Macroeconomia Crisi finanziaria e sviluppi

gli fa eco :

DUBLINO (MF-DJ)--John Hurley, membro del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, si e' detto a favore di misure di politica monetaria non convenzionali. Durante un discorso tenuto davanti ad un Comitato del Parlamento irlandese, lo stesso Hurley ha sottolineato che al momento la priorita' e' rappresentata dalla protezione dell'occupazione e dalla stabilizzazione delle economie della Eurozona. Hurley ha aggiunto che "l'allentamento quantitativo costituisce uno strumento legittimo" di politica monetaria.

Agli Irlandesi non resta che far stampare moneta... sono nella M***** peggio della Grecia.
 
gli fa eco :

DUBLINO (MF-DJ)--John Hurley, membro del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, si e' detto a favore di misure di politica monetaria non convenzionali. Durante un discorso tenuto davanti ad un Comitato del Parlamento irlandese, lo stesso Hurley ha sottolineato che al momento la priorita' e' rappresentata dalla protezione dell'occupazione e dalla stabilizzazione delle economie della Eurozona. Hurley ha aggiunto che "l'allentamento quantitativo costituisce uno strumento legittimo" di politica monetaria.

Agli Irlandesi non resta che far stampare moneta... sono nella M***** peggio della Grecia.

Il problema è che la moneta degli irlandesi si stampa a Francoforte... ;) nel 3D sull'Irlanda delle considerazioni interessanti sul recente avvitamento dell'economia irlandese: nel tentativo di rimediare al calo delle entrate fiscali, il Governo è costretto a varare una politica di contenimento della spesa pubblica e di rigore fiscale proprio quando invece occorrerebbe allentare le redini...

Così facendo prolungheranno ed acuiranno la portata della crisi, anche se per un'economia piccola e molto esposta sull'estero si può ritenere che le sue sorti possano beneficiare molto di un miglioramento della congiuntura internazionale, quando verrà...
 
All this talk about "stimulus packages" and "bailouts"...

A billion dollars...

A hundred billion dollars...

Eight hundred billion dollars...

One TRILLION dollars...

What does that look like? I mean, these various numbers are tossed around like so many doggie treats, so I thought I'd take Google Sketchup out for a test drive and try to get a sense of what exactly a trillion dollars looks like.

We'll start with a $100 dollar bill. Currently the largest U.S. denomination in general circulation. Most everyone has seen them, slighty fewer have owned them. Guaranteed to make friends wherever they go.


bill.jpg
A packet of one hundred $100 bills is less than 1/2" thick and contains $10,000. Fits in your pocket easily and is more than enough for week or two of shamefully decadent fun.


packet.jpg
Believe it or not, this next little pile is $1 million dollars (100 packets of $10,000). You could stuff that into a grocery bag and walk around with it.


pile.jpg


While a measly $1 million looked a little unimpressive, $100 million is a little more respectable. It fits neatly on a standard pallet...


pallet.jpg


And $1 BILLION dollars... now we're really getting somewhere...


pallet_x_10.jpg
Next we'll look at ONE TRILLION dollars. This is that number we've been hearing so much about. What is a trillion dollars? Well, it's a million million. It's a thousand billion. It's a one followed by 12 zeros.

You ready for this?

It's pretty surprising.

Go ahead...

Scroll down...









Ladies and gentlemen... I give you $1 trillion dollars...


pallet_x_10000.jpg




(And notice those pallets are double stacked.)

So the next time you hear someone toss around the phrase "trillion dollars"... that's what they're talking about.
 
The Celtic Tiger

Il problema è che la moneta degli irlandesi si stampa a Francoforte... ;) nel 3D sull'Irlanda delle considerazioni interessanti sul recente avvitamento dell'economia irlandese: nel tentativo di rimediare al calo delle entrate fiscali, il Governo è costretto a varare una politica di contenimento della spesa pubblica e di rigore fiscale proprio quando invece occorrerebbe allentare le redini...

Così facendo prolungheranno ed acuiranno la portata della crisi, anche se per un'economia piccola e molto esposta sull'estero si può ritenere che le sue sorti possano beneficiare molto di un miglioramento della congiuntura internazionale, quando verrà...

