diomede
Buongiorno
“Non è vero che abbiamo abbandonato i passeggeri al loro destino. Io sono stato l’ultimo a lasciare la nave. Dopo aver messo in salvo tutti gli ospiti”. Joseph, 30 anni, indiano, è un membro dell’equipaggio della Costa Concordia in procinto di lasciare il residence ‘Fattoria La Principina’, in Maremma, dove è finito insieme ad altre centinaia di extra-comunitari a causa dell’imperizia di un comandante. Mille e ventiquattro persone: cinesi, indonesiani, sudamericani, asiatici, smistati per due giorni tra Grosseto, Principina Terra e Marina di Grosseto, luoghi di vacanza brulicanti d’estate, ma desolati a gennaio. Nessuno ha parlato di loro, dopo il naufragio, se non per accusarli: erano inadeguati, non sapevano cosa fare, pensavano solo a salvare se stessi.
La versione dei fatti è invece diversa. Loro sono stati i primi a soccorrere, e non tanto – o non solo – per l’altruismo e la solidarietà che sono spesso alla base delle loro culture. Ma perché addestrati a farlo. Oltre ad avere il sorriso pronto anche dopo 12 ore filate di lavoro, l’equipaggio deve conoscere a menadito le procedure in caso di emergenza. Così, si stupiscono, gli indiani che stanno lasciando il residence con un asciugamano in testa per ripararsi dal freddo, quando gli viene raccontato cosa dice la stampa italiana a riguardo. Ribattono sdegnati: “E’ falso. Totalmente falso. Io faccio il cameriere, ero nel ristorante al momento dell’incidente, non appena abbiamo ricevuto l’allarme è scattato il piano di emergenza. Solo quando tutti i passeggeri sono stati sbarcati abbiamo abbandonato la nave. Potete vedere le foto e i telegiornali. Dove si vede il ponte con le ultime persone a bordo, quelli siamo noi. E poi: se si fossero salvati per primi i membri dell’equipaggio, come si sarebbero salvati i passeggeri?”.
L’equipaggio – salvo alcune eccezioni – ha perso tutto nel naufragio: documenti, soldi, effetti personali, computer, telefonini. “Se avessimo badato alle nostre cose – racconta un altro indiano – si sarebbe perso tempo. Se avessimo recuperato dalle cabine i nostri soldi e i nostri documenti, forse il numero delle vittime sarebbe stato molto più alto”.
La versione dei fatti è invece diversa. Loro sono stati i primi a soccorrere, e non tanto – o non solo – per l’altruismo e la solidarietà che sono spesso alla base delle loro culture. Ma perché addestrati a farlo. Oltre ad avere il sorriso pronto anche dopo 12 ore filate di lavoro, l’equipaggio deve conoscere a menadito le procedure in caso di emergenza. Così, si stupiscono, gli indiani che stanno lasciando il residence con un asciugamano in testa per ripararsi dal freddo, quando gli viene raccontato cosa dice la stampa italiana a riguardo. Ribattono sdegnati: “E’ falso. Totalmente falso. Io faccio il cameriere, ero nel ristorante al momento dell’incidente, non appena abbiamo ricevuto l’allarme è scattato il piano di emergenza. Solo quando tutti i passeggeri sono stati sbarcati abbiamo abbandonato la nave. Potete vedere le foto e i telegiornali. Dove si vede il ponte con le ultime persone a bordo, quelli siamo noi. E poi: se si fossero salvati per primi i membri dell’equipaggio, come si sarebbero salvati i passeggeri?”.
L’equipaggio – salvo alcune eccezioni – ha perso tutto nel naufragio: documenti, soldi, effetti personali, computer, telefonini. “Se avessimo badato alle nostre cose – racconta un altro indiano – si sarebbe perso tempo. Se avessimo recuperato dalle cabine i nostri soldi e i nostri documenti, forse il numero delle vittime sarebbe stato molto più alto”.