HO CERCATO DI FARE IL QUADRO DELLA SITUAZIONE... NE E' USCITO L'URLO DI MUNCH

Cosa c’è di più bello dell’amore.

Due ragazzi si baciano in una spiaggia toscana e per aver violato la normativa anti covid ricevono 800 euro di multa.

Nelle stesse ore in Calabria viene cacciato un commissario alla Sanità e ne viene nominato un altro
che a maggio aveva espresso un parere fermo sulle mascherine: “non servono a un caz**”.
 
Antonio Ingroia è stato condannato a un anno e 10 mesi per peculato.

Secondo Il Fatto Quotidiano, il processo è stato celebrato con rito abbreviato davanti al gup Maria Cristina Sala ed è relativo a una segnalazione della Corte dei conti.

Tale segnalazione è relativa al periodo in cui Ingroia, su indicazione dell’ex governatore Rosario Crocetta,
Ingroia era stato nominato amministratore della società regionale Sicilia e-Servizi.

Ingroia è stato accusato di essersi appropriato di indennità non dovute quando era liquidatore della partecipata pubblica per un totale di 117mila euro


Nel corso della requisitoria, avvenuta oltre un anno fa, la procura aveva chiesto di condannarlo a 4 anni.

Secondo i pm che hanno trattato il caso, Ingroia avrebbe saltato a pié pari l’assemblea dei soci,
mettendosi in conflitto di interessi e autoassegnandosi un’indennità di risultato di 117mila euro.

L’accusa otre ad aver contestato l’iter della liquidazione ne ha anche discusso l’ammontare.
 
Non ci son parole per quanto accade.
L'uomo di 81 anni seduto, i 2 giovani che si baciano, questo che risponde al telefono.
Poveri dementi.


Non indossa la mascherina subito dopo essersi alzato il casco per rispondere il telefono e due vigili gli fanno la multa.

Il protagonista di questo assai poco piacevole episodio è il 33enne Andrea Dogliani, torinese.
Ed è proprio nella città sabauda che il giovane è stato sanzionato dagli zelanti tutori dell’ordine-sceriffi,
per aver «violato l’obbligo di indossare un dpi in un luogo aperto». Quattrocento euro di multa.


Intervistato dal Corriere, racconta così la sua versione dell’accaduto:

«Erano le 18. A un certo punto ho sentito squillare il cellulare e così mi sono fermato proprio di fronte alla Gran Madre.
Nel frattempo la telefonata si era interrotta e sono sceso dallo scooter per controllare il messaggio sul display e richiamare».

La polizia municipale era lì vicino, «dopo un attimo si sono presentati e mi hanno chiesto i documenti.
Solo quelli personali, però, il libretto dello scooter o l’autocertificazione, non li hanno neppure voluti vedere».

Dogliani non poteva avere materialmente addosso la mascherina perché

«ero appena sceso dalla moto.
Peraltro avevo ancora il casco indossato,
semplicemente l’avevo sollevato perché, essendo integrale, non riesco a infilare il telefono.
Ovviamente per prepararmi a parlare mi sono abbassato anche lo scaldacollo, ma la piazza era praticamente deserta».

Nessun assembramento in vista, quindi.

«I locali erano già chiusi e vicino a me non c’era nessuno. Io avevo i piedi a terra ed ero appoggiato lateralmente al ciclomotore».


Quando i vigili gli comunicano la sanzione, Andrea pensa a uno scherzo.

"Li ho invitati a controllare la marmitta ancora calda per dimostrare che mi ero davvero fermato solo pochi istanti prima, ma non c’è stato verso.
Mi hanno detto che prima di scendere dal mezzo avrei dovuto indossare correttamente il Dpi sul volto e che non avendolo fatto ero sanzionabile».

A nulla serve mostrare al più anziano dei due «le cinque mascherine che porto sempre con me nel bauletto e le altre che tengo nel cruscotto», racconta.

«Non capisco davvero questo accanimento, soprattutto in un periodo come questo. Che per me, in particolare, è davvero molto difficile».

Il giovane fa sapere di non avere alcuna intenzione di pagare:

«è anche una questione di principio. Io non ho commesso nessuna infrazione e sarebbe bastato un po’ di buon senso per evitare tutto questo.

