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Imperialismo veneto e partita doppia all'italiana dietro la Peste Nera?



Fonte: http://www.movisol.org/08news290.htm
Come Venezia orchestrò il più grande disastro finanziario della storia


27 novembre 2008 (MoviSol) - Ripubblichiamo un articolo del nostro collaboratore Paul B. Gallagher, tradotto sul nostro bollettino "Solidarietà"del lontano febbraio 1996, con cui egli espose un quadro inconsueto degli avvenimenti riguardanti il disastro finanziario che portò alla Peste Nera, nella metà del Trecento. "La gravità del crac finanziario che si prospetta oggi", scrivemmo allora, "non trova precedenti nella storia" più recente.
Le citazioni dei cronisti italiani furono riprese dal testo inglese e pertanto potrebbero corrispondere all’originale solo nel significato.
LA PESTE NERA CHE DECIMÒ LA POPOLAZIONE EUROPEA alla metà del XIV secolo fu causata dal più grande tracollo finanziario della storia. Al paragone, la Grande Depressione degli anni Trenta di questo secolo fu un episodio transitorio e di scarse conseguenze.
Allora, con il tracollo delle grandi case bancarie fiorentine dei Bardi e Peruzzi, avvenuto nel 1345, si verificò una vera e propria disintegrazione finanziaria. Oggi, seicentocinquant’anni più tardi, il rischio è quello di una riedizione dello stesso fenomeno in cui, come si legge sulle cronache dell’epoca, “tutto il credito scomparve nello stesso momento”.
Oggi a prevedere questo rischio è Lyndon LaRouche, l’economista americano la cui analisi sull’inevitabilità del crac è stata pubblicata daSolidarietà nel luglio 1995.
Già nel corso del 1995 abbiamo avuto le prime avvisaglie di questa disintegrazione, con le clamorose bancarotte del Messico, della contea di Orange nella California e quelle di grandi e prestigiose merchant bank inglesi. Oggi, come nel Trecento, queste bancarotte sono la conseguenza di “bolle finanziarie” speculative che crescono paralizzando produzione e commercio, cioè l’economia reale.
La differenza fondamentale tra il 1345 ed il 1996 è che allora non esistevano gli stati nazionali. Non c’era un governo potenzialmente in grado di sottoporre il sistema bancario ad una radicale riorganizzazione, salvaguardando al tempo stesso la produzione reale con nuove, esclusive emissioni di credito, mentre questo sarebbe oggi possibile qualora si riuscisse ad esercitare pienamente la sovranità nazionale. Allora questa via di scampo non esisteva e di conseguenza la popolazione finì per essere decimata. Si calcola che nel periodo che va tra il 1300 ed il 1450 la popolazione europea si ridusse del 35-50%, mentre quella mondiale si ridusse del 25%.
Gli storici sono soliti attribuire questo immane disastro causato dalle banche e dal loro sistema finanziario ad un capro espiatorio, Edoardo III re d’Inghilterra. Edoardo si ribellò al sistema finanziario con il quale i banchieri fiorentini stavano conquistando il controllo sul suo paese e, a partire dal 1342, sospese i pagamenti ai Bardi ed ai Peruzzi. Il bilancio nazionale di re Edoardo era un’inezia rispetto a quello delle due grandi casate bancarie fiorentine; era solo una modesta colonna nei loro libri contabili. A Firenze si può ancora leggere nei documenti bancari dell’epoca, che parlavano di lui con scherno, di un certo “Messer Edoardo”: saremo fortunati se riusciremo a recuperare almeno una parte del suo debito, dice un documento del 1339.
