mamma li turchi.. oddio so barbari

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max54

attenti alle penne
"#Germanico si rese conto che la battaglia da vicino era impari e quindi distanziò un poco le legioni, e dette ordine ai frombolieri e ai lanciatori di pietre di scagliare i proiettili e gettare lo scompiglio nelle schiere nemiche. Dalle macchine di guerra furono lanciati giavellotti e i difensori dell’argine quanto più erano in vista da tante più ferite erano sbalzati giù. Occupato il terrapieno, Cesare per il primo con le coorti pretorie si lanciò verso le foreste; qui lo scontro fu corpo a corpo. Il nemico era chiuso alle spalle dalla palude, i Romani dal fiume e dai monti: sia gli uni sia gli altri dovevano combattere sul luogo, senza altra speranza che il valore, altro scampo che vincere. Non era inferiore l’animo dei Germani, ma si trovavano in condizione d’inferiorità per il genere del combattimento e delle armi: stretti in così gran numero in luoghi angusti, non riuscivano né a protendere né a ritirare le loro lunghissime aste, né a valersi della propria agilità e rapidità, ma erano costretti a combattere sul posto; i nostri, al contrario, con lo scudo aderente al petto e la mano stretta all’impugnatura della spada, trafiggevano le membra imponenti dei barbari e i loro volti scoperti e si aprivano il passo massacrando i nemici, mentre Arminio ormai dopo tante prove senza sosta non aveva più lo stesso ardore o forse lo indeboliva la recente ferita. Mentre a Inguiomero, che sembrava volasse lungo tutta la schiera, mancava la fortuna più che il valore. E Germanico per farsi riconoscere meglio s’era tolto l’elmo dal capo e pregava i suoi di insistere nel massacro: non c’era bisogno di prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe messo fine alla guerra. Solo al calar della sera ritirò dal combattimento una legione affinché allestisse l’accampamento; tutte le altre fino a notte si saziarono del sangue nemico. I cavalieri combatterono con esito incerto. Nell’allocuzione, Cesare espresse i suoi elogi ai vincitori; poi, eresse un trofeo d’armi con una iscrizione superba: «Debellati i popoli tra il Reno e l’Elba, l’esercito di Tiberio #Cesare ha consacrato questo monumento a Giove, a Marte e ad Augusto»."
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Storie Romane
10:00
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«Per dieci anni fece parte del triumvirato per la riorganizzazione dello Stato. In esso, per qualche tempo veramente resistette ai colleghi perché non si facessero proscrizioni, ma, una volta iniziate, le esercitò più spietatamente degli altri due. In effetti, mentre quelli, dinanzi a molte personalità, si mostravano spesso arrendevoli alle influenze e alle preghiere, lui solo insistette molto perché non si risparmiasse nessuno, e arrivò a proscrivere il suo tutore Gaio Toranio, che per giunta era stato collega di suo padre Ottavio nella carica di edile. Giulio Saturnino riferisce in più anche questo, che allorché, conclusa la proscrizione, Marco Lepido in Senato giustificava il passato e prospettava una speranza di clemenza per il futuro giacché si era punito abbastanza, lui al contrario dichiarò di aver fissato come limite alle proscrizioni il momento in cui avesse completamente mano libera. Ciò nonostante, in compenso di tanta ostinazione, onorò più tardi con la dignità di cavaliere Tito Vinio Filopèmene, perché si diceva che a suo tempo avesse tenuto nascosto il suo patrono proscritto. Durante l’esercizio di questa stessa magistratura accese molti odii contro di sé. Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe [...] notò che un certo Pinario, cavaliere, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto teneva sotto la toga un dittico di tavolette; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre, perché non si trovasse dell’altro, lo fece poco dopo da centurioni e soldati trascinare via dal tribunale e sottoporre a tortura come uno schiavo; non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano.»
SVETONIO, #AUGUSTO, 27
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Storie Romane
13:12
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« Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un’insegna durante i combattimenti […] i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l’arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi […] Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l’esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga […] Se i legionari non fossero stati sfiniti […] tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di #Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi. »
#Cesare, riguardo l'assedio di #Alesia, in De bello Gallico, VII, 88

