Macroeconomia Crisi finanziaria e sviluppi

Attenzione agli investimenti.

Quando il risparmio fa crac venti miliardi andati in fumo

Tanto hanno perso i "bot-people", dall'Argentina alla Parmalat. Un milione gli investitori traditi, il muro delle banche. Solo il 26% è stato rimborsato

di ETTORE LIVINI

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Un gruppo di risparmiatori davanti al tribunale del processo Parmalat

La Repubblica - 06.08.2010
Un milione di italiani coinvolti. E 20 miliardi di risparmi (a volte tutti quelli messi da parte in una vita di lavoro) andati in fumo. La contabilità dei danni patiti dagli ex-Bot-people per gli scandali e i crac finanziari di inizio millennio è un numero, purtroppo, in continua evoluzione. L'Argentina ha quasi chiuso la scorsa settimana le sue pendenze con l'ultimo drappello dei 440mila investitori tricolori travolti dal default dei Tango Bond di Buenos Aires restituendo loro il 35% di quanto avevano investito. Decine di migliaia di ex azionisti Giacomelli, Finmatica e Parmalat conservano ancora nei loro conti in banca titoli diventati carta straccia. Normale amministrazione in un paese dove l'educazione finanziaria è vicina allo zero, i debiti non li onora nemmeno lo Stato (vedi i bond Alitalia rimborsati al 70,9%) e dove gli ex-obbligazionisti della Finmek - per sperare di rivedere qualche centesimo dei 150 milioni versati nelle casse del gruppo - dovranno aspettare l'esito delle cause con le banche: prima udienza fissata nel 2017.... Il bilancio di questo Monòpoli a perdere è nei numeri: i risparmiatori italiani, orfani delle super-cedole dell'era della lira, hanno perso l'orientamento. Traditi dal miraggio di rendimenti da sogno, da truffatori di professione e da consulenti interessati hanno puntato dal 2000 ad oggi 27 miliardi su aziende e Stati finiti poi ko. E ad oggi sono riusciti a rientrare solo del 26% circa del capitale che avevano investito. C'è la speranza di recuperare ancora qualcosa? Qual è stato il ruolo, nel bene e nel male, delle banche e dei consulenti? E la durissima lezione degli ultimi dieci anni, almeno, è servita a qualcosa?

LA CLASSIFICA DEI RIMBORSI
Carta canta. Argentina e Parmalat, le due Caporetto del risparmio italiano (560mila persone e 21 miliardi in ballo) sono i casi in cui, alla fine, si è perso di meno. La doppia offerta di Buenos Aires ha garantito poco più di un terzo del capitale. Chi non ha accettato, ha ora davanti un iter giudiziario ad ostacoli ancora alle prime battute. La cura di Enrico Bondi non ha potuto salvare gli azionisti Parmalat ma ha regalato ai titolari di bond di Collecchio - travolti dal buco da 14 miliardi - un rientro forse inatteso. Il rilancio industriale del gruppo ha consentito di trasformare i loro bond in azioni. Le transazioni da 2 miliardi chiude hanno fatto correre i titoli. E oggi i "sopravvissuti" ai Tanzi hanno recuperato - dividendi compresi - quasi il 40% dei loro quattrini.
Un po' più lento è stato l'iter del gruppo Cirio. I tre commissari hanno venduto attività per circa 390 milioni, di cui 325 sono già stati girati ai risparmiatori che avevano comprato bond da Sergio Cragnotti per 1,15 miliardi. Delle sette emissioni, tre sono state rimborsate con percentuali tra il 6,25% e il 50%. "E due altre restituzioni sono ormai in rettilineo d'arrivo - assicura il Commissario Luigi Farenga - in attesa dell'appello sulla sentenza che ha obbligato Capitalia, ora Unicredit a risarcirci per 300 milioni".

I GUAI DEI PICCOLI
Il discorso è diverso per i crac minori, quelli "fuori dai riflettori della pubblica opinione", come li chiama Gianluca Vidal, commissario straordinario della Finmek. Qui di polpa da vendere ne resta poca, le cause sono più difficili da seguire. E i rimborsi si misurano con il contagocce. Giacomelli, per dire, ha portato in libri in tribunale con pochissime attività da vendere visto che dei suoi negozi di articoli sportivi controllava solo i marchi. I curatori hanno recuperato 25 milioni da una transazione con Deloitte, piazzato a prezzi di realizzo qualche piccolo asset. "Ma di soldi per ora zero", si lamenta Ernesto Falcone che in tasca si trova 6mila euro di bond del gruppo. "E zero rimarranno anche secondo noi" scommette Marco Elser, socio fondatore di Advicorp, società italo-inglese che fa un po' da punto di riferimento per i valori dei cosiddetti titoli-spazzatura. "Il motivo è semplice - spiega Vidal - . Quando queste piccole aziende stanno per fallire, le prime spese che non pagano sono le tasse e il Tfr. Fisco e dipendenti sono creditori privilegiati. E così gli obbligazionisti arrivano di solito per ultimi". E restano spesso, alla fine, con un pugno di mosche in mano. Per molti un disastro umano: "Una pensionata di 89 anni mi ha scritto che non poteva più mangiare perché aveva perso tutti i suoi risparmi, 15mila euro, con i bond Finmek - continua Vidal - . Ma io non posso farci niente. Ho fatto causa alle banche e non ho il coraggio di dirle che la prima udienza è nel 2017!". "È il solito problema italiano: la giustizia è troppo lenta", conferma Antonio Passantino, alla guida del fallimento Finmatica, ex star della new economy caduta dalle stelle alle stalle per distrazioni in bilancio. Lui ai risparmiatori ha restituito il 7% ma una nuova tranche "arriverà entro qualche mese". E per Elser il recupero finale sarà tra il 15 e il 20%.