Gli storici di rito liberista dicono che i banchieri fiorentini fecero allora tanto di quel bene semplicemente badando ai fatti propri. Seguendo la propria ingordigia di denaro, costruendo i monopoli finanziari delle proprie casate, essi svilupparono il commercio e dettero vita all’industria capitalistica in pacifica concorrenza con altri mercanti, per poi espiare i peccatucci dell’usura con generose elemosine agli istituti ecclesiasitici. Ma, continua il mito, in questo paradiso terrestre c’era il serpente, c’erano i re – si capisce, nel loro ruolo centralizzatore quei despoti erano gli antesignani del moderno stato nazionale. Spendaccioni impenitenti, con le loro guerre dispendiosissime e le loro corti festaiole, i monarchi finivano invariabilmente nell’inadempienza, non onoravano quei crediti che i poveri banchieri concedevano loro per quel misto di riverenza e timore che incutono le teste coronate. Fu così che il capitalismo, l’impresa privata allora emergente, finì nella rovina del XIV secolo e che, si concede, questo fu tra i fattori scatenanti della Peste Nera, coi suoi trenta milioni di morti. Il morale della favola liberista è che occorre evitare di avere tra i piedi un’autorità centralizzata perché essa è solo capace di indebitarsi per finanziare le su manie espansionistiche, finendo poi sempre per farsi beffe dei suoi laboriosi creditori.
La storia
Recentemente sono stati pubblicati almeno due libri dai quali si desume che il mito fa acqua da tutte le parti. Nel «The Medioeval Super-Companies: A Study of the Peruzzi Company of Florence» (London, Cambridge University Press), pubblicato nel 1994, Edwin Hunt dimostra che la grande casa bancaria lavorava in perdita, al punto di rischiare la bancarotta, già dalla fine degli anni Trenta, cioè prima dei crediti al re Edoardo, e che questo era il risultato della politica creditizia seguita nell’agricoltura e nel commercio. “Le compagnie bancarie principali riuscirono a sopravvivere oltre il 1340 soltanto perché non si diffondevano le notizie sulla gravità delle loro posizioni”, e basta cambiare la data perché questa frase di Hunt calzi perfettamente alla realtà bancaria del 1996.
Dopo aver riesaminato da cima a fondo tutta la corrispondenza e i libri mastri dei Bardi e dei Peruzzi, Hunt asserisce che le “condizioni” dei prestiti delle due banche fiorentine a re Edoardo erano talmente brutali, (il sequestro delle entrate della corona), che in realtà il debito che Edoardo finì per ripudiare si era ridotto a 15 o 20 mila sterline. Fa piacere la franchezza di Hunt, perché lui è dipendente di una grande banca internazionale e sa benissimo come il sistema delle “condizioni” oggi sia cambiato ben poco nella sostanza: di certo saprà che il vero debito dei paesi del Terzo Mondo è una percentuale minima di quello che il Fondo Monetario Internazionale ha imposto loro con vari stratagemmi. Bardi, Peruzzi ed Acciaiuoli prestarono a Edoardo II ed Edoardo III molto meno di quanto hanno promesso – ma gli storici di rito liberista, a comunciare dal banchiere e cronista dell’epoca Giovanni Villani, hanno scrupolosamente computato le vaghe promesse nel debito principale.
Persino accettando la stima massima del debito che i banchieri fiorentini non poterono riscuotere da re Edoardo, questa sarebbe comunque del 35% inferiore al credito che essi vantavano nei confronti del governo della loro città, e che Firenze stessa non riuscì allora a pagare.
Per capire la dimensione di questa realtà è estremamente utile il libro di Frederick C. Lane, «Money and Banking in Medioeval and Renaissance Venice» (Baltimore 1985, John Hopkins University Press) perché dimostra che in realtà era la finanza veneziana a controllare la “bolla speculativa” della finanza mondiale, tra il 1275 ed il 1350, bolla che Venezia fece esplodere nel periodo successivo al 1340. Invece della mitica coesistenza in regime di libero mercato, la realtà è che gli oligarchi veneziani mandarono in bancarotta i colleghi fiorentini, e le conseguenze furono pagate dalle economie dell’Europa e del Mediterraneo. Mentre Firenze ricopriva un ruolo analogo a quello oggi ricoperto da “New York”, con la sua Wall Street delle grandi banche, Venezia era “Londra”, cioè tirava le fila di banchieri, sovrani, papi e imperatori attraverso una rete finanziaria molto sottile e un dominio completo del mercato della moneta e del credito.
