Dove va la produzione?
Luglio 2008 - Negli ultimi anni attraversiamo una fase di crisi economica strutturale mondiale e, come sempre accade nei periodi così difficili, certi temi diventano tormentoni frequenti, divulgati in modo strumentale e spesso proposti come teorie per uscire dall’empasse presente.
Per anni si è definita la borsa come lo strumento che offriva a tutti la possibilità di arricchirsi velocemente; ed è presto arrivata la smentita, molto dolorosa.
Ciò nonostante, se da un lato la borsa trasferisce ricchezza da una mano all’altra, senza creare valore, dall’ altro per le aziende la borsa rimane uno strumento finanziario importantissimo per catalizzare il risparmio privato.
Le teorie finanziarie hanno imperversato nel mondo della produzione, lasciando ferite spesso inguaribili e disperdendo il patrimonio storico di conoscenze delle aziende.
In Italia possiamo vedere gli effetti di questa filosofia soprattutto nella grande impresa: aziende storiche che, un pò alla volta, hanno svenduto pezzi della propria attività principale per comprare un pò di giornali, un pò di banche, un pò di calcio, ... un pò di tutto!
Risultato: la perdita di competitività nel settore industriale con l’effetto di trascinare nel baratro anche la media e la piccola impresa, che rimane la colonna portante del sistema Italia.
E’ auspicabile che la grande impresa, tornando a concentrarsi sulla realizzazione efficiente di prodotti innovativi e di qualità, svolga anche un compito educativo/formativo nei confronti della media e piccola impresa; condizione necessaria affinchè la micro impresa diventi piccola, la piccola diventi media, la media diventi grande.
Di fronte alla perdita di competitività si è iniziato a parlare di delocalizzazione della produzione nei paesi low cost, pur annunciando l’allarme del “pericolo giallo”.
Si va strutturando, a mio avviso in modo preoccupante, la teoria della società post industriale, cioè l’idea che nell’occidente industrializzato si facciano solo servizi e distribuzione di beni prodotti altrove.
Personalmente, non riesco ad immaginare una società che viva di servizi senza avere un tessuto produttivo da servire. Credo che una sana riflessione possa aiutare l’uomo a tornare al centro del problema.
Le aziende nascono sempre dalla passione dell’imprenditore per l’uomo, per i suoi bisogni e per un fare. E non sono convinto che i bisogni del mondo occidentale siano completamente soddisfatti.
Se è ragionevole e giusto produrre alcuni beni in paesi emergenti è altrettanto vero che la crisi attuale è l’occasione per ripensare la propria impresa per esplorare nuove frontiere, per innovare, ma soprattutto per abbandonare la logica delle rendite di posizione, presupposto indispensabile per accorgersi, osservando la realtà, a quali bisogni occorre ancora dare risposta.
L’idea imprenditoriale è sempre legata alla profonda osservazione della realtà.
Paradossalmente un paese che non vuole passare dal welfare state alla welfare society non può immaginare di smettere di produrre...
Mi piacerebbe tenere sempre aperto un dibattito, uno scambio su queste tematiche che ci riguardano da vicino per favorire una nostra più profonda conoscenza e, soprattutto, per non subire il ricatto del pensiero delle mode di management.
Giuseppe Ranalli, Presidente della Tecnomatic Spa