I crac di Serie B, insomma, sono figli di un Dio minore. "Noi non siamo mai stati ricevuto da un curatore fallimentare pagato profumatamente - dice Marcello Gualtieri, rappresentante degli obbligazionisti Finpart - . Non è stato emesso un comunicato per spiegarci cosa stava succedendo, nemmeno con un sito internet". Anche se, magra consolazione, lui e i suoi soci hanno già recuperato il 15% del capitale investito.

IL RUOLO DELLE BANCHE
Luisa Riffaldi Cambieri, 80 anni, una vita di lavoro alle Generali in Piazza Cordusio a Milano, ha un sorriso amaro: "Ho vissuto la guerra, ho passato anni a tirare la cinghia. Poi, alla fine, a rovinarmi la vita è stata l'ultima persona che mi aspettavo: il mio banchiere di fiducia". "Sono stata cliente dal '52 della stessa agenzia sotto casa mia, in Porta Romana - continua - . Dieci anni fa, quando io il mio povero marito abbiamo ritirato la liquidazione, siamo andati a chieder consiglio a loro su come investirla. Di chi altro dovevamo fidarci?". Con il senno di poi è facile a dirsi: di chiunque altro. "Tutti i miei risparmi, 33mila euro, sono stati investiti in bond Parmalat. I 25mila euro messi da parte da mio marito dopo una vita alla saldatrice, sono finiti in titoli Argentini. E badi bene che avevo detto di non esser golosa di rendimenti alti". Più bassi di così, in effetti, è difficile. La signora Luisa oggi ha in tasca circa 6mila euro di azioni di Collecchio ("se non avessi 80 anni andrei ad aspettare Tanzi sotto casa con il bastone...") e un bond di Buenos Aires che verrà pagato nel 2038. "Quando avrò 108 anni!".

È stata imprudente lei o è stata mal consigliata dalla banca? "La verità è che il mondo bancario ha i suoi interessi e negli ultimi anni ha piazzato titoli ad alto rischio a investitori sprovveduti", dice forte della sua esperienza Antonio Passantino, il liquidatore di Finmatica. La vecchia Popolare Lodi regalava auto di lusso agli impiegati che riuscivano a collocare più bond del gruppo. "Per un bel po' di tempo abbiamo venduto solo polizze, certificati di investimenti e altre invenzioni finanziarie con un'unica costante: realizzare commissioni al 10% per la banca", ha ammesso "Un bancario in crisi" in una lettera a Il Sole 24 Ore pochi mesi fa.
Generalizzare, naturalmente, è un errore. Ci sono banche che hanno fatto bene il loro mestiere, altre meno. Ma qualche problema c'è, se come ricorda Elio Lanutti - parlamentare Idv e presidente della commissione finanze del Senato - "sul sito di Patti chiari, il portale voluto dalle stesse banche per garantire trasparenza e informazioni ai consumatori, i bond Lehamn sono rimasti nella categoria dei titoli a basso rischio anche dopo il crac della banca Usa".

LA STRADA (IN SALITA) DELLE CAUSE
Le banche, forse con un po' di coda di paglia, hanno provato a metterci una toppa. Già dal 2005 hanno aperto tavoli di conciliazione con i propri clienti, esaminando caso per caso se erano stati venduti prodotti finanziari a rischio senza adeguate informazioni. Dati ufficiali non ce ne sono, ma le indiscrezioni parlano di circa 30mila richieste di rimborso, accolte più o meno nel 50% dei casi con la restituzione di cifre comprese in media tra il 20 e l'80% del capitale investito. Dopo Lehman e Islanda in molti hanno preferito rimborsare, spesso al 100%, sofisticate polizze index-linked e altri prodotti strutturati la cui caratteristica principale, dal punto di vista del venditore, era il margine di guadagno altissimo. "Qualche volta gli istituti sono arrivati a ribaltare le carte in tavola - accusa Lanutti - . Come su Argentina e Parmalat dove si sono inventati "task force" per aiutare le cause dei risparmiatori contro Buenos Aires e Collecchio solo per evitare quelle contro di loro".

L'Italia del resto, come testimonia la nostra ingloriosa leadership europea per numero di vittime di Argentina e Lehman, è un paese a basso tasso di consapevolezza finanziaria. Incapace non solo di prevenire i guai ma pure di affrontarli quando capitano. Alle banche, come ai medici, si crede quasi per fede. E pochissimi, non a caso, hanno scelto la strada del muro contro muro, chiedendo loro risarcimenti per vie legali dopo essere stati travolti dai crac.

"La causa individuale costa troppo", ammette Carlo Federico Grosso, rappresentante del Comitato di 32mila correntisti di Intesa SanPaolo che si sono costituiti parte civile nei processi Parmalat incassando già 75 milioni. "A me hanno chiesto 600 euro solo per aprire la pratica, si figuri", dice la signora Luisa. Lo stesso Ombudsman bancario, l'organismo incaricato di trovare una conciliazione tra banche e risparmiatori su queste questioni, ha affrontato negli ultimi anni circa 4mila casi ogni dodici mesi, una goccia nell'oceano dei truffati. Oggi poi, grazie alle firme in calce alla voluminosa (e spesso illeggibile) documentazione informativa imposta dalle nuove norme della Mifid per testimoniare l'avvenuta informazione, le banche hanno ridotto quasi a zero i rischi di contenzioso.