Farò ricorso, un ragazzo ha visto tutta la scena da lontano ed è disposto a testimoniare».
 
Toc toc...ordine dei giornalisti ? ............decaduti.


Leonardo Coen, giornalista del “Fatto Quotidiano”, ha condiviso l’amara notizia della positività di Luciano Fontana, direttore del “Corriere della Sera”.

La questione grave su cui non ha desistito il giornalista, è stato il dispiacersi che non fosse Attilio,
il presidente della Regione Lombardia il contagiato, bensì il direttore del Corriere.

Un post choc ed esplicito su Facebook condiviso dallo stesso Fontana sulla sua pagina, dove Coen scrive:

lg.php

Luciano Fontana direttore del Corriere della Sera, positivo. Il Fontana sbagliato...”.

Ricorretto dallo stesso autore qualche ora dopo con un altro post:

“Contagiato anche Fontana. Il direttore del Corriere della Sera”.


Coen sottolinea, mostrando di non essere minimamente pentito, che il cambio è dovuto a messaggi esagerati nei suoi confronti
dati da una campagna d’odio e intolleranza della destra di cui lui è vittima
.

Prosegue spiegando che la sua era satira e sberleffo e l’intolleranza genera mostri: ‘come quella dei killer islamisti’.

Quando la toppa è più grande del buco!



Un’utente scrive

“Avrebbe fatto più bella figura a cancellare il post e stare zitto,invece di scrivere altre fesserie.
Ed eviti di nominare il fascismo come scusa solo perché un cretino le ha prestato il fianco.
Lei ha fatto una figuraccia
.Se ne faccia una ragione!!”


Le minacce vanno assolutamente condannate ma far passare per ironia l’augurare la malattia a un avversario ideologico è vile e meschino,
diventa lui stesso fomentatore di quella campagna d’odio da cui si sente vittima.

Il messaggio che viene veicolato da chi fa un servizio pubblico dovrebbe essere attento a certe dinamiche e non cadere in tifo da stadio,
anche e soprattutto per rispetto a chi veramente combatte con il virus.


Un altro utente a tal proposito commenta:

“Solo un ipocrita non ha il coraggio delle proprie azioni…e non nascondiamoci dietro la satira ….Non sono questi i tempi per farla…”.


Un’uscita di bassa levatura soprattutto a livello comunicativo, come fa notare un’altra persona a commento del post:

“Usare il Covid in questo modo non può che fare di te una persona piccola piccola. Perfettamente in linea con il tuo giornale”.


Un commentatore attento scrive queste parole:

“In merito al suo primo post che lei spaccia per satira, lo commenterei volentieri e garbatamente ma vede,
quando l’ignoranza urla, l’intelligenza per una questione di stile deve tacere’.


E come possiamo non essere d’accordo!
 
Non smette mai di parlare a vanvera........stakanovista.


L’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano Massimo Galli ha già messo in guardia gli italiani
dal dimenticarsi grandi cene di Natale o veglioni:
le famiglie, ha spiegato, si potranno raccogliere in piccolo gruppi per evitare un’eventuale diffusione del contagio.

Le precauzioni nel periodo natalizio, ha spiegato l’esperto nel corso del TG4,
andranno tenute anche se ora ci fosse un lockdown e a dicembre si riaprisse tutto.
 
In occasione del webinar Ibl di ieri, è stato presentato e discusso “Virus e Leviatano“, libro di Aldo Maria Valli edito da Liberilibri.

All’incontro, coordinato da Serena Sileoni (vicedirettore generale dell’Ibl),
oltre all’autore hanno partecipato Pasquale Annicchino (senior research associate del Cambridge Institute on Religion & International Studies)
e Riccardo Manzotti (professore di Filosofia teoretica all’Università Iulm).


Valli ha esordito dicendo che con questo piccolo pamphlet è tornato alle sue origini.

Dopo essersi occupato per tanti anni, come vaticanista, della vita della Chiesa, ha tirato fuori dal cassetto la sua laurea in Scienze politiche
per fare una incursione nel campo della filosofia politica, anche rifacendosi a uno dei suoi maestri: Gianfranco Miglio.

