Shocking Truth (Verità sconvolgente) è un documentario della regista svedese Alexa Wolf sul mondo della pornografia ha fatto discutere molto per la feroce denuncia nei confronti dell’industria del sesso.
Presentato al Parlamento svedese nel 2000 nell’ambito di un dibattito sulla libertà di espressione nella pornografia è quasi introvabile, ma ha fatto discutere molto per la feroce denuncia nei confronti dell’industria del sesso, che, nella sua espressione più estrema, viene paragonata a un luogo di abuso e tortura legalizzati, non poi così diversa da quella illegale e proibita degli snuff movies.
Shocking Lies: Sanningar om lögner och fördomar i porrdebatten (“Menzogne sconvolgenti: Verità, bugie e pregiudizi nei dibattiti sul porno“) è un’antologia, pubblicata a pochi mesi di distanza dal documentario, che raccoglie contributi sull’argomento di diversi giornalisti e persone legate al mondo del porno.
Isabelle Sorente, laureata in fisica all’école Polytechnique, romanziera e autrice di teatro, racconta, con un linguaggio forte, tanto quanto le immagini del film, le verità sconvolgenti che si celano dietro all’abile lavoro di montaggio dei filmati porno, in cui giovani donne si sottopongono a tour de force sessuali con centinaia di uomini in poche ore. Sanguinamenti, lesioni interne, gravi danni fisici permanenti, l’impossibilità di interrompere le riprese (interrotte, a volte, solo grazie all’arrivo della polizia) sono solo alcuni dei dettagli che vengono nascosti al pubblico in fase di montaggio; la Sorente va oltre, e si chiede chi siano queste donne e questi uomini, raccontandoci un universo disumanizzato in cui il piacere della sessualità è del tutto assente e la libertà di scelta una bugia sulla quale si erge l’intero sistema.
Il vero protagonista non è il piacere, ne l’erotismo, ma l’abuso, fisico, sessuale, psicologico, spesso subito nell’infanzia e nell’adolescenza, ripetutamente, fino a diventare l’unica realtà possibile, inevitabile, fino a sembrare addirittura desiderabile.
Alcune ricerche hanno dimostrato che il 75% delle attrici porno sono state vittime, nella loro infanzia, di abusi sessuali.
La vergogna, l’umiliazione, il sentimento e la paura di non valere nulla, di non essere nulla se non una cosa da usare per dare piacere (piacere?) modellano il senso di identità di queste donne che, lungi dall’aver mai sperimentato una qualche forma di protezione, non possono far altro che rivivere all’infinito le violenze subite, raccontando a loro stesse che è proprio quello che desiderano e che hanno scelto liberamente di fare.
La denuncia della Sorente è sopratutto sociale, quella di un sistema (capitalista) in cui, in nome del libero mercato e della libertà di scelta e di espressione, queste vittime sono lasciate a sé stesse, libere (libere?) di verificare fino a che punto si può arrivare: dov’è il fondo? Fino a dove la violenza e l’annichilimento del sé possono arrivare? C’è un limite oltre al quale questo diventa insopportabile? La maggior parte delle attrici che arrivano alla zoofilia (rapporti sessuali con animali) si suicida, ci racconta la Sorente.
Si parla tanto di abuso e maltrattamento infantili e dei devastanti effetti di questo tipo di trauma sulla personalità adulta, ma quanto ci è possibile associare questo trauma alla sessualità della pornografia, della prostituzione o più in generale a una certa voracità sessuale cosi valorizzata nella nostra moderna e disinibita società?
La neuropsicofisiologia ci dice che la sessualità è un complesso evento psicofisico che non ha a che fare solo con il corpo ma che concerne le esperienze relazionali, la comunicazione intima, lo sviluppo affettivo e cognitivo, le memorie implicite (Imbasciati e Buizza 2012). La sessualità dunque è primariamente un’ emozione che ha carattere relazionale e che è correlata alle prime esperienze di attaccamento, in cui il corpo fa da mediatore con l’ambiente esterno.
Violenza fisica e sessuale, maltrattamenti, trascuratezza emotiva sono gli ingredienti che fanno da sfondo all’alessitimia post-traumatica che apre la strada alla sessualità compulsiva, in cui gli aspetti dolorosi dei traumi originari rimangono dissociati e l’atto sessuale stesso diviene il tentativo disperato di evitare un legame emotivo con la dolorosa realtà interna ed esterna (Craparo, 2013).
Se l’orrore dell’abuso infantile non può essere pensato, sentito, nominato, mentalizzato (Fonagy et al. 2002) condannando chi ne è vittima a un dolore somatopsichico soverchiante e alla messa in atto di condotte compulsive, forse il primo passo che possiamo compiere è proprio quello di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.