L'ARMA SPUNTATA DELLA CLASS ACTION
La Mifid non è l'unica eredità normativa tricolore della stagione degli scandali. L'altra, in teoria più importante, è la nuova legge sulla class action. L'arma letale con cui - da Erin Brockovich in poi - i risparmiatori Usa hanno vinto le loro epiche battaglie contro i responsabili dei crac di inizio millennio. I vantaggi della causa collettiva - che nel solo caso Enron, per dare un'idea, ha consentito di recuperare da banche d'affari e società di rating varie 7,6 miliardi di dollari - sono chiari: tutti i presunti danneggiati si uniscono in un'unica grande azione legale coordinata da figure esperte e autorizzate. Risultato: si dividono le spese e la massa d'urto per far valere le proprie ragioni è decisamente superiore. Il potenziale è enorme. Se tutti i risparmiatori europei travolti da Enron, Tyco, Lehman e Bear Stearns varie si fossero uniti alle cause Usa avrebbero recuperato 3,6 miliardi in più, calcola il Think tank inglese Goal.

Peccato che la class action all'italiana, come spesso accade da noi, sia nata zoppa. Se non altro perché non prevede la retroattività. L'azione è possibile solo per fatti avvenuti dopo il 16 agosto 2009. Salvando così i responsabili dei crac Parmalat, Cirio & C. "Senz'altro è uno strumento utile", ammette Elser anche se "ci vorrà del tempo per riuscire a capire come farlo funzionare", dice Grosso. La legge però - dicono gli esperti - lascia molte aree grigie sulla sua applicabilità per reati legati ai crac finanziari. Toccherà così ai singoli tribunali valutarne le possibilità d'applicazione. E se il buongiorno si vede dal mattino, il cammino sarà in salita: la prima class action tricolore - una causa varata da Codacons contro IntesaSanpaolo sulle commissioni di massimo scoperto - è stata bocciata come inammissibile. La via crucis dell'armata Brancaleone del risparmio tradito nel Belpaese, purtroppo, non è ancora finita.
 
Orban Bets Hungary Isn't Next Greece as He Shuns IMF Spending Cut Demands

By Balazs Penz - Aug 9, 2010 12:01 AM GMT+0200 Sun Aug 08 22:01:00 GMT 2010


Viktor Orban, as a student leader in 1989, urged Hungarians to fight for “political liberty” from the Soviet Union. Now, he’s calling for Hungary to reclaim “economic self-rule” from the International Monetary Fund.
Hungary’s premier is resisting IMF demands for more budget cuts after he won a landslide election victory by pledging to end five years of austerity. That has put him out of step with countries from the U.K. to Romania that are slashing spending after Greece’s ballooning debt undermined investor confidence.
Orban, 47, is choosing his own path for the same reason he opposed Soviet domination: to build Hungary’s stature and his own power, said Padraic Kenney, author of two books on the fall of communism in eastern Europe. Hungary’s financial situation, with a budget deficit lower than all but five European Union states, may give him room to do so.
“He wants to leave a Hungary that is prosperous and self- sufficient and a respected European partner,” said Kenney, a professor at Indiana University in Bloomington. “You don’t do that by kowtowing to the IMF.”
Soviet tanks pulled out in 1991 as communism collapsed, putting Hungary on the path to EU membership in 2004. Today, some investors are concerned the IMF’s departure will put Hungary on the path to default.
The cost of insuring Hungary’s debt against default jumped to 316 basis points on Aug. 6 from a low of 167 basis points on April 14, before Orban won a two-thirds majority in parliament.
Orban’s message, geared to domestic voters in the run up to municipal elections rather than international investors, has roiled financial markets twice since he took office in May.

‘Markets Dislike Them’

The forint plunged 4.6 percent against the euro June 3-4 as officials of Orban’s Fidesz party said the former administration left Hungary at risk of a “Greek-like” crisis. It fell again July 19, dropping 2.6 percent after the IMF and EU ended a review of Hungary’s 20 billion-euro ($26.5 billion) bailout because the government rejected further budget cuts.
The government “is trying to do its utmost to not market themselves to investors,” said Lazlo Belgrado, who helps manage 3 billion euros of emerging-market bonds at KBC Asset Management SA in Luxembourg. “The more the markets dislike them, the happier they seem to be.”
Orban’s position may have stronger foundations than many investors think, said Agnes Belaisch, an emerging-market strategist at Threadneedle Asset Management Ltd. in London and a former senior economist at the IMF.

IMF ‘Success Story’

The European Commission estimates Hungary’s budget deficit at 4.1 percent of gross domestic product this year, compared with an EU average of 7.2 percent and 9.3 percent in Greece. Government debt will be 78.9 percent of GDP, versus 84.7 percent in the euro area and 124.9 percent in Greece.
Hungary is an IMF “success story” after narrowing its deficit from 9.3 percent in 2006, Belaisch said. Five years of austerity help explain the country’s unwillingness to accept “double standards,” she said.
Hungarians “are fed up with the pressure; it’s reform fatigue,” she said. “It’s not the same thing as Greece.”
While Hungary raised less money than planned at a debt auction three days after the IMF and EU suspended talks, it has sold more bonds and Treasury bills than planned at the last three offerings, with borrowing costs declining at each.
Demand for Hungary’s debt shows the government can finance itself without the safety net of the IMF, Deputy Economy Minister Zoltan Csefalvay said.
“This is a very good sign,” he said in an interview. “It strengthens our confidence.”