Proprio l’insegnamento di Miglio sulla teoria schmittiana dello stato d’eccezione è stata una delle sue fonti d’ispirazione.

Nel libro si parla del primo lockdown come di un momento in cui l’Italia ha smesso di essere una Repubblica parlamentare e di tutelare i diritti costituzionali.

Vi è stata una disinvoltura del Governo nel compiere questo passaggio, ma anche un’accettazione passiva da parte dei cittadini.


Chi può dunque assicurarci che in futuro non vi sia uno Stato emergenziale istituzionalizzato?

Una domanda inquietante che le persone che amano la libertà devono farsi.


Per Manzotti, in questi mesi una delle cose che è mancata è stata infatti una discussione sui “valori”.

Di fronte alla paura e al rischio si è accettata una narrazione monotematica, un pensiero monodimensionale.

Ma i costi vanno commisurati ai valori e i valori stessi sono frutto di scelte individuali.

Ridurre tutta la discussione a un pensiero monodimensionale vuol dire togliere alle persone la loro caratteristica più autentica:


una persona, senza libertà, si può dire che non esista.


Proprio perché tocca tali questioni basilari, Annicchino ha messo in risalto l’importanza del testo di Valli.

Oltre agli aspetti giuridici come l’esautorazione del Parlamento, interessante è stata anche la questione delle norme sociali,
che ha messo in luce alcuni aspetti irrazionali come l’ira riversata sui “runner”.

Annicchino non ha visto però, nella risposta del Governo all’emergenza sanitaria, un qualcosa di eccezionale,
ma la riproposizione del solito atteggiamento dello Stato italiano, che considera i cittadini come suoi sudditi.
 
Oggi abbiamo un tristo e intristente ministro della Salute che si chiama Roberto Speranza,
dimostrando così come, a volte, sia beffardo e irriverente il fato nell’attribuire le sorti umane ai nomi.

Potremmo altresì ricordare che nei nomi sia contenuto il significato intimo e ultimo delle cose, e Giustiniano scriveva infatti
nomina sunt consequentia rerum” nelle sue Institutiones, semplificato ed esemplificato in seguito con la locuzione “nomen omen”, ovvero “nel nome vi è il destino”.

Insomma, il ministro Speranza, se così fosse, non dovrebbe fare eccezione e dovrebbe appunto essere portatore,
più o meno sano quindi asintomatico, di quella “spes ultima dea” che resterà in fondo al vaso di Pandora,
nell’arcaico mito greco e addirittura secondo Ugo Foscolo sarebbe specchio quindi del fatto che “anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri”.

Fugge i sepolcri, dunque non appartiene al dominio della morte.


Eppure, ogni giorno il ministro Speranza, con malinconiche sembianze,
ci affligge con il bollettino delle centinaia di morti che sarebbero la tragica messe del Coronavirus,
contraddicendo Filone Alessandrino che invece riteneva la speranza essere “gioia prima della gioia”
e quindi facendosi poi chiosare da quell’allegrone che fu Giacomo Leopardi e i suoi sabati.


Ci verrebbe quindi da chiederci cosa sia successo nel frattempo, che abbia letteralmente invertito, capovolto, il significato recondito di un nome tanto foriero di serenità.


Avrebbe senso ai nostri giorni, oscuri e rapidi in precipizio verso l’ultimo sobbalzo d’un’età oscura, la serie delle Virtù, oggi agli Uffizi di Firenze,
che nel XV secolo dipinsero con sublime e inarrivabile maestria due grandi artisti come Antonio del Pollaiolo e Sandro Botticelli?

Pollaiolo, al secolo Antonio Benci, nell’anno del Signore 1470 dipingeva ad olio, una tavola raffigurante appunto la Speranza,
virtù cristiana che getta uno sguardo di là da nostra sorella morte corporale e non soltanto spinge l’uomo ad andare oltre
e a superare qualsiasi traversia e avversità, ma ci vuole insegnare che esiste una vita oltre la vita.

La donna dipinta, che indossa le verdi vesti della Speranza, siede in trono e ha dunque le mani giunte in atto di preghiera volgendo gli occhi al cielo,
un po’ come facciamo noi quando il ministro della Salute appare in video, ma con molti più scarsi risultati, va anche detto.

