Val
Torniamo alla LIRA
Ecco un estratto di documentazione da salvare, rileggere, per non dimenticare con chi abbiamo a che fare.
L’euro ha un antenato di nome ECU (European Currency Union), cioè la moneta scritturale
del sistema monetario europeo (SME), sistema che entra in vigore nel 1979.
Lo SME comprendeva anche gli accordi europei di cambio (AEC).
Quindi abbiamo già un precedente storico, relativamente recente, di cosa accadrebbe all’Italia
in caso di abbondono di un sistema di cambi fissi (o semi-fissi nel caso dello SME), ma andiamo con ordine.
Inizialmente – cioè dal 79 – all’Italia fu concesso di usare la “banda larga” di oscillazione.
Ma all’inizio degli anni ’90 Ciampi – l’allora governatore della Banca d’Italia – decise di portare la lira nella “banda stretta”
(anche se di fatto era come se ci fossimo entrati nel 1987).
Partiamo quindi dall’ingresso “ufficiale” nella banda stretta, evento riportato in un articolo dell’epoca
che spiega anche il funzionamento degli accordi di cambio e la differenza fra banda larga e banda stretta.
La Stampa– 6 gennaio 1990 (FONTE)
OGGI SI ANNUNCIA L’INGRESSO NELLA «BANDA STRETTA».
LIRA, CAMBI PIÙ RIGIDI, VARRÀ MENO ALL’INTERNO DELLO SME
ROMA. Sarà annunciato oggi l’ingresso della lira nella «banda stretta» del Sistema monetario europeo:
un impegno duro, difficile, con cui il governo si vincolerà a un più stretto controllo dell’inflazione.
Da lunedì in poi, le oscillazioni quotidiane dei cambi tra la moneta italiana e le altre valute europee
non potranno superare il 2,25% in più o in meno rispetto a una nuova «parità centrale»
che sarà di 748,56 lire per marco, rispetto alle 720,699 attuali.
Si tratterà di una mossa unilaterale del governo italiano. (…)
Da tempo gli altri Paesi europei chiedevano all’Italia di rinunciare al privilegio di una oscillazione più larga per la lira (6% in più o in meno),
ottenuto dieci anni fa, quando fu creato il Sistema monetario europeo. Senza questo margine di sicurezza l’Italia dovrà stare molto più attenta:
avverte senza peli sulla lingua il governatore della Banca centrale tedesca, Karl Otto Poehl (…)
In un’unione monetaria o assimilabile a tale, oggi con l’euro ieri con l’ECU, venuta meno la possibilità di intervenire sul tasso di cambio
– nello SME era invece limitato alla banda (foto sotto) – la differenza di competitività fra un paese e l’altro sta proprio nel livello interno dei prezzi.
Moneta unica dunque ma diversi tassi d’inflazione, i paesi con l’inflazione più bassa erano quelli più “competitivi”, Germania in primis.
Fonte: appendice al rapporto annuale sul 1991
Nelle appendici dei vecchi rapporti annuali della Banca d’Italia c’era una sezione dedicata allo SME:
la lira, nei confronti di 1 marco tedesco, doveva oscillare fra quota 731,570 e 765,400.
Negli anni ’80 e soprattutto nei primi anni ’90, l’Italia aveva un saldo commerciale in deficit
cioè importava molto di più di quello che esportava, proprio a causa della penalizzazione del sistema monetario europeo.
Per chi volesse approfondire a livello tecnico qui è spiegato tutto.
Tutte le volte che l’Italia si è legata in un cambio fisso (o assimilabile a fisso) è stato un massacro sia per l’economia italiana sia per i cittadini.
Il 1992 porta però una lezione preziosa, perché dall’analisi di quello che dicevano all’epoca “giornaloni”,
professoroni e politicanti dell’epoca, emerge una tecnica ben precisa:
fare terrorismo mediatico con dei mantra che sono ripetuti anche ai nostri giorni.
Balle ci dicevano all’epoca sull’uscita dallo SME, le stesse balle ci raccontano oggi sull’uscita dall’Euro.
Fatta questa piccola premessa, ecco in ordine cronologico le principali notizie dal 1992 al 1996,
cioè dall’uscita dallo SME fino al suo rientro. Buona lettura
Repubblica – 3 giugno 1992 (FONTE)
BISOGNA COLPIRE SALARI E PENSIONI
ROMA – Siamo “in emergenza”, torna ad avvertire Guido Carli.