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Giambattista Tiepolo: "Nettuno offre a Venezia i tesori del mare", Palazzo Ducale di Venezia.
Fonte dell'immagine: Zerodelta.net - La tua guida di viaggio per l'Italia

Lo storico francese Fernand Braudel spiega («Civiltà e capitalismo, dal XV al XVIII secolo») che Venezia, alla testa dei banchieri fiorentini, genovesi e senesi, fu impegnata dall’inizio del XIII secolo a distruggere le premesse su cui edificare uno stato nazionale, le cui basi erano state gettate da Federico II Hohenstaufen. L’opera dell’imperatore svevo si inserisce nella linea di sviluppo che parte dalle riforme carolingie dell’istruzione, dell’agricoltura, delle infrastrutture commerciali e dell’arte dello stato e passerà per il «De Monarchia» di Dante Alighieri.
“Venezia aveva deliberatamente imbrigliato tutte le economie circostanti, compresa quella tedesca, al proprio tornaconto; ne traeva il suo reddito impedendo loro di agire liberamente... Il XIV secolo registrò la creazione di un monopolio così potente a vantaggio delle città stato italiane... che gli embrioni degli stati territoriali come Inghilterra, Francia e Spagna necessariamente ne soffrirono le conseguenze”. A questo si aggiunga l’intervento di Venezia per impedire che Alfonso il Saggio succedesse a Federico II sul trono imperiale.
Il “trionfo del liberismo” e il soffocamento sul nascere degli stati nazionali definisce il contesto della catastrofe del XIV secolo. Solo un secolo più tardi, quando il Rinascimento dette vita agli stati nazionali, prima quello di Luigi XI in Francia, poi in Inghilterra e Spagna, la popolazione europea riuscirà a sottrarsi alla barbarie e all’involuzione demografica.
Demografia: il metro fondamentale
La devastazione causata dai mercanti banchieri veneziani e dai loro “succubi alleati” nella seconda metà del Trecento è illustrata nella Figura 1. In Europa, Cina ed India (complessivamente tre quarti della popolazione mondiale) fu invertita la tendenza demografica positiva che si protraeva da 4-6 secoli. Fame, peste bubbonica e polmonare, altre malattie epidemiche e guerre fecero scomparire dalla terra 100 milioni di esseri umani. Si stima che le orde mongoliche sterminarono tra i 5 ed i 10 milioni di persone. Il fenomeno non cominciò con il crac del 1340, ma esso rappresentò la svolta decisiva.
Come è possibile che la finanza liberistica, senza un governo che ne avesse il controllo, abbia condotto al tracollo tutte le economie del continente eurasiatico? Come hanno potuto poche banche in un angolo d’Europa mettere in moto una catastrofe del genere?
Come si sviluppa un cancro
Tra XI e XIII secolo si verificò un notevole sviluppo della popolazione, in Europa ma ancora di più in Cina. Durante i due secoli del Rinascimento neo-confuciano della dinastia S’ung la popolazione cinese raddoppiò, raggiunse i 120 milioni; anche nelle regioni settentrionali della Francia e dell’Italia la densità demografica si avvicinava ai livelli del XVIII secolo. Le nuove tecniche per estendere la superficie coltivata furono senz’altro le più importanti tra le innovazioni che permisero una crescita continua della popolazione per sette secoli fino al 1300, ripopolando l’Europa devastata dal crollo dell’Impero Romano.
Ma già all’inizio del XIV secolo si registrano in Europa le prime interruzioni di un aumento continuo sia dei raccolti che della popolazione, mentre in Cina vedremo che imperversava già una vera e propria devastazione. Grandi carestie si registrano negli anni 1314-1317, 1328-1329 e 1338-1339.
