I bambini — che giustamente Dostoevskij considerava i più perfetti  esempi di essere umano — sono pronti a tutti, perché capaci di tutto:  capaci di tradire e fare del male, capaci di odiare, capaci di abusare  dei padri e delle madri, e naturalmente capaci di sogni grandi e  spaventevoli, di infiniti amori e di imprese difficili a dirsi, che  ricorderanno forse da vecchi, poco prima di morire.
A questi bambini  non si può parlare come dei servi sciocchi, indossando brutti costumi e  parrucche ridicole, facendo voci in falsetto che suonano solo come  scricchiolii su disco. Il novanta per cento del teatro per l’infanzia e  l’adolescenza è una truffa, perché lucra sulla presunta bambineria dei  bambini, a cui si rifila un immaginario da bancarella della Befana a  piazza Navona. 
Carmelo Bene non faceva teatro per l’infanzia, faceva teatro per esseri umani. 
Sulla  superficie della catena che lo incatenava da adulto ad un banco di  scuola, il Pinocchio di Bene faceva suonare uno spettro superbo di  variabili umane: le note della perversione, della tortura, del crimine  parentale, insieme al dolore precoce, alla pietà, al capriccio  infantile. 
La voce faceva risuonare ogni cosa della scena e arrivava fino a noi, grandi e bambini, che assistevamo sgomenti, estatici. 
In  uno di quei quaderni (è tra le poche cose che ricordo), c’era il  disegno di una figura bambina con gli occhi azzurri viola e un microfono  in mano. Una voce bambina. Come bambina era, per sua stessa ammissione e  consapevolezza,  la voce di Carmelo Bene, in grado di trasfigurare  tutto e di convocare gli assenti, quelli che non ci sono più, i mai  nati, assieme a coloro che sono nati tanto tempo fa ma chissà dove  vivono: «Bambina è la vita e basta, manca ed è: bionda, occhi azzurri  verdi neri o viola...bambina è l’età degli angeli che giocano tra  loro....bambina è l’opera d’arte»