Bisogna colpire pensioni e salari, ma occorre anche puntare alla “crescita zero” del numero dei dipendenti pubblici.
E privatizzare. E sfruttare la “disponibilità a pagare” di una parte degli utenti nei delicatissimi settori della sanità e dell’istruzione.
Quindi va riformato l’ordinamento finanziario degli enti locali. E, ancora, vanno revisionate le procedure di bilancio…
Insomma, rigore. Che poi vuol dire stringere (subito) la cinghia.
Altrimenti l’Italia può abbandonare il sogno europeo perché già oggi la dinamica della spesa pubblica
“non è tale da consentire” la convergenza richiesta dagli accordi di Maastricht.
La causa del dissesto – scrive – è imputabile
“all’estensione assunta dal principio della gratuità delle prestazioni pubbliche rese al cittadino”.
Ma ombre pesanti gravano anche sul parlamento, “dove si fanno, si emendano, si rifanno le leggi”.
Occorre quindi costituire un governo “composto da ministri che, nella loro collegialità,
condividano la convinzione che siamo in emergenza, che urgono provvedimenti d’emergenza
e ripudino la filosofia di populismo egualitario nella quale, durante due decenni,
si sono riconosciute le forze presenti in parlamento”. Le pensioni sono in cima alla lista delle urgenze
Come vedete la “spending review” parte da lontano e la sanità è sempre stato uno dei settori “preferiti” su cui applicarla.
Più avanti vi mosterò, con dati alla mano, la falsità delle affermazioni di Carli.
Ricordiamo che Guido Carli è colui che negoziò e firmò il trattato di Maastricht, in qualità di ministro del Tesoro,
assieme al ministro degli affari esteri Gianni De Michelis.
L’Italia non aveva i requisiti per partecipare all’unione monetaria, dunque ce ne dovevamo fare una ragione e abbandonare il sogno europeo.
A maggior ragione dopo quel “primo assaggio” di moneta unica, un disastro che avevamo già sperimentato proprio nel 1992.
Oggi come allora ci proponevano delle false soluzioni di microeconomia (i sacrifici)
per scellerate decisioni di macroeconomia (la difesa del cambio della Lira).
Andiamo avanti
L’euro ha un antenato di nome ECU (European Currency Union), cioè la moneta scritturale
del sistema monetario europeo (SME), sistema che entra in vigore nel 1979.
Lo SME comprendeva anche gli accordi europei di cambio (AEC).
Quindi abbiamo già un precedente storico, relativamente recente, di cosa accadrebbe all’Italia
in caso di abbondono di un sistema di cambi fissi (o semi-fissi nel caso dello SME), ma andiamo con ordine.
Inizialmente – cioè dal 79 – all’Italia fu concesso di usare la “banda larga” di oscillazione.
Ma all’inizio degli anni ’90 Ciampi – l’allora governatore della Banca d’Italia – decise di portare la lira nella “banda stretta”
(anche se di fatto era come se ci fossimo entrati nel 1987).
Partiamo quindi dall’ingresso “ufficiale” nella banda stretta, evento riportato in un articolo dell’epoca
che spiega anche il funzionamento degli accordi di cambio e la differenza fra banda larga e banda stretta.
La Stampa– 6 gennaio 1990 (FONTE)
OGGI SI ANNUNCIA L’INGRESSO NELLA «BANDA STRETTA».
LIRA, CAMBI PIÙ RIGIDI, VARRÀ MENO ALL’INTERNO DELLO SME
ROMA. Sarà annunciato oggi l’ingresso della lira nella «banda stretta» del Sistema monetario europeo:
un impegno duro, difficile, con cui il governo si vincolerà a un più stretto controllo dell’inflazione.
Da lunedì in poi, le oscillazioni quotidiane dei cambi tra la moneta italiana e le altre valute europee
non potranno superare il 2,25% in più o in meno rispetto a una nuova «parità centrale»
che sarà di 748,56 lire per marco, rispetto alle 720,699 attuali.