Le regioni agricole più produttive nel nord della Francia e dell’Italia registrano flessioni demografiche a partire dal 1290, mentre nelle città si registra una stagnazione(l’unica eccezione fu Milano, dove i Visconti, nemici di Venezia e protettori del Petrarca, seguivano con determinazione la politica delle infrastrutture, tra cui anche grandi opere idrauliche e tremila posti letto d’ospedale in una città di 150 mila abitanti).
Verso il 1310 la produzione dei panni di lana inglesi cominciò a diminuire. La lana inglese e spagnola era la base dell’industria tessile europea, dove solo allora cominciava ad affacciarsi anche il cotone. Scrive Hunt: “In Inghilterra, dal regno di Edoardo I (1291-1310) ma soprattutto sotto Edoardo III, i Bardi e i Peruzzi avevano praticamente stabilito un monopolio nella raccolta tra i produttori e l’esportazione della lana”.
A partire dal 1150 le famose Fiere di Champagne furono al centro degli scambi commerciali di prodotti tessili, di manufatti di metallo e di legno, attrezzi agricoli, e derrate alimentari per tutta l’Europa. Nella regione di Champagne, attorno Parigi, le fiere si tenevano tutto l’anno in sei cittadine diverse. I mercanti potevano contare su un profitto annuo del 3-4 per cento sia trattando in contante che in merci. I banchieri veneziani e fiorentini si riversarono sul luogo per aprire banche, elargire grandi crediti e vendere beni di lusso orientali. In breve furono i padroni delle piazze. Nel 1310 un banchiere lucchese poteva vantarsi di essere in grado di raccogliere crediti per 200 mila lire tornesi in un batter d’occhio alla fiera di Troyes; come conseguenza, il volume degli scambi di prodotti fisici reali in quelle fiere cominciò subito a diminuire. Nei libri del periodo successivo, analizzati da Hunt, risulta che dopo il 1335 i banchieri fiorentini contavano su di un profitto annuo dell’8-10 per cento. I veneziani contavano su profitti ancora maggiori, come vedremo più avanti. “Alla fine del XIII secolo, un rallentamento del commercio colpì innanzitutto le merci, mentre le operazioni di credito si protrassero ancora, ma le fiere entrarono in una fase di grave declino”, ha scritto Braudel.
L’inizio della Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra, nel 1339, comportò il boicottaggio dell’industria tessile delle Fiandre, la più grande d’Europa, che restò senza lana e fu ridotta a l’ombra di se stessa.
A partire dal 1320 iniziarono le grandi manovre finanziarie: si verificarono “enormi fughe di argento oltremare che sconvolsero l’equilibrio dell’Europa a metà del XIV secolo”, dice Braudel. Come si sa Venezia era la porta principale se non unica dell’oriente. L’argento europeo esportato da Venezia in oriente tra il 1325 ed il 1350 equivaleva “forse al 25% di tutto l’argento coniato in Europa”. L’argento era usato per la circolazione monetaria nelle regioni del Sacro Romano Impero ed in Inghilterra dall’epoca di Carlo Magno.
La manovra monetaria veneziana “creò problemi cronici della bilancia dei pagamenti fino in Inghilterra e nelle Fiandre”; nel commercio divenne sempre più difficile pagare. La Francia “fu svuotata di monete d’argento”. Il sovrintendente della zecca di re Filippo calcolò che almeno 100 tonnellate di argento erano state esportate “nella terra dei saraceni”, i migliori partner commerciali di Venezia.
La produzione dei beni più importanti fu gravemente danneggiata, con grave danno al commercio ed alla circolazione monetaria, molti anni prima del crac del 1340, dai banchieri che evidentemente imponevano tassi d’interesse da usura. “Le super-compagnie fiorentine operavano in maniera molto simile alle grandi compagnie dei cereali di oggi, come la Cargill e la Archer-Daniels Midland” scrive Hunt.
