20/02/19 Il fatto quotidiano
Costruzioni Troppo piccoli per resistere. Cdp vuole la fusione dei Big - di Carlo Di Foggia
L' operazione - Dopo aver sprecato il bonus delle spartizioni anni 80-90, oggi i colossi sono schiacciati dai debiti. La Cassa punta a far nascere un unico gruppo, ma le vecchie famiglie devono farsi da parte. Lo scontro con Salini
Sembra un film già visto, solo che stavolta una soluzione definitiva va trovata e la politica è più debole che mai. A trent' anni dal tramonto dell' Italstat, per la seconda volta l' Italia è alle prese con il disastro dei colossi delle costruzioni. Nell' ultima operazione "di sistema" - che ha come perno la pubblica Cassa Depositi e Prestiti e il solito campione nazionale - vengono al pettine i nodi di un capitalismo senza capitali, con famiglie imprenditoriali litigiose e logiche aziendali obsolete, ormai al tramonto.
La parte visibile è nota. I colossi del mattone sono in ginocchio. Il numero due italiano, Astaldi (3 miliardi di fatturato), ha chiesto il concordato preventivo; Condotte (496 milioni) è in amministrazione straordinaria; Trevi (855 milioni) è alle prese con una difficile ristrutturazione; Grandi Lavori Fincosit (201 milioni) è in concordato; Tecnis (300 milioni) è commissariata; e il gruppo cooperativo Cmc Ravenna (1,1 miliardi) ha chiesto il concordato preventivo. In ballo ci sono commesse per 37 miliardi, 28 mila dipendenti e un fatturato di 6,5 miliardi, a fronte di debiti lordi, tra banche e obbligazioni, di 7 miliardi.
Come sempre, nei disastri italiani, nessuno degli attori spiega le ragioni della disfatta.
Il settore non è mai uscito dalle logiche spartitorie degli anni 80, quando all' Iri sedeva Romano Prodi e sotto di lui c' era l' Italstat di Ettore Bernabei, vero ministro dei Lavori pubblici. Funzionava così: lo Stato affidava i lavori all' Italstat, che poi li subappaltava a colossi pubblici (Italstrade, Condotte) e privati (Lodigiani, Girola, Cogefar etc.) riuniti in consorzi per non pestarsi i piedi. Uno schema illuminato dalle inchieste giudiziarie. Il braccio destro di Bernabei, Mario Zamorani racconterà al pm veneziano Carlo Nordio che indagava sugli appalti del consorzio Venezia Nuova del Mose, che le quote erano precise: 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle coop rosse. La spartizione era studiata per prevenire l' opposizione alle grandi opere.
Dopo 30 anni, il sistema è lo stesso e le quote pure. Quando all' inizio degli anni 90 le inchieste di Mani Pulite travolgono i signori delle costruzioni, il mercato dei grandi appalti crolla. Lodigiani, Girola e la Impresit-Cogefar della Fiat danno vita a Impregilo (Condotte sarà privatizzata nel '97).
Per evitare il collasso la politica escogita l' ennesima soluzione ecumenica, lo stesso meccanismo di spartizione a monte tra le imprese (con retrocessione alla politica degli extra-costi) si trasferisce sull' Alta velocità. Nel '91 il gran capo delle ferrovie Lorenzo Necci lo codifica nei consorzi ferroviari: i Cepav, gli Iricav, i Cavet si dividono le tratte. Dentro ci sono tutti con le solite quote. Necci promise che il 60% dei costi sarebbe stato dei privati. Nel '94 erano già lievitati del 30%. Ivan Cicconi la definì nel Libro nero dell' Alta velocità "la grande abbuffata". Lo Stato si accollerà costi per 90 miliardi.
Trent' anni dopo si torna alla casella iniziale. I grandi contractor hanno sprecato il bonus dell' Alta velocità senza modernizzarsi. Nessuno di quelli in crisi compare tra i top 25 costruttori europei (dati Guamari). Insieme non fanno il 20% del fatturato della sola francese Vinci. Lavorano con commesse spesso in perdita e grandi debiti con le banche che li tengono in vita. A marzo 2018 Astaldi aveva debiti lordi per 2,3 miliardi, 1,6 netti, a fronte di ricavi per 3 miliardi.
Il margine industriale viene risucchiato dagli oneri finanziari. Schiacciati da 6,5 miliardi di debiti lordi (2,7 netti), i gruppi in crisi lavorano con un patrimonio netto di soli 1,7 miliardi. I ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione hanno pesato nel disastro, ma nei bilanci spesso vengono indicati come causa anche i contenziosi lievitati per le varianti (i "lavori aggiuntivi non contrattualizzati"), rese più difficili dal nuovo Codice degli appalti. Così i gruppi si sono buttati all' estero (che vale in media il 58% dei ricavi), spesso in Paesi "difficili", senza avere l' organizzazione manageriale necessaria. Il risultato è un bagno di sangue che minaccia le banche creditrici (da Unicredit a Intesa, da Bpm a Bnl). C' è poi il nodo obbligazioni. Astaldi, per dire, ne ha per 800 milioni (scadenza 2020), un terzo finite a piccoli risparmiatori. Cmc per 500 milioni.
Oggi i protagonisti del mercato vedono un' unica soluzione: la fusione dei colossi in crisi con iniezioni di denaro pubblico. Servono una regia e un aggregatore. La prima è in mano alla Cassa depositi e prestiti guidata da Fabrizio Palermo, al secondo ruolo punta Salini-Impregilo. Il gruppo guidato da Pietro Salini, primo costruttore italiano, è il meno malato, nonostante un debito netto finanziario di 1,1 miliardi. Nei giorni scorsi ha presentato una proposta per salvare Astaldi che lo porterà ad avere il 65% del gruppo, con il 28% che finirebbe alle banche dopo la conversione di parte dei crediti e la famiglia Astaldi diluita al 6,5%. Salini pretende anche l' ingresso di Cdp. Palermo, però, si muoverà solo in un' operazione di sistema che coinvolga tutti i colossi malati, a partire da Condotte. Cdp punta a creare una public company con una gestione manageriale moderna senza il fardello delle vecchie famiglie proprietarie, dagli Astaldi ai Bruno (Condotte).
Al momento l' ostacolo più grande è però proprio Salini, che non ne vuol sapere di farsi da parte dopo aver fatto il federatore. Dall' esito dello scontro dipende il futuro di un pezzo enorme dell' economia italiana. Che da 30 anni attende una svolta.