Certo che guardando certi giudizi (affrettati?) dati solo qualche anno fa su questo paese c'è da rimanere interdetti:
benessere, capitali esteri, tasse basse, economia in sviluppo, sembrava un esempio da imitare, meno male che noi in Italia siamo lenti a prendere una direzione....

http://news.bbc.co.uk/1/hi/programmes/politics_show/4682954.stm
 
Certo che guardando certi giudizi (affrettati?) dati solo qualche anno fa su questo paese c'è da rimanere interdetti:
benessere, capitali esteri, tasse basse, economia in sviluppo, sembrava un esempio da imitare, meno male che noi in Italia siamo lenti a prendere una direzione....

http://news.bbc.co.uk/1/hi/programmes/politics_show/4682954.stm


davvero..
a quando il nuovo acronimo P.I.G.S.:

Paesi Baltici
Islanda ( e Irlanda )
Gran Bretagna ( e qui godo come 1 riccio )
Stati Uniti (?)
 
EDITORIALE – Vertice del G20


Aspettando la svolta degli USA
Alfonso Tuor


Il risultato del vertice del G20 che si terrà a Londra il prossimo 2 aprile sarà molto probabilmente solo quello di tenere aperta la strada di una soluzione multilaterale della crisi economica che ormai tocca in modo sempre più pesante ogni angolo del mondo.

Vi sarà un pressante invito degli americani ad ampliare le dimensioni dei piani nazionali di rilancio dell’economia, che si scontrerà con la resistenza tedesca, e verranno stabiliti alcuni principi che dovranno guidare la riforma dei meccanismi di funzionamento e di supervisione dei mercati finanziari.

Questi risultati, a prima vista molto deludenti, non sono assolutamente secondari. Per quali ragioni? Innanzitutto, tenere aperta la strada di una risposta comune deve essere considerato un successo, poiché la forza della recessione spinge ogni paese a pensare unicamente per sé.

In secondo luogo, ogni riforma dei mercati finanziari non può essere disgiunta dal riconoscimento degli squilibri e dalla definizione di un nuovo assetto del sistema monetario internazionale.

In pratica, occorre una nuova Bretton Woods, per strutturare una riforma seria e duratura dei mercati finanziari. I tempi però non sono ancora maturi per affrontare un’opera di quest’ampiezza.

La conferenza di Bretton Woods ebbe luogo nel 1944, quando non solo era scontato l’esito del secondo conflitto mondiale, ma era anche evidente che gli Stati Uniti sarebbero stati la maggiore potenza del mondo occidentale. Oggi, invece, sono assolutamente imprevedibili i tempi e gli sbocchi di questa crisi, che è già stata da molti paragonata ad una guerra per l’ampiezza delle devastazioni che provocherà nel tessuto economico e sociale del mondo. Inoltre, non sono ancora manifeste le conseguenze che produrrà sugli equilibri geopolitici.


Insomma il G20 cade nel mezzo della guerra scoppiata in tutti i Paesi per evitare che le follie della nuova ingegneria finanziaria portino ad una nuova Grande Depressione.

Questa guerra è in pieno corso (è cominciata nell’estate del 2007 con lo scoppio della crisi dei mutui ipotecari subprime) e ora a un anno e mezzo di distanza nessuno sa ancora quali armi usare e soprattutto quale strategia seguire per vincerla. In questo marasma generale si cerca di guadagnar tempo, procedendo con la politica dei cerotti per turare le falle che continuano ad aprirsi a destra e a manca.


L’attenzione di governi e banche centrali non è quindi focalizzata sul mondo che uscirà da questa crisi (che sarà completamente diverso da quello che ci stiamo lasciando alle spalle), ma sull’urgenza di trovare soluzioni rapide ai problemi più pressanti sul tappeto.



In questo campo sono da mettere in risalto importanti progressi.

Questi riguardano il nodo della crisi bancaria, la cui soluzione è una premessa indispensabile, per concentrarsi in seguito sul rilancio dell’economia. Il centro del dibattito è negli Stati Uniti, dove si sta formando un ampio consenso su due questioni cruciali.

La prima è che la politica dei salvataggi degli istituti bancari attuata finora non produce alcun risultato, poiché non serve a frenare la vera e propria caduta dell’economia e non migliora lo stato di salute delle banche.