“Utilizzavano i prestiti ai monarchi per assicurarsi il dominio su certe merci vitali, specialmente il grano e successivamente la lana ed il panno”. La loro rapacità finì col ridurre progressivamente la produzione di quelle merci. Sebbene il ruolo dei banchieri fiorentini nel tracollo del Trecento sia una materia meritevole di studi ed approfondimenti, occorre però sottolineare che rappresenta solo una parte della verità e che occorre prima inserire le loro operazioni in un contesto ben più ampio. I banchieri fiorentini in realtà operavano su una scala internazionale limitata all’Europa occidentale, mentre l’impero marittimo, finanziario e commerciale veneziano si estendeva su tutta la massa continentale eurasiatico-africana, e basta questo per capire che furono i vertici veneziani a mettere in moto il disastro del XIV secolo. I banchieri fiorentini coinvolti nel crac finanziario erano solo degli squali che nuotavano nel “Mare Nostrum” dei veneziani. All’orrore della Peste Nera in Europa corrisposero tragedie ancora peggiori in Cina e nel mondo islamico, finiti sotto la dominazione mongola tra il 1250 ed il 1400. Nella cronaca di Ibn Khaldun si legge che: “La civiltà sia in oriente che in occidente è stata visitata dalla piaga distruttiva che ha devastato le nazioni, ha portato la popolazione alla scomparsa... La civiltà è svanita con lo svanire dell’umanità”.
Venezia fungeva allora da centro bancario, da mercato degli schiavi e da centrale di spionaggio per conto dei Khan mongoli.
I guelfi neri
Le case bancarie dei Bardi, Peruzzi ed Acciaiuoli, insieme ad altre grandi banche fiorentine e senesi, furono tutte fondate intorno al 1250. Nell’ultimo decennio di quel secolo le loro dimensioni e la loro rapacità crebbero enormemente e si riorganizzarono facendo largo a nuovi soci, le famiglie dell’aristocrazia terriera, soprattutto quella settentrionale, che si era da sempre ferocemente battuta contro ogni forma di governo centrale, che sotto la coordinazione ed il finanziamento di Venezia avevano combattuto sia il Barbarossa che Federico II sotto il vessillo delle “libertà comunali”.
All’inizio del XIV secolo Venezia coordinava questi Guelfi Neri, gli stessi che avevano osteggiato il disegno politico di Dante Alighieri, il quale, se morì davvero di malaria, di ritorno da una ambasciata a Venezia, fu perché si vide costretto ad un disperato viaggio tra le paludi dopo aver subodorato un agguato sulla nave della Serenissima che lo avrebbe dovuto ricondurre a Ravenna. Contro l’influenza del «De Monarchia» Venezia mise in campo un gruppo di politologhi che decantavano quello veneziano come il modello di governo ideale: da Bartolomeo da Lucca a Enrico Paolino da Venezia e soprattutto Marsilio da Padova. Costoro, così come i massimi ideologhi della Serenissima repubblica, esplicitamente fondarono le loro teorie dello stato sulla «Politica» di Aristotele.
Nel giro di poco tempo queste forze politiche trasformarono le banche toscane, moltiplicandone due o tre volte le dimensioni e le attività. Machiavelli racconta come nel 1308 i Guelfi Neri controllavano tutta l’Italia settentrionale, con l’eccezione di Milano. La capitale lombarda era rimasta fedele all’impero dopo che i Visconti avevano frustrato le mire dell’arciguelfa famiglia bergamasca dei Torre e Tasso di insignorirsi della città. E per questo motivo Milano fu la più fiorente città italiana del quattordicesimo secolo.
La Parte Guelfa si proclamava il partito del papato ma chiaramente esercitava pressioni incredibili sui pontefici affinché l’usura non fosse più considerata un peccato mortale ma solo veniale. In questo contesto è interessante il parallelo tra la nascita delle case bancarie nel periodo successivo alla fine di Federico II e il proliferare di eresie delle diverse religioni, soprattutto quella catara, più congeniali alla pratica dell’usura che è altrimenti espressamente vietata dalle tre religioni monoteiste. Le sovrapposizioni tra i due fenomeni, usura ed eresia, sono evidenti, anche senza uno studio approfondito, nel caso della roccaforte catara di Caorse, nel meridione della Francia, da cui prendevano il nome i banchieri usurai caorsini.