Reburying Nagy

The road to Hungary’s defiance began in 1988, when Orban founded Fidesz, the Hungarian acronym for Alliance of Young Democrats, with 36 other intellectuals while studying law at Budapest’s Eotvos Lorand University.
Orban rose to prominence on June 16, 1989, at the reburial of Imre Nagy, the prime minister martyred during the anti-Soviet revolution of 1956. Standing beside the coffins of Nagy and four other leaders of the uprising, the bearded 26-year-old called on Hungarians to “end the communist dictatorship.”
Five months later, the Berlin Wall fell, and Hungary began its transformation to democratic government.
He won a seat in parliament the next year and became prime minister for the first time in 1998, leading Hungary to the brink of EU membership as economic growth averaged 4.6 percent. Orban was ousted in 2002 by the Socialist Party, which raised public wages and pensions, widening the budget deficit.
In 2006, Orban seized on Prime Minister Ferenc Gyurcsany’s leaked admission of having lied about the economy to gain victory. The revelation triggered Budapest’s worst violence in 50 years, with Orban leading rallies to oust the premier.

Electoral ‘Revolution’

While Gyurcsany’s government survived the protests, raised taxes and reduced spending, the global financial crisis triggered Hungary’s first recession in 18 years. Hungary became the first European country to seek a bailout from the IMF in 2008, and Fidesz defeated the Socialists in April.
Orban declared the election result a “revolution.” He has refused to implement further budget cuts, relying largely on a bank tax equal to 0.5 percent of each banks’ assets, three times larger than any other country has imposed, to control the budget deficit.
While the government agreed to honor a pledge to cut this year’s shortfall to 3.8 percent of GDP, it has sought to relax the 2011 target of 2.8 percent imposed by the IMF and EU.
“We want to restore the lost economic self-rule of Hungary, because there is no economic growth without,” Orban, now clean-shaven and wearing a business suit, told parliament July 22.
Orban is pursuing his legacy, just as he did 1989, said Robert Bideleux, a professor at Swansea University in Wales.
He “wants to go down in Hungarian history as a great nationalist patriot who pursued Hungary’s great aspirations,” said the author of “A History of Eastern Europe: Crisis and Change” (Routledge 1998). “I don’t think he’s terribly interested in the technocratic concerns of the IMF and the EU.”



(Bloomberg)
 
EDITORIAL: Sweden as Japan's model

2010/08/09



Prime Minister Naoto Kan likes to talk about Sweden as a country that has accomplished an enviable combination of "a strong economy, robust strong finances and a strong social security system," his overarching policy goal. Can this Scandinavian country serve as a model for Japan?
Sweden certainly has a remarkable economic and fiscal track record. The country has swiftly emerged from the global recession triggered by the collapse of U.S. investment bank Lehman Brothers in 2008 and is on track to achieve economic growth of 3 percent or more this year. While major European countries are all struggling to reduce their swollen budget deficits, Sweden's budget is in surplus.
Economic globalization has created myriad new growth opportunities. On the other hand, it has also left society exposed to unpredictable risks. Sweden, though, is also pulling through the sovereign debt crisis that started in Greece. The country's strong social safety net, which covers a broad range of welfare needs, including health care, childcare and job security, serves as a buffer against economic shocks.
It is generally believed that increasing public spending in areas like social welfare and education doesn't generate much in the way of economic growth. The fact is, however, income gaps have widened in Japan and the United States, which have acted on that theory, while the Scandinavian countries, which impose a heavy burden on taxpayers to sustain their high level of social welfare, are showing solid economic performances.
It is understandable that the Kan administration is trying to learn lessons from the success of these countries for Japan's economic management. But there is a flipside to this utopian picture.
First of all, citizens in these countries have to bear extremely heavy tax loads. Tax payments eat out about half of workers' wages. Consumers pay steep value-added tax at a maximum rate of 25 percent. Government employees account for one-third of the national workforce, including workers in areas like childcare and medical care. The government seldom if ever bails out a company that has fallen into serious financial trouble.
These countries also adopt thorough information disclosure rules that allow citizens to know not only policy discussions within the government but also even the income of others. Both the government and the public provide all relevant information about themselves to avoid arousing suspicion.
The "utopia" was built through years of choosing one thing over another. If so, what Japan should learn from Sweden is its way of politics, which has made it possible for the nation to make tough policy decisions constantly, rather than its system to maintain a high level of welfare in exchange for a heavy tax burden.
There have been no radical changes in the country's basic fiscal and social security policies despite power transfers. That's because of the political tradition of exhaustive debate on policy issues between political parties. An agreement on a reform of the public pension program was reached through some 10 years of debate among parties.
The country has also pushed through radical decentralization of power. There is little corruption among politicians and bureaucrats. These efforts have fostered solid public trust in politics, which has allowed the government to take measures that inflict pain on the public.
Japanese politics is also facing a raft of intractable issues, such as fiscal woes and troubled tax and social security systems. Clearly, the government needs to step up its efforts to tackle these urgent challenges, but the Upper House election in July has apparently put the brake on such efforts.
No matter what direction Japan takes, its political leaders must not flinch from rising to these challenges because of bitter disagreements among the public on what should be done. If so, what is needed most to deal with these formidable policy challenges is the people's trust in politics.
It may not be realistically possible for Japan to adopt the generous welfare system financed by a heavy tax burden of a country with a population of little less than 10 million. But Sweden does offer some good ideas on how to secure public trust in politics.