La seconda questione è la consapevolezza ormai diffusa che nelle pieghe dei bilanci delle banche vi è un vero e proprio buco nero che rischia di risucchiare tutte le risorse disponibili anche di un Paese grande e potente come gli Stati Uniti.

Questo fondato timore ha già indotto sia l’amministrazione Obama sia alcuni importanti esponenti repubblicani ad escludere l’ipotesi di nazionalizzare le banche in crisi.


E ciò sta frenando anche il decollo del piano salvabanche presentato dal ministro del Tesoro Tim Geithner.

Non si tratta tuttavia di una situazione di stallo.


In campo sono scesi alcuni leader repubblicani, come James Baker, il segretario al Tesoro di Ronald Reagan e il segretario di Stato di Bush padre, che ha invitato l’amministrazione Obama a concludere l’esame delle condizioni di salute dei maggiori istituti americani (il famoso «stress test») con la loro suddivisione in tre categorie: le banche sane, le banche che hanno bisogno di aiuto (che dovrebbero essere sostenute dal governo) e quelle senza speranza, che dovrebbero essere chiuse.

James Baker, nell’articolo apparso sul Financial Times dello scorso 2 marzo, specifica addirittura che l’amministrazione americana dovrebbe avvertire i governi europei e asiatici ed esortarli a seguire la stessa strada. L’annuncio della chiusura di alcune grandi banche americane e di alcuni istituti europei ed asiatici dovrebbe avvenire, secondo James Baker, nello stesso giorno per ridurre la violenza dello tsunami che si abbatterebbe sui mercati finanziari di tutto il mondo e che sicuramente lascerebbe poche speranze di sopravvivenza a molte banche europee e anche alle grandi banche svizzere.

La proposta di Baker è stata rilanciata negli scorsi giorni dal candidato alla Casa Bianca John McCain e dal senatore Richard Shelby, che è il capogruppo repubblicano nella Commissione bancaria. Questi interventi confermano che negli Stati Uniti stanno maturando soluzioni drastiche per risolvere la crisi delle banche e che queste proposte sono anche al centro delle discussioni della nuova amministrazione democratica.


Barack Obama giustamente tentenna di fronte a queste proposte, che presentano un rischio molto concreto di innescare una catena di fallimenti non solo bancari, ma anche di aziende.

Non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Una mossa di questo genere non studiata a fondo potrebbe far sprofondare in pochi giorni il mondo in depressione. Le banche sono interconnesse tra loro e il fallimento di istituti come Citigroup e Bank of America rischierebbe di provocare un effetto domino con conseguenze difficilmente immaginabili.

Per intenderci, l’effetto sarebbe un multiplo di quello del fallimento della Lehman Brothers. Vi sono altre proposte che vanno nella stessa direzione avanzate da esponenti democratici. Sebbene non siano univoche, si possono riassumere in questo modo. Bisogna innanzitutto individuare delle «good bank», che dovrebbero avere libero accesso ai canali di finanziamento statali e che sarebbero chiamate a rilevare e a garantire l’attività creditizia degli istituti che falliranno, in modo da attutire l’impatto sull’economia reale.

Queste banche avrebbero una funzione pubblica: fornire credito e servizi ai cittadini e alle imprese. Contemporaneamente bisognerebbe azzerare tutti i derivati e gli altri strumenti della nuova ingegneria finanziaria, il cui valore sarebbe in ogni caso azzerato dai fallimenti bancari.

In quest’ottica si creerebbe all’istante un nuovo sistema finanziario, il cui scopo sarebbe il sostegno dell’economia reale.


Di fronte alla portata di queste scelte i tentennamenti di Barack Obama devono essere considerati una dimostrazione di saggezza.

È anche prevedibile che il nuovo presidente americano cerchi di rinviare ogni scelta di questo genere il più a lungo possibile, aspettando che il sistema bancario continui ad implodere per creare un consenso anche nell’opinione pubblica americana sull’ineluttabilità di scelte drastiche.

E’ evidente che di fronte a questi possibili scenari il vertice del G20 di Londra può produrre solo pochi risultati. Il disegno del nuovo sistema finanziario e monetario internazionale potrà essere fatto solo quando saranno sciolti questi nodi.
11.03.09 07:33:51
 
Si chiama accaparramento....