Lo storico Lane nota come i veneziani non tenessero in alcun conto le ingiunzioni papali contro l’usura, contro il commercio degli schiavi e contro il commercio con gli infedeli, i Selgiucidi ed i Mamelucchi di Egitto e Siria.
Un secolo prima, grazie soprattutto al doge Sebastiano Ziani, Venezia era riuscita a seminare zizzania tra Federico Barbarossa ed il Papa, aveva sostenuto con finanziamenti e uomini la guerra dei comuni contro l’imperatore, ma aveva aiutato anche quest’ultimo (in imprese militari che erano nell’interesse di Venezia) e alla fine riuscì ad essere il centro della mediazione, della composizione dei conflitti nel periodo che va dal 1177 (Pace di Venezia) al 1183 (Pace di Costanza).
Il Doge costrinse Federico Barbarossa a rinunciare alla sovranità monetaria in Italia, ritirando la coniazione argentea del Sacro Romano Impero, e permettendo alle città di battere una moneta propria.
Nel secolo che seguì la Pace di Costanza, Venezia riuscì a stabilire un vero e proprio monopolio sulla circolazione di oro ed argento, moneta e lingotti, sia in Europa che in Asia.
Nel documentare il fenomeno, Frederick Lane spiega come Venezia eliminò dalla circolazione la moneta imperiale per sostituirla con la propria. Lo stesso fece nell’impero bizantino, ed inifine riuscì ad eliminare dalla circolazione anche il fiorino d’oro di Firenze nei primi decenni del XIV secolo, e quando esplose, il crac del 1340 coinvolse tutti meno che i veneziani.
I banchieri fiorentini non elargivano prestiti ai monarchi aspettando poi la restituzione dei soldi con gli interessi. In effetti gli interessi non potevano essere neanche menzionati nei contratti, perché sarebbero stati considerati usura e quindi un peccato mortale, un crimine.
L’espediente a cui si ricorreva è ancora oggi usato dal Fondo Monetario Internazionale: per concedere il prestito i banchieri esigevano delle “condizioni”. La prima era quella di impegnare direttamente le entrate delle casse reali, cioè “privatizzare” le entrate dello stato; significava di fatto che i sovrani rinunciavano alla sovranità sulle proprie economie.
Dato che nell’Europa del XIV secolo le merci più importanti (gli alimentari, la lana ed i tessuti, le ferramenta, il sale) venivano esclusivamente prodotte in un sistema di licenze e di tassazione reali, il controllo che le banche esercitavano sulle entrate della corona finì dapprima per instaurare il monopolio privato della produzione di quei beni ed in un secondo momento condusse alla “privatizzazione” e al controllo delle funzioni stesse del governo.
Nel 1325, ad esempio, i Peruzzi possedevano tutti i diritti sulle entrate del Regno di Napoli, controllavano l’esercito del regno, riscuotevano tasse e gabelle, nominavano funzionari e soprattutto vendevano tutto il grano del regno di re Roberto. Poi, per stabilire un migliore monopolio costrinsero re Roberto a fare la guerra per conquistare la Sicilia, che allora era sotto la Spagna e alleata quindi del Sacro Romano Impero. Le devastazioni della guerra ridussero la produzione del grano in Sicilia rafforzando il monopolio cerealicolo dei Peruzzi.
In quello stesso periodo i banchieri fiorentini portarono avanti una simila politica di “privatizzazioni” anche rel regno di Ungheria, i cui sovrani erano parenti di re Roberto d’Angiò.