(Asahi Shimbun)
 
Goldman e i paladini del capitalismo globale

Diario della crisi finanziaria: Ma cos'è davvero Goldman Sachs? (versione per stampa)
Autore: Marco Sarli

Ripropongo la serie di puntate dedicate a Goldman Sachs pubblicate nel luglio dello scorso anno, una riedizione che reputo necessaria alla luce delle recenti indagini federali su Goldman.

Nella puntata di mercoledì del Diario della crisi finanziaria ho dedicato ampio spazio all’analisi dei risultati relativi al secondo trimestre della potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, così come ho cercato in numerose altre puntate di offrire ai miei lettori qualche informazione su questa entità che è davvero difficile inquadrare sia nel contesto delle oramai ex Investment Banks, sia nell’ampio e variegato panorama creditizio più o meno globale, anche perché, anche dopo la forzata trasformazione in holding bancaria soggetta alla vigilanza della Federal Reserve avvenuta nell’autunno dell’anno scorso, tutto si può dire meno che Goldman abbia cercato di mutare pelle trasformandosi, come qualcuno aveva molto ingenuamente previsto, di diventare un’entità più ‘normale’.

Come ho ripetutamente sottolineato, la maggior parte dei ricavi e degli utili di Goldman provengono dall’attività di posizionamento su quasi tutto quanto viene trattato sui mercati regolamentati, un’operatività che spazia dai prezzi futuri delle materie prime energetiche e non, le derrate alimentari, i tassi di interesse, le valute convertibili, gli indici azionari o le singole azioni, attività che, peraltro, svolge in quasi perfetta solitudine da quando sono scomparse dalla scena Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, la prima e la terza assorbite, rispettivamente, da J.P. Morgan Chase per un classico piatto di lenticchie, e da Bank of America, che, come è stato ampiamente e documentalmente dimostrato nelle aule del Congresso americano, è stata praticamente costretta da Bernspan e Paulson a pagare un prezzo stratosferico per un’entità tecnicamente più che fallita e a cui non è stato neppure consentito di fare nemmeno uno straccio di due diligence.

Per quanto riguarda, invece, la scomparsa dalla scena della banca un tempo appartenente ai fratelli Lehman, il discorso sarebbe troppo lungo per essere affrontato in questa sede e mi vedo costretto a rinviare i lettori alle numerose puntate specificamente dedicate ai retroscena di quel funesto avvenimento dopo il quale nulla più è stato come prima, un avvenimento che non è mai stato spiegato in modo comprensibile e razionale dall’ex (?) investment banker Hank Paulson, numero uno indiscusso di Goldman sino a quando ritenne, a metà del 2006, opportuno assumere l’incarico di ministro del Tesoro degli Stati Uniti d’America e che, in tale veste, non si oppose in alcun modo allo ‘strangolamento’ della banca guidata da Dick Fuld a opera delle maggiori banche a stelle e strisce che le negarono l’accesso ai propri depositi presso di loro e ne determinarono quel fallimento che minacciò seriamente, nel successivo mese di ottobre del 2008, di determinare un default sistemico a livello planetario dei diversi soggetti protagonisti del mercato finanziario, un rischio talmente concreto da indurre i paesi del G20 ad assumere con inedita prontezza e determinazione misure realmente senza precedenti.

Non voglio assolutamente con questo dire che Goldman Sachs sia rimasta l’unica entità a operare nel cosiddetto mercato delle scommesse, ma certamente che non deve più guardarsi le spalle da tre delle quattro concorrenti aventi l’expertise e lo standing per rendere meno certo l’esito delle sue mosse, una circostanza che è ulteriormente rafforzata dal fatto che Morgan Stanley, l’unica delle ex Big Five statunitensi sopravvissuta insieme a Goldman, sembra oramai muoversi esclusivamente sulla scia della sua maggiore concorrente, che, a sua volta, non sembra preoccuparsi troppo dell’operatività delle banche universali a vocazione più o meno globale, troppo occupate a pulire i propri bilanci e troppo timorose delle reazioni dei propri non più docili azionisti per lanciarsi in scommesse più o meno azzardate!

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Se davvero la principale fonte di guadagni dei senior e junior partners di Goldman Sachs proviene dall’attività consistente nello scommettere sugli andamenti futuri di prezzi,indici, tassi e valute, è molto importante capire quanto le stesse abbiano le caratteristiche delle self fulfilling prophecies, cioè delle cosiddette profezie auto realizzantesi, che, a loro volta, sono rese possibili dalla forma che assume il mercato in cui si opera, dalla quantità e dal livello di informazioni di cui si dispone, dall’esperienza e preparazione delle persone direttamente impegnate, dalla qualità e dalla affidabilità del sistema informativo e operativo, nonché, the last but not the least dalle dimensioni e dal comportamento degli altri operatori.

Non è un mistero per nessuno che Goldman possiede, e alla grande, delle quattro condizioni esposte di sopra, così come correlativamente gode di una tale fama da indurre i competitors, che rappresentano la quinta condizione, ad assumere, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento cooperativo e non di contrasto, una fattispecie comportamentale particolarmente visibile nel mercato delle materie prime energetiche, con particolare riferimento a quello dove si determinano i prezzi presenti e futuri del greggio.