:D Anche ieri in moderato rialzo l'indice dei noli marittimi ( principalmente grazie alla Cina ) :

http://www.bloomberg.com/apps/quote?ticker=bdiy&exch=IND&x=15&y=11

...la Cina sta cercando, impresa semi-vana ma non impossibile al 100%, di rendersi completamente indipendente dal mondo esterno.

Lo farei anche io. Se fossi lì!

per cui, alcuni dati sui macro...alcuni dico, vanno ben letti. Perchè la domanda che ne fa scaturire gli aumenti proviene essenzialmente da lì.

Saluti

Pierluigi
 
Il 2 aprile e il G20

Chiedo lumi a mostromarino e negusneg.

Ho la mente poco efficiente ma , mi sembra di ricordare, che il 2 aprile una certa commissione di tecnici doveva lasciare sul tavolo del G20 un rapporto sui derivati (e sul come neutralizzarli in caso di necessità).

Ricordo male ?

Saluti

Pierluigi

Ps +7% ? It's only Vixx, what else ?
 
EDITORIALE – Vertice del G20


Aspettando la svolta degli USA
Alfonso Tuor


Il risultato del vertice del G20 che si terrà a Londra il prossimo 2 aprile sarà molto probabilmente solo quello di tenere aperta la strada di una soluzione multilaterale della crisi economica che ormai tocca in modo sempre più pesante ogni angolo del mondo.

Vi sarà un pressante invito degli americani ad ampliare le dimensioni dei piani nazionali di rilancio dell’economia, che si scontrerà con la resistenza tedesca, e verranno stabiliti alcuni principi che dovranno guidare la riforma dei meccanismi di funzionamento e di supervisione dei mercati finanziari.

Questi risultati, a prima vista molto deludenti, non sono assolutamente secondari. Per quali ragioni? Innanzitutto, tenere aperta la strada di una risposta comune deve essere considerato un successo, poiché la forza della recessione spinge ogni paese a pensare unicamente per sé.

In secondo luogo, ogni riforma dei mercati finanziari non può essere disgiunta dal riconoscimento degli squilibri e dalla definizione di un nuovo assetto del sistema monetario internazionale.

In pratica, occorre una nuova Bretton Woods, per strutturare una riforma seria e duratura dei mercati finanziari. I tempi però non sono ancora maturi per affrontare un’opera di quest’ampiezza.

La conferenza di Bretton Woods ebbe luogo nel 1944, quando non solo era scontato l’esito del secondo conflitto mondiale, ma era anche evidente che gli Stati Uniti sarebbero stati la maggiore potenza del mondo occidentale. Oggi, invece, sono assolutamente imprevedibili i tempi e gli sbocchi di questa crisi, che è già stata da molti paragonata ad una guerra per l’ampiezza delle devastazioni che provocherà nel tessuto economico e sociale del mondo. Inoltre, non sono ancora manifeste le conseguenze che produrrà sugli equilibri geopolitici.


Insomma il G20 cade nel mezzo della guerra scoppiata in tutti i Paesi per evitare che le follie della nuova ingegneria finanziaria portino ad una nuova Grande Depressione.

Questa guerra è in pieno corso (è cominciata nell’estate del 2007 con lo scoppio della crisi dei mutui ipotecari subprime) e ora a un anno e mezzo di distanza nessuno sa ancora quali armi usare e soprattutto quale strategia seguire per vincerla. In questo marasma generale si cerca di guadagnar tempo, procedendo con la politica dei cerotti per turare le falle che continuano ad aprirsi a destra e a manca.


L’attenzione di governi e banche centrali non è quindi focalizzata sul mondo che uscirà da questa crisi (che sarà completamente diverso da quello che ci stiamo lasciando alle spalle), ma sull’urgenza di trovare soluzioni rapide ai problemi più pressanti sul tappeto.



In questo campo sono da mettere in risalto importanti progressi.

Questi riguardano il nodo della crisi bancaria, la cui soluzione è una premessa indispensabile, per concentrarsi in seguito sul rilancio dell’economia. Il centro del dibattito è negli Stati Uniti, dove si sta formando un ampio consenso su due questioni cruciali.

La prima è che la politica dei salvataggi degli istituti bancari attuata finora non produce alcun risultato, poiché non serve a frenare la vera e propria caduta dell’economia e non migliora lo stato di salute delle banche.