Si tratterà di una mossa unilaterale del governo italiano. (…)
Da tempo gli altri Paesi europei chiedevano all’Italia di rinunciare al privilegio di una oscillazione più larga per la lira (6% in più o in meno),
ottenuto dieci anni fa, quando fu creato il Sistema monetario europeo. Senza questo margine di sicurezza l’Italia dovrà stare molto più attenta:
- a evitare che vi sia troppa differenza tra la sua inflazione e quella degli altri Paesi;
- a manovrare giorno per giorno la politica monetaria per evitare scossoni al cambio.
avverte senza peli sulla lingua il governatore della Banca centrale tedesca, Karl Otto Poehl (…)
In un’unione monetaria o assimilabile a tale, oggi con l’euro ieri con l’ECU, venuta meno la possibilità di intervenire sul tasso di cambio
– nello SME era invece limitato alla banda (foto sotto) – la differenza di competitività fra un paese e l’altro sta proprio nel livello interno dei prezzi.
Moneta unica dunque ma diversi tassi d’inflazione, i paesi con l’inflazione più bassa erano quelli più “competitivi”, Germania in primis.
Nelle appendici dei vecchi rapporti annuali della Banca d’Italia c’era una sezione dedicata allo SME:
la lira, nei confronti di 1 marco tedesco, doveva oscillare fra quota 731,570 e 765,400.
Negli anni ’80 e soprattutto nei primi anni ’90, l’Italia aveva un saldo commerciale in deficit
cioè importava molto di più di quello che esportava, proprio a causa della penalizzazione del sistema monetario europeo.
Per chi volesse approfondire a livello tecnico qui è spiegato tutto.
Tutte le volte che l’Italia si è legata in un cambio fisso (o assimilabile a fisso) è stato un massacro sia per l’economia italiana sia per i cittadini.
Il 1992 porta però una lezione preziosa, perché dall’analisi di quello che dicevano all’epoca “giornaloni”,
professoroni e politicanti dell’epoca, emerge una tecnica ben precisa:
fare terrorismo mediatico con dei mantra che sono ripetuti anche ai nostri giorni.
Balle ci dicevano all’epoca sull’uscita dallo SME, le stesse balle ci raccontano oggi sull’uscita dall’Euro.
Fatta questa piccola premessa, ecco in ordine cronologico le principali notizie dal 1992 al 1996,
cioè dall’uscita dallo SME fino al suo rientro. Buona lettura
Repubblica – 3 giugno 1992 (FONTE)
BISOGNA COLPIRE SALARI E PENSIONI
ROMA – Siamo “in emergenza”, torna ad avvertire Guido Carli.
Bisogna colpire pensioni e salari, ma occorre anche puntare alla “crescita zero” del numero dei dipendenti pubblici.
E privatizzare. E sfruttare la “disponibilità a pagare” di una parte degli utenti nei delicatissimi settori della sanità e dell’istruzione.
Quindi va riformato l’ordinamento finanziario degli enti locali. E, ancora, vanno revisionate le procedure di bilancio…
Insomma, rigore. Che poi vuol dire stringere (subito) la cinghia.
Altrimenti l’Italia può abbandonare il sogno europeo perché già oggi la dinamica della spesa pubblica
“non è tale da consentire” la convergenza richiesta dagli accordi di Maastricht.
La causa del dissesto – scrive – è imputabile
“all’estensione assunta dal principio della gratuità delle prestazioni pubbliche rese al cittadino”.
Ma ombre pesanti gravano anche sul parlamento, “dove si fanno, si emendano, si rifanno le leggi”.
Occorre quindi costituire un governo “composto da ministri che, nella loro collegialità,
condividano la convinzione che siamo in emergenza, che urgono provvedimenti d’emergenza
e ripudino la filosofia di populismo egualitario nella quale, durante due decenni,
si sono riconosciute le forze presenti in parlamento”. Le pensioni sono in cima alla lista delle urgenze
Come vedete la “spending review” parte da lontano e la sanità è sempre stato uno dei settori “preferiti” su cui applicarla.
Più avanti vi mosterò, con dati alla mano, la falsità delle affermazioni di Carli.
Ricordiamo che Guido Carli è colui che negoziò e firmò il trattato di Maastricht, in qualità di ministro del Tesoro,
assieme al ministro degli affari esteri Gianni De Michelis.
L’Italia non aveva i requisiti per partecipare all’unione monetaria, dunque ce ne dovevamo fare una ragione e abbandonare il sogno europeo.
A maggior ragione dopo quel “primo assaggio” di moneta unica, un disastro che avevamo già sperimentato proprio nel 1992.
Oggi come allora ci proponevano delle false soluzioni di microeconomia (i sacrifici)
per scellerate decisioni di macroeconomia (la difesa del cambio della Lira).
Andiamo avanti