Dopo essere stata negata se non addirittura irrisa per decenni dai paesi produttori, dalle compagnie petrolifere e dai maggiori esperti del settore, la tesi che vede una larga prevalenza della componente speculativa nella determinazione del prezzo del petrolio è ora accettata e sostenuta proprio da coloro che così ostinatamente negavano che il prezzo fosse determinato da qualcosa di diverso dalla domanda e dalla offerta di questa importante materia prima, domanda e offerta a loro volta strettamente connesse alle diverse fasi del ciclo economico, anche se sulla base di un tasso di elasticità significativamente ridottosi a causa delle modificazioni strutturali intervenute nelle economie dei paesi maggiormente industrializzati negli oltre tre decenni trascorsi dal primo shock petrolifero.

Ma quanto è avvenuto tra il dicembre del 2007 e il luglio del 2008, quando, in piena tempesta perfetta e mentre il prodotto interno lordo statunitense iniziava a dare sempre più evidenti segnali di frenata, il prezzo del greggio infranse rapidamente tutti i record per poi portarsi al massimo storico di 147 dollari al barile, ha definitivamente chiarito come bastasse che tutti credessero possibile l’obiettivo dei 200 dollari entro la fine di quell’anno sostenuta dagli analisti di Goldman e rafforzata dalle previsioni miste ai desideri del numero uno della russa Gazprom per abbattere come birilli posti in fila i vari livelli un tempo giudicati inviolabili, una nuova corsa all’oro che vide in scia alle banche più o meno globali una massa sterminati di investitori più o meno istituzionali, tra i quali si distinsero anche molti fondi pensione, come il famoso Calpers, con la differenza che Goldman e le sue dirette concorrenti girarono per tempo le proprie posizioni, mentre la maggior parte degli altri investitori restarono intrappolati nella successiva discesa verticale dei prezzi del greggio innescata dalla reazione dei paesi produttori, Arabia Saudita in testa.

Ma quello che è accaduto tra la seconda metà del mese di marzo e la prima metà di quello di giugno dell’anno in corso, è stato davvero ancora più clamoroso, in quanto il quasi raddoppio del prezzo del greggio è intervenuto quando erano già noti i crolli dei PIL nel primo trimestre sia la di qua che al di là dell’Oceano Atlantico e mentre si assisteva alla bruschissima frenata della crescita di Cina, India e dintorni, ma quel movimento al rialzo del prezzo del greggio era davvero indispensabile perché si potesse realizzare quella altrettanto incredibile corsa dell’orso sui mercati azionari!

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Per avere un’idea vaga dei profitti derivanti dalle scommesse effettuate sui rialzi dei listini azionari verificatisi tra la metà di marzo e la metà di giugno dell’anno in corso, basta dare una scorsa ai grafici delle principali entità creditizie basate negli Stati Uniti d’America, a proposito dei quali mi limito a citare il passaggio dai 97 centesimi ai poco meno di 4 dollari nel caso di Citigroup o la poco meno che sestuplicazione dell’azione di Bank of America dal minimo di 2,50 ai qualcosa di più di 14 dollari, rialzi che traevano forza proprio dal segnale anticipatore della ripresa proveniente dal mercato delle materie prime energetiche, quello stesso segnale che ha fatto straparlare dei cosiddetti germogli verdi.

Comprendo pienamente l’imbarazzo dell’addetto stampa del nuovo inquilino della Casa Bianca di fronte alle domande sui successi di Goldman Sachs rivoltegli nel giorno in cui sono stati pubblicati i risultati del secondo trimestre, così come quello che avrebbe provato Obama se le stesse domanda gli fossero state fatte personalmente, in quanto buona parte di quei successi sono stati ottenuti esattamente con i metodi da lui, nonché dai suoi omologhi di Francia e Germania, fortemente censurati e da lui stesso indicati come una, se non la principale, delle cause che ci hanno condotti dritti, dritti nel meltdown finanziario ed economico attuale.

Il presidente dell’organismo incaricato di vigilare sugli strumenti derivati utilizzati per determinare i prezzi attuali e futuri delle derrate agricole ha appena dati il via a una serie di audizioni per capire se è il caso di estendere quei meccanismi di controllo che inchiodarono lo scomparso Raul Gardini per la sua operatività sulla soia anche ai futures e agli altri strumenti relativi al petrolio e alle altre materie prime energetiche, un ciclo di audizioni che durerà almeno due mesi e al termine del quale forse avremo la possibilità di capire se la nuova amministrazione intende realmente spuntare le unghie alla speculazione, un’eventualità nella quale ripongo ben poche speranze, ma che credo sarà molto legata al livello di pressione proveniente dall’opinione pubblica.

Non vi è dubbio che Goldman disponga di tutte le condizioni che rendono possibile operare con successo nel mercato delle scommesse, condizioni che ho sommariamente indicato nella puntata precedente, in quanto non solo dispone dei migliori specialisti e della migliore strumentazione disponibili, ma è anche dotata di sistemi, procedure e informazioni, tutti elementi sui quali vigilano i due Chief Operating Officer dei quali si è molto opportunamente dotata, ma è altrettanto certo che, oltre a queste condizioni indispensabili, Goldman Sachs dispone di un fattore di successo aggiuntivo che coincide nella rete di relazioni di alto e altissimo livello che le viene universalmente riconosciuto, una rete di relazioni forse unica al mondo e che viene coltivata con la massima attenzione e cura.

Non è, peraltro, un mistero per nessuno il fatto che un grande numero di persone che si sono formate e sono cresciute professionalmente in Goldman abbiano successivamente ricoperto importanti incarichi sia nel settore pubblico che in quello privato, così come è altrettanto noto che numerosi esponenti di primo piano della politica a stelle e strisce o di quella operante nei cinque continenti siano poi stati arruolati, senza i cento colloqui riservati ai normali candidati all’assunzione, a livelli più o meno elevati della banca, alcuni con contratti prevedenti l’impegno a tempo pieno, mentre ad altri sono stati riservati più o meno dorati contratti di consulenza, un sistema che ha reso quelle di Goldman Sachs delle porte girevoli dalle quali una parte dei potenti del pianeta entra e esce abitualmente e che rende elevatissima la qualità delle informazioni.