La seconda questione è la consapevolezza ormai diffusa che nelle pieghe dei bilanci delle banche vi è un vero e proprio buco nero che rischia di risucchiare tutte le risorse disponibili anche di un Paese grande e potente come gli Stati Uniti.

Questo fondato timore ha già indotto sia l’amministrazione Obama sia alcuni importanti esponenti repubblicani ad escludere l’ipotesi di nazionalizzare le banche in crisi.


E ciò sta frenando anche il decollo del piano salvabanche presentato dal ministro del Tesoro Tim Geithner.

Non si tratta tuttavia di una situazione di stallo.


In campo sono scesi alcuni leader repubblicani, come James Baker, il segretario al Tesoro di Ronald Reagan e il segretario di Stato di Bush padre, che ha invitato l’amministrazione Obama a concludere l’esame delle condizioni di salute dei maggiori istituti americani (il famoso «stress test») con la loro suddivisione in tre categorie: le banche sane, le banche che hanno bisogno di aiuto (che dovrebbero essere sostenute dal governo) e quelle senza speranza, che dovrebbero essere chiuse.

James Baker, nell’articolo apparso sul Financial Times dello scorso 2 marzo, specifica addirittura che l’amministrazione americana dovrebbe avvertire i governi europei e asiatici ed esortarli a seguire la stessa strada. L’annuncio della chiusura di alcune grandi banche americane e di alcuni istituti europei ed asiatici dovrebbe avvenire, secondo James Baker, nello stesso giorno per ridurre la violenza dello tsunami che si abbatterebbe sui mercati finanziari di tutto il mondo e che sicuramente lascerebbe poche speranze di sopravvivenza a molte banche europee e anche alle grandi banche svizzere.

La proposta di Baker è stata rilanciata negli scorsi giorni dal candidato alla Casa Bianca John McCain e dal senatore Richard Shelby, che è il capogruppo repubblicano nella Commissione bancaria. Questi interventi confermano che negli Stati Uniti stanno maturando soluzioni drastiche per risolvere la crisi delle banche e che queste proposte sono anche al centro delle discussioni della nuova amministrazione democratica.


Barack Obama giustamente tentenna di fronte a queste proposte, che presentano un rischio molto concreto di innescare una catena di fallimenti non solo bancari, ma anche di aziende.

Non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Una mossa di questo genere non studiata a fondo potrebbe far sprofondare in pochi giorni il mondo in depressione. Le banche sono interconnesse tra loro e il fallimento di istituti come Citigroup e Bank of America rischierebbe di provocare un effetto domino con conseguenze difficilmente immaginabili.

Per intenderci, l’effetto sarebbe un multiplo di quello del fallimento della Lehman Brothers. Vi sono altre proposte che vanno nella stessa direzione avanzate da esponenti democratici. Sebbene non siano univoche, si possono riassumere in questo modo. Bisogna innanzitutto individuare delle «good bank», che dovrebbero avere libero accesso ai canali di finanziamento statali e che sarebbero chiamate a rilevare e a garantire l’attività creditizia degli istituti che falliranno, in modo da attutire l’impatto sull’economia reale.

Queste banche avrebbero una funzione pubblica: fornire credito e servizi ai cittadini e alle imprese. Contemporaneamente bisognerebbe azzerare tutti i derivati e gli altri strumenti della nuova ingegneria finanziaria, il cui valore sarebbe in ogni caso azzerato dai fallimenti bancari.

In quest’ottica si creerebbe all’istante un nuovo sistema finanziario, il cui scopo sarebbe il sostegno dell’economia reale.


Di fronte alla portata di queste scelte i tentennamenti di Barack Obama devono essere considerati una dimostrazione di saggezza.

È anche prevedibile che il nuovo presidente americano cerchi di rinviare ogni scelta di questo genere il più a lungo possibile, aspettando che il sistema bancario continui ad implodere per creare un consenso anche nell’opinione pubblica americana sull’ineluttabilità di scelte drastiche.

E’ evidente che di fronte a questi possibili scenari il vertice del G20 di Londra può produrre solo pochi risultati. Il disegno del nuovo sistema finanziario e monetario internazionale potrà essere fatto solo quando saranno sciolti questi nodi.
11.03.09 07:33:51

Se vanno in questa direzione l'unica ancora di salvezza è tenere i soldi fuori dalle banche...
 

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