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Oltre alla riforma dell’esercito a partire da #Costantino fra limitanei e comitatensi venivano create una serie di fabricae imperiali per l’equipaggiamento, specializzate, in scudi, archi, armi etc., in contrapposizione ai fabbri e gli artigiani che seguivano le legioni in precedenza e alle armi che venivano acquistate in loco. Sembrerebbe che l’equipaggiamento abbia avuto un lievo calo qualitativo: avendo il controllo diretto, lo stato avrebbe cercato di risparmiare qualcosa, producendo materiale standardizzato in massa; tale processo è ben visibile dagli elmi tardoantichi, ben più semplici di quelli altoimperiali (ma quelli dei comandanti si mostrano estremamente decorati e lussuosi, segno che le capacità tecniche restavano).
Alcuni armamenti, come la lorica segmentata e il pilum, vengono abbandonati, altri mutano, come il gladio rimpiazzato dalla simile ma più lunga spatha. L’iconica lorica segmentata è attestata per l’ultima volta in Spagna nel tardo III secolo, per poi sparire: probabilmente costi di produzione e mantenimento erano troppo onerosi; la sostituzione, nel III secolo, del gladio con la spatha e del pilum con la lancia, oltre al ritorno a scudi ovali, indica un cambio di tattiche. Non più un atteggiamento offensivo, che vedeva i legionari andare incontro al nemico, ma più difensivo, quasi falangitico. All’interno della legione vengono infatti creati, a partire dai Severi, reparti di lancearii, ossia legionari con lancia.
Nel corso del secolo successivo i reparti romani si specializzano sempre di più, l’uno a combattere contro la cavalleria, uno a schermagliare, etc., e al contempo aumentano notevolmente i reparti di cavalieri e arcieri a cavallo. Grazie a un documento del tardo IV, inizio V secolo, la Notitia Dignitatum, conosciamo i nomi e le insegne di praticamente tutti i reparti romani, sia occidentali che orientali.
Ciò che ne risulta, nel IV secolo, è un esercito molto più variegato e frammentato in piccoli reparti. L’idea tattica è quella di avere pertanto i limitanei sul limes, pronti a intervenire contro le minacce minori e rallentare le invasioni maggiori, per poi aspettare l’intervento dei comitantensi e delle truppe palatine.
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#Costantino marciò sull’Italia, per eliminare #Massenzio, rimasto escluso dagli accordi di Carnuntum, sconfiggendo le sue truppe a Torino e Verona; infine a Ponte Milvio, il 28 ottobre del 312 d.C., si scontrarono i due imperatori. Massenzio aveva deciso di aspettarlo. Con ogni probabilità il figlio di Massimiano aveva un numero di forze maggiori.
Secondo Lattanzio Costantino ebbe una visione in cui Cristo lo esortava ad apporre un segno sugli scudi dei propri soldati, forse uno staurogramma, ossia una croce latina con la parte superiore cerchiata come una P, forse il simbolo di Cristo, il chi-rho, una XP incrociata.
Eusebio riporta due versioni. La prima, contenuta nella Storia ecclesiastica, afferma esplicitamente che il dio cristiano abbia aiutato Costantino, ma non menziona nessuna visione. Nella Vita di Costantino Eusebio racconta che Costantino stava marciando col suo esercito quando, alzando lo sguardo verso il sole, vide una croce di luce e sotto di essa la frase greca “ἐν τούτῳ νίκα”, reso in latino come in hoc signo vinces, ossia “con questo segno vincerai”. Inizialmente insicuro del significato, Costantino ebbe nella notte un sogno nel quale Cristo gli spiegava di usare il segno della croce contro i suoi nemici.
Eusebio poi descrive il labarum, lo stendardo usato da Costantino (e poi divenuta l’insegna imperiale romana) nella guerra civile contro Licinio, recante il segno ‘chi-rho‘ (le prime due lettere di Cristo in greco). Massenzio dispose i suoi soldati nei pressi di Saxa Rubra con il Tevere alle spalle e fece costruire un ponte di legno alle sue spalle.
Costantino attaccò furiosamente i fianchi di Massenzio, guidando personalmente la cavalleria (secondo Nazario indossava un’armatura, uno scudo e un elmo dorato) mettendoli in fuga, dopodiché attaccò lateralmente la fanteria. Quest’ultima andò in rotta e rimasero a tenere il campo i soli pretoriani, che furono trucidati; pare che i loro corpi furono ritrovati esattamente sul posto in cui avevano combattuto. Massenzio, in fuga, finì annegato nel Tevere poiché il ponte non resse il peso di tanti uomini in fuga e crollò.
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LA CACCIATA DEI SARACENI DAL GARIGLIANO (915)
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IN BREVE: i tentativi di sradicare la presenza saracena continuarono all’inizio del X secolo, ma continuava a mancare l’apporto decisivo di Napoli e/o Gaeta. Ciò non deve meravigliare; oltre alla paura nei confronti dei saraceni, i signori campani avevano necessità di mantenere con loro – padroni del Nord Africa e della Sicilia – dei buoni rapporti commerciali.
Solo attorno al 910 papa Giovanni X iniziò ad organizzare una forza militare che fosse in grado di annientare i musulmani una volta per tutte. Si trattava di un papa cazzuto, guerriero, con una faccia da delinquente di prima categoria. A confermare questa ipotesi sta un’evidenza storica: comandò in prima persona le milizie romano-toscane nella battaglia del Garigliano.
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