* * *

La vasta e fittissima rete di relazioni intessuta negli ultimi decenni da Goldman Sachs nei cinque continenti ha raggiunto negli ultimi tempi dimensioni inedite e tali da consentirle, forse unico caso tra le pur potentissime multinazionali della finanza e dell’industria, una capacità di influenza tale da non rendere del tutto ipotetica o fantasiosa l’idea che sia finita per essere una sorta di luogo di compensazione di interessi tra di loro apparentemente contraddittori, così come si presta a essere un’istituzione molto più efficace e rapida nel suo agire di consessi quali la commissione trilaterale o il gruppo Bildberg che, al confronto, finiscono per assomigliare di più a raduni di ex alunni di scuole prestigiose ed esclusive che a quella sorta di governo planetario cui vorrebbero più o meno dichiaratamente assomigliare.

Per fare qualche piccolo esempio della capacità che la banca statunitense ha di condizionare o, quanto meno, di influenzare le scelte dei governi e delle autorità monetarie in patria e altrove nel mondo, mi soffermerò brevemente sul caso italiano, sulla rete di riferimento di Goldman negli USA nei poco meno di due anni trascorsi dall’avvio della tempesta perfetta e nella davvero emblematica vicenda del salvataggio della AIG, chiarendo sin d’ora che si tratta solo di squarci, a volte casuali, di un velo molto fitto che avvolge l’operatività complessiva della banca.

Per quanto riguarda l’Italia, non è un mistero l’attribuzione di una consulenza prima a Romano Prodi e poi a Gianni Letta, in entrambi i casi quando i due erano liberi da impegni di Governo, mentre ancora più emblematica è la parentesi svolta da Mario Draghi al vertice della presenza di Goldman in Europa e nel comitato esecutivo globale della banca, una parentesi che si è collocata tra la fine del suo impegno decennale come Direttore Generale del ministero del Tesoro con delega sulle privatizzazioni e che si è conclusa con la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia e alla successiva assunzione della guida di quel Financial Stability Forum, poi allargatosi e trasformatosi in Financial Stability Group, cui è stata affidata dal G8 e dal G20 la riscrittura delle regole da applicare alla finanza globale, ma è altrettanto nota la presenza diretta o in via consulenziale di uomini Goldman sia nei governi presieduti da Prodi che in quelli guidati da Berlusconi.

Per dare un’idea della presenza di Goldman nell’amministrazione USA, anche in questo caso senza differenza alcuna tra amministrazioni democratiche e repubblicane, non basterebbe un libro, per cui mi limiterò a citare il caso degli ex ministri del Tesoro Robert Rubin e Hank Paulson (nonché di tre dei quattro vice di quest’ultimo), dell’ex presidente del New York Stock Exchange e poi esecutore testamentario di Merrill Lynch, John Thain, così come non si contano gli ex uomini di vertice di Goldman passati a guidare le principali banche e compagnie di assicurazione statunitensi o alla guida delle presenze statunitensi di banche e compagnie di assicurazioni basate altrove.

Mentre nulla si sa di come trascorra le sue giornate il ‘soldato’ Paulson dopo la fine del suo intensissimo impegno al vertice del dicastero del Tesoro, molto si discute sulla sua decisione di porre al vertice della di fatto nazionalizzata AIG Edward Liddy, un uomo che ha percorso quasi tutti i gradini della scala gerarchica in Goldman Sachs e che da poco si godeva una meritata pensione dopo aver guidato una compagnia di assicurazione e che non ha potuto esimersi dall’accettare la richiesta pressante di Hank in cambio di uno stipendio da un dollaro l’anno, ma che già sta meditando l’uscita dopo aver garantito in poche settimane il rimborso pressoché integrale in favore delle banche statunitensi e straniere, Goldman ovviamente in testa, che hanno ricevuto buona parte dei 180 miliardi di dollari ricevuti da quel TARP fortemente voluto dallo stesso Paulson.
 
corri corri corri ... botto cinese in arrivo
Chinese banks reportedly facing wave of bad loans Emerging Markets Report - MarketWatch
The Burning Platform, financial collapse, depression, war


hai comprato ai massimi e ora non ce la fai a (e non ti conviene) pagare ? nessun problema ... The end of responsibility - NYPOST.com

riassunto di appena 130 pagine della riforma finanziaria obamiana da 2 mila pagine .... come dice il report mancano ancora appena 243 regolamenti per attuarla, 243 è il minimo derivante dalle citazioni della riforma eliminati i doppioni ... Davis Polk Summarizes Fin Reg Reform... In 130 Pages | zero hedge

la situazione dopo tutte le migliaia di miliardi spesi a debito dei cittadini va sempre male Albert Edwards Explains How The Leading Indicator Is Already Back Into Recession Territory And Why The Japan "Ice Age" Is Coming | zero hedge

la soluzione ? rotative a palla :rolleyes: Goldman Explains The Imminent Launch Of $1 Trillion In QE 2; Muses On The Dreaded "Double D" | zero hedge


mi consolo leggendo Mazzalai L'ULTIMA SPIAGGIA! L'ETICA DEL FURTO! | icebergfinanza


azz ... oggi con tutti questi link sono stato decisamente invadente sul forum
 
In diretta dalla City - Usa da economia di consumo a economia di export?

