SE IL CAMBIO NON BASTA PER LA RIPRESA
di LINO TERLIZZI
Le notizie di ieri in campo va­lutario e commerciale si prestano a due considera­zioni principali.
La prima è che l'attuale «guerra» tra monete, con l'euro ed il dollaro ad inseguir­si ai minimi per acquisire vantaggi sull'export, è una strada sbagliata, che dà qualche vantaggio agli uni o agli altri nel breve, ma che potreb­be nel medio
e lungo periodo au­mentare gli squilibri mondiali an­ziché diminuirli.
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Il fatto che la Ci­na, nel suo interesse di grande esportatore, si adoperi per sostene­re il
dollaro acquistando titoli pub­blici americani ed ora anche per so­stenere l'euro con
interventi con­tro la crisi dei conti pubblici dell'Eu­rozona, ebbene può servire certo a
porre dei limiti all'interno di que­sta confusa «guerra» valutaria, ma non può
rappresentare la soluzio­ne di fondo.
La seconda considerazione è che la strada giusta, come confermano an­che i dati di ieri sul commercio este­ro svizzero, è quella di sviluppare gli scambi economici, da un lato ag­giungendo qualità ai beni ed ai ser­vizi esportati, dall'altro operando perché le barriere commerciali, di­chiarate o non, diminuiscano sem­pre più.
Se la Svizzera riesce ad in­crementare le sue esportazioni no­nostante un franco che è moneta ri­fugio e che ha schiacciato prima il dollaro e poi l'euro,
questo signifi­ca che si può puntare ad irrobusti­re la ripresa economica e a raffor­zare la crescita economica percor­rendo la via della qualità dei proces­si e dei prodotti, e degli accordi, bi­laterali o multilaterali, che tendono a sviluppare il libero commercio.
Si può obiettare che un certo rallen­tamento l'export elvetico comincia a sentirlo e che potrebbe sentirlo an­cor più in futuro, con un franco co­sì forte.
C'è del vero in questa obie­zione, ma occorre guardare le cose come stanno.
Con un'ottica appun­to di lungo periodo.
Intanto, il fran­co forte non rappresenta solo un ri­schio per l'export, è anche un vantaggio nel complesso per la piazza finanziaria, oltre che per le importazioni elvetiche.
Poi, la Banca nazionale svizzera non può in questa fase fare molto di più per frenare il franco-rifugio voluto dagli investitori, a meno che non si accettino perdite operative ancora più marcate per la BNS stessa, con ulteriori acquisti di euro o di dollari.
Gli unici elementi che nel breve possono rassicurare i mercati, e quindi frenare la corsa del franco, sono da un lato una politica USA meno propensa alla svalutazione del dollaro, e, soprattutto, dall'altro una graduale uscita dalla crisi dei debiti pubblici dei Paesi deboli dell'Eurozona.
Su questo versante, c'è da sperare che la Germania non si faccia tentare nuovamente dai vantaggi di breve respiro di un euro più debole e che prosegua invece nell'applicazione rigorosa della linea recentemente riaffermata, che si basa su aiuti per salvare il salvabile, sì, ma con vincoli per il risanamento progressivo dei conti pubblici nei Paesi europei più in difficoltà.
Ma nel lungo periodo, e qui si torna al punto centrale, occorre operare anche sul lato della crescita economica, da ottenere non solo con misure interne ma anche con una graduale, maggiore liberalizzazione degli scambi.
Il Doha Round dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) non è certo perfetto, ma fa impressione la coltre di silenzio che oggi lo ricopre, in questo clima internazionale di scontro valutario. Se si riuscisse a riprendere il cammino di una maggiore apertura mondiale, con il Doha Round o con altri strumenti, questa «guerra valutaria»
apparirebbe per quello che probabilmente è, cioè una aspirina in assenza di vere cure.
Sia i Paesi più sviluppati, sia i grandi Paesi emergenti - a partire da Cina, India, Brasile - dovrebbero scegliere la via di una riduzione ulteriore delle barriere commerciali. I dazi nel mondo esistono ancora. Non solo, esistono ancora gli ostacoli commerciali non dichiarati, cioè le regole non chiare, la scarsa trasparenza nelle procedure, gli standard nazionali sui prodotti e sui servizi contrapposti senza ragioni sufficienti agli standard internazionali.
E ancora: le misure nazionali per l'attività delle imprese e per il lavoro staccate da intese di base internazionali. Quello degli accordi commerciali internazionali non è certo un terreno facile, ma se si s
mette di tessere la tela il risultato non arriverà mai. Una maggiore apertura nei commerci sosterrebbe la crescita economica dei Paesi sviluppati, certo, ma aiuterebbe anche quella di molti Paesi emergenti, che potrebbero a loro volta spuntare concessioni per il loro export e potrebbero aumentare la loro competitività in alcuni settori importanti. Senza inutili «guerre» valutarie­
CORRIERE DEL TICINO,OGGI