquistato consensi nel mercato. L’ultimo convertito è Bill Gross di Pimco, che l’anno scorso parlava di inflazione e di crollo dei bond e ora dice che abbiamo davanti qualche anno con il decennale tra il 3 e il 4.5 per cento. Ai postmoderni sono federati molti economisti di area repubblicana, primo fra tutti il Bernanke che teorizza che nel mondo c’è sovrabbondanza di risparmio e che gli Stati Uniti, assorbendo il risparmio altrui, non sono cicale da condannare ma benefattori da ringraziare.
Il paradosso è che questa contesa tra ortodossi e postmoderni è in buona parte una guerra civile tra keynesiani di formazione e keynesiani di fatto. Sono keynesiani di formazione gli Stiglitz, i Krugman e tutti gli economisti di area democratica che si rifanno politicamente a Rubin. Essendo all’opposizione devono parlare male di Bush (che è keynesiano di fatto) e devono dire quindi che il mondo va male oggi e andrà ancora peggio domani. Sono invece keynesiani di fatto i postmoderni accademici e i repubblicani che li affiancano (che essendo al governo devono dire che tutto va bene oggi e andrà ancora meglio domani).
Chi sta sui mercati deve farsi legare all’albero della nave, come Ulisse, prima di ascoltare le sirene catastrofiste ortodosse da una parte e le sirene rassicuranti dall’altra. Il fatto che i postmoderni abbiano avuto ragione fino a questo momento non significa che tutto andrà bene per sempre. Il fatto che gli ortodossi abbiano avuto torto non esclude che il loro momento si stia avvicinando, Arrivati al 4 per cento sui bond non c’è del resto bisogno di adottare un paradigma ultraforte e dire che andremo al 3 per cento. Per la forza recente dei bond ci sono molte spiegazioni tecniche più che sufficienti. Si può dire ad esempio che i riscatti (effettivi o temuti) su molti fondi obbligazionari ad alto rendimento sono stati parcheggiati in titoli governativi. Oppure si può avanzare l’ipotesi che la Fed, in un momento delicato per alcuni fondi hedge, abbia scelto di tacere completamente sull’enigma dei tassi bassi (anche se sono oggi di 15 punti base più bassi di quando Greenspan ha parlato di conundrum) e incoraggiato il rally. Con i governativi forti, infatti, i credit spread tendono gradualmente a ridursi e la stabilità ritorna anche sui corporate bond. Altre volte, in questi tre anni, abbiamo visto i tassi avvicinarsi al 4 per cento (che una volta è stato anche bucato fino al 3.37). Tutte le volte si è poi tornati indietro. La nostra scommessa è che anche questa volta vedremo il 4.30 prima del 3.70.
Con il ciclo espansivo che ha probabilmente percorso i due terzi della sua strada bisogna essere particolarmente flessibili e pragmatici. Bisogna navigare a vista, perché non sapremo fino alla fine se “questa volta è diverso”, come dicono i postmoderni, oppure se finirà con i tassi in rialzo accelerato (come ha detto di recente Kenneth Rogoff di Harvard) e il dollaro in caduta libera.A favore dei postmoderni c’è il contesto strutturale deflazionistico, che permette ai policymaker di premere senza pudore l’acceleratore fiscale e monetario come non si faceva dagli anni Trenta. A favore degli ortodossi c’è il fatto che la curva di Phillips negli ultimi anni è più piatta di un tempo ma non è certo piatta del tutto. La Fed dice che il mercato del lavoro ha ancora un certo spazio (Bernanke l’ha confermato oggi), ma fra un anno, massimo 18 mesi saremo in piena occupazione. A quel punto o inizierà un ciclo di inflazione salariale, oppure la crescita dovrà essere frenata con le buone o con le cattive. Per gli asset finanziari, quindi, vale ancora la pena schierarsi con gli eterodossi per tutto quest’anno (lunghi di equity e non corti di bond) ma dall’inizio del 2006 sarà bene tenere costantemente d’occhio l’uscita. A fine ciclo tutto si complica e i nodi vengono al pettine anche nel più morbido degli atterraggi.
Venendo a questioni di breve termine, il petrolio in fase di stabilizzazione appare la migliore garanzia per un proseguimento dell’espansione globale senza troppe scosse. I sauditi hanno mille motivi per rifornire adeguatamente il mercato. Da una parte è loro interesse troncare sul nascere il risveglio di attenzione per i fossili alternativi, per il carbone, per il gas liquido e per il nucleare. Dall’altra, a casa loro, la crescita costante dell’opposizione radicale alla famiglia regnante li induce a riavvicinarsi agli Stati Uniti.
Quanto ai timori di rallentamento cinese, avanzati di recente da Stephen Roach, non c’è al momento nessuna evidenza. Il governo intende certamente riorientare la crescita, limitando la bolla immobiliare e razionalizzando l’uso delle materie prime, ma l’obiettivo del 9 per cento (l’Ocse ha alzato la sua stima al 9.5) è intatto.
I dati macro americani, dal canto loro, dopo un aprile forte indicano un maggio appena più incerto. Le imprese hanno ridotto le scorte e continuano a investire con una certa prudenza. Che questo avvenga in una fase già avanzata del ciclo è degno di nota. Di solito, infatti, dopo tre anni di ripresa le imprese si rilassano e iniziano a spendere con meno freni. Meglio così, comunque. Il ciclo potrà durare più a lungo e l’erosione dei margini sarà più lenta.
I referendum europei, infine. Il fatto che si sappia perfettamente come andrà dovrebbe togliere volatilità ai mercati. Anche un esito ancora più negativo del previsto, in ogni caso, avrà l’effetto di rallentare l’integrazione europea, non di arrestarla né tanto meno di invertirne la tendenza. Il fatto che l’est europeo mostri negli ultimi tempi meno voglia di adottare l’euro non c’entra con la crisi d’immagine dell’eurocrazia ma con la riluttanza a legarsi a un cambio fisso troppo presto e troppo in alto, vista anche l’esperienza dell’Italia. Ad ogni modo, prima di esagerare con l’europessimismo, si consideri che i referendum sono in parte bilanciati da quanto sta avvenendo in Germania. Chiunque vinca il 18 settembre, il processo di riforme accelererà. La Germania, del resto, già oggi va meglio, congiunturalmente e soprattutto strutturalmente, di quanto non sia percepito dai mercati.
Operativamente, sui cambi è bene considerare per quest’anno una no fly zone l’area tra 1.20 e 1.30 tra euro e dollaro. E’ più facile farsi male che fare soldi. Sui bond, come abbiamo detto, ci sembra terminato il flight to quality. Anche sull’azionario è finito il recupero da ricoperture e da qui in avanti si dovrà avanzare più lentamente, seguendo il ritmo dei fondamentali.
(27 maggio 2005) la lettera finanziaria