Mr.Rosebud


lg.php

09.08.2010 MILANO (Finanza.com)
Da Londra un trader italiano di una banca internazionale, dietro la promessa dell'anonimato, ci guida sui mercati finanziari con il taglio operativo proprio di un professionista della finanza. Per mantenere intatta questa caratteristica si è scelto di non filtrare il commento originale, conservandone quindi anche i tecnicismi. Ecco di cosa si parla oggi nelle sale operative della City. Buona lettura

1 - DATI E MERCATI
Nonfarm Payrolls negativi (-131.000 contro attese di -65.000):
se in USA c'e' ripresa e' senza dubbio una "jobless recovery" (l'economia USA appare, infatti, incapace di creare posti di lavoro).
I mercati (ovviamente) reagiscono male:
a) Usd index perde terreno (-0.61%, a 80.33). Siamo a quasi il -10% da inizio Giugno.
b) Us Treasury yields in discesa (2Y a 0.51%, -2bps; 10Y a 2.82%, - 9bps). Libor US ai minimi di Maggio a 0.41%.
c) Equity "resistenti" con S&P -0.37% e Dow a -0.20%.
d) Ice Brent -1.12% ($80.7/b) e Gold +1.23%

2 - CONSIDERAZIONI
Il dato di venerdi e' sicuramente negativo (la logica non fa una "piega": senza lavoro non si puo' consumare e siccome il consumo pesa per il 70% del GDP USA, l'economia USA rallentera'). Ma e' interessante osservare:

a) equity "resistono". Secondo noi per due ragioni: 1) i tassi rimangono a zero (facile quindi "rollare i debiti" e mantenere in vita le cosidette "zombi corporates"; 2) la stagione di earnings e' positiva; 3) le corporate USA (e non) sono piene di "cash" (si spera che prima o poi lo usino per investire!). Tutto fa pensare che la fase di recupero del mercato azionario possa proseguire.

b) Usd e Usa yields scendono perche' la Fed e' oramai "focus" su manovre "non convenzionali", come il Quantitative Easing (= acquisto di govies a mercato aperto). Se i tassi rimarranno a zero il Usd potrebbe diventare la nuova currency di funding del carry trades?
E d'altra parte i politici USA non possono che dare il benvenuto ad un Usd debole (devono, infatti, trasformare gli USA da economia di consumo ad economia di export).

c) Il "double dip scenario", che alcune "cassandre" usano per fare marketing , sembra al momento escluso dai diversi mercati (in particolare equity, commodity e corporate bond). Se si dovesse verificare una nuova recessione e', secondo noi, possibile uno storno del 10%/15%.

d) EUR/USD continua a crescere per 3 ragioni:
- gli earnings delle banche europee hanno in qualche modo tranquillizzato i mercati;
- l'economia Europea sembra crescere mentre USA sono in rallentamento?
- la Fed e' pronta ad una nuova stagione di QE.

3 - DATI OGGI
Dovrebbe essere una giornata moderatamente positiva per equity e Eurusd.
Attesa per il FOMC di martedi (cosa si "inventera'" la FED?)
 
Dunque sono stato sette giorni a Londra e queste sono le mie considerazioni riguardo alla crisi, poi come ho postato non ho la palla di cristallo e potrei sbagliarmi però materialmente parlando e seguendo le esperienze fatte in questi giorni e premettendo che giravamao a piedi x diverse ore al giorno e prendavamo la metro almeno 4 volte al giorno :
"....... londra è una città vivissima sembra di vedere una citta in pieno boom economico........MA STA .....ZO DI CRISI ....DOVE STA? ci chiedavamo io e mia moglie, in sette giorni in cui ho girato il centro non solo ho visto 1 dico 1 che si è avvicinato a chiedere l'elemosina.................nel centro della city stanno costruendo 3 grattacieli uno spara 14000 mq di uffici ed era quello di mezzo come grandezza, ma si parla di complessi x cui in un cantiere ne costruivano almeno 2 di grattacieli...... da affittare ho visto un solo palazzo, ma si vedeva che era stato ristrutturato di recente, parlo della city ma al di fuori della city parecchi cantieri aperti, vi assicuro che di persone che cercano lavoro non ne ho viste .........a proprosito il palazzo dove affittavano uffici in questione era fuori dalla city.........ora non voglio dire di investire cifre spropositate in
etf real estate uk ma io un cippettino che arriverà allo 0.5% del capitale lo metto.....premetto sono impressioni personali però suffragate da una vacanza di sette giorni e premetto come già scritto che non ho la palla di cristallo x cui potrei sbagliarmi .........ciao a tutti
 
Sethi ... mah ... a Londra hai visto anche Cameron o Clegg in bici o in metro ? te li immagini i nostri ? Cameron viaggia in British Airways come un qualsiasi cittadino, arriva pure tardi :) ... gireranno tanti soldi forse, d'altronde col 10 o 11 % annuo di deficit è lecito, vedo che a fine mese apre un albergo a 2 sterline per notte Hotel low cost: 2 sterline a notte | Repubblica Viaggi Due sterline a notte: l'hotel è low cost - Video - RepubblicaTv - la Repubblica.it ... con giri vorticosi di denaro mi sarei aspettato più un 7 stelle :)

la politica influenza l'economia, non capisco la separazione, sono i politici che decidono gli interventi pubblici a spese nostre, le nostre prospettive lavorative, ecc. ecc.
 

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