Soltanto l’ultima, e non è un caso, delle sette tavole commissionate agli artisti fiorentini dal tribunale della Mercanzia di Firenze,
sarà affidata ed eseguita da Botticelli, e sarà proprio quella Fortezza, quella forza interiore che oggi più ancora di ogni altro sentire ci necessita.


Così come suona in questo periodo autunnale, vagamente irrisorio, sarcastico, il modo di dire popolare che dice

“finché c’è vita c’è speranza” anche quasi con un vago accenno iettatorio, fortificato dall’altro proverbio “la speranza è l’ultima a morire”.

Forse no, forse anche la speranza, non la virtù, è alla fine come la morte, sacrificio a se stessa sullo suo strano altare,

già funereo nell’incedere arrancante di questa nostra Repubblica che fa inorridire ad ogni paragone con quelle del passato.


No, forse sarebbe meglio se non ci fosse più Speranza per l’Italia.
 
Come è noto soprattutto agli appassionati di storia, i kulaki erano una categoria di contadini relativamente agiati che,
per tutta una serie di ragioni politiche ed economiche, furono letteralmente sterminati durante la collettivizzazione forzata realizzata durante i primi anni dello stalinismo.


Ebbene, a distanza di quasi un secolo da questo gigantesco crimine di massa, anche noi abbiamo, con le ovvie, debite proporzioni, i nostri moderni kulaki.


Mi riferisco a quella vasta platea di produttori privati, inclusi i loro dipendenti e collaboratori,
che certamente non rischiano il plotone di esecuzione o la deportazione in Siberia,
così come avvenuto in Unione Sovietica per milioni di disgraziati, bensì una semplice ma catastrofica morte economica,
con la definitiva chiusura di centinaia di migliaia di imprese.


Tutto questo a causa non del Sars-Cov-2, ma in forza di un progressivo strangolamento a colpi di chiusure cui il Governo giallorosso
sta letteralmente massacrando interi settori economici del Paese.

Un Governo il quale, continuando a farsi schermo di un sinistro Comitato tecnico scientifico,
proprio non ne vuole sapere di contemperare le vitali esigenze dell’economia, con cui ricordiamo si finanzia anche la sanità pubblica,
con quelle della tutela sacrosanta delle fasce più fragili della società, dal momento che pure i sassi dovrebbero aver compreso
che ci troviamo di fronte ad un virus opportunista che mette in pericolo i soggetti sostanzialmente immunodepressi.


Invece i geni della lampada che occupano la stanza dei bottoni, sempre sulla scorta delle quotidiane divinazioni di questo fantomatico Cts,
prima inondano di protocolli chiunque svolga una qualunque attività privata, obbligando i malcapitati ad investire parecchi quattrini in misure di “protezione”,
per poi tirare una riga, mandando tutti a casa perché così vuole l’incredibile algoritmo posto a tutela della nostra salute biologica.


Dico biologica perché di quella economica, psicologica e relazionale i santoni del pensiero unico del virus sembrano infischiarsene altamente.


Tutto questo scempio di risorse umane ed economiche viene giustificato con l’esigenza primaria di risparmiare il Natale,
come se con qualche settimana senza bar, ristoranti, palestre, piscine e quant’altro il Coronavirus allenterà la presa,
facendoci passare in santa pace le più importanti festività dell’anno.


Basta leggere un recente rapporto dell’Istituto superiore di sanità, in cui si dice che il 77 per cento dei focolai da contagio sono intrafamiliari,

per rendersi conto della tragica ridicolaggine di far la guerra al virus attraverso la chiusura forzata di così tante aziende private.


In questo senso mi trovo completamente d’accordo con quanto sostiene da tempo Nicola Porro:

con queste misure, che al Sars-Cov-2 fanno il solletico, gli unici a rimetterci le penne economiche saranno i succitati kulaki del terzo millennio.


Poi voglio vedere chi finanzierà le pensioni e gli stipendi pubblici di quei milioni di tifosi, con le chiappe al caldo, del lockdown all’amatriciana.
 

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