In Francia i Peruzzi erano creditori dei banchieri del re Filippo IV, i famosi “Biche e Muche” (Albizzo e Mosciatto Guidi, o i Franzezi). I Bardi ed i Peruzzi, che mantenevano solitamente un rapporto di 3 a 2 tra investimento e profitto, “privatizzarono” in Inghilterra le entrate di Edoardo II e Edoardo III, pagavano il bilancio del re e monopolizzarono la vendita della lana inglese. Invece di pagare gli interessi sui prestiti, perché la cosa sarebbe stata riconosciuta come “usura”, il re elargiva loro dei “doni” o “compensazioni” per i sacrifici che loro si accollavano per pagare il suo bilancio; i doni erano un buono extra, oltre alla concessione delle entrate della corona. Quando re Edoardo decise di proibire ai mercanti italiani di esportare i propri profitti dall’Inghilterra, questi decisero di acquistare enormi quantitativi di lana che stiparono nei monasteri dei Cavalieri ospedalieri, che a loro volta erano loro debitori, alleati politici e soci nel monopolio della lana. I rappresentanti dei Bardi convinsero poi Edoardo III a boicottare l’industria tessile delle Fiandre per distruggerla, perché era l’unico modo per continuare a spingere in alto il prezzo della lana ed aumentare quindi le entrate della corona che essi ormai usavano per coprire il suo debito. Intorno al 1325, i banchieri genovesi facevano altrettanto alla corte di Castiglia, che era l’altra grande fornitrice di lana in Europa.
Nei primi cinque anni della Guerra dei Cent’anni, a partire dal 1339, i banchieri fiorentini imposero all’Inghilterra un cambio del fiorino superiore del 15% rispetto alla moneta inglese. Quando il re s’accorse di perdere il 15% sul suo monopolio della lana decise di battere un proprio fiorino inglese, ma i fiorentini riuscirono a fare in modo che la nuova moneta fosse generalmente respinta. In tal modo i Bardi ed i Peruzzi provocarono la famosa insolvenza di re Edoardo.
Anche il banchiere e cronista Giovanni Villani nel narrare come l’insolvenza provocò il tracollo finanziario, riconosce che il debito che Edoardo doveva ai Bardi e Peruzzi comprendeva in realtà crediti che egli aveva già ripagato, proprio come accade oggi ai paesi del Terzo Mondo debitori del FMI: “I Bardi vantavano un credito nei suoi confronti superiore alle 180 mila marche sterline. Ed i Peruzzi più di 135 mila marche sterline, che... insieme fanno un totale di 1.350.000 fiorini d’oro – ovvero il valore di un regno. Questa somma comprende numerose provvigioni che il re fece loro in passato...”
Ancora maggiore era il flusso delle rendite raccolte dal papato, lasciti e decime, durante la Cattività Avignonese. Sotto Giovanni XXII, tra il 1316 ed il 1336, le rendite papali raggiunsero i 250 mila fiorini d’oro annui. Il grosso di queste rendite proveniva dalle decime raccolte in Francia dalle banche veneziane, mentre nel resto d’Europa, con eccezione della Germania, le decime erano raccolte dagli agenti dei Bardi. Per la raccolta ed il trasferimento le banche applicavano delle generose trattenute. “Solo esse, [le banche alleate a Venezia] disponevano di contanti di riserva ad Avignone [dove allora risiedeva la corte papale] ed in Italia per finanziare il bilancio pontificio. Riscuotevano e trasferivano le rendite e concedevano anticipi ai papi”. Venezia controllava gran parte delle casse pontificie, una posizione dalla quale era facile promuovere le continue ostilità tra i papi e gli imperatori.
Il sistema degli affitti perpetui
In Italia i banchieri seguivano un’aggressiva politica di prestare non solo ai mercanti ma anche ai contadini ed ai proprietari terrieri, spesso mirando ad imposssessarsi delle loro proprietà fondiarie. Lo storico Raymond de Roover dimostra come i sistemi per mezzo dei quali i banchieri del XIV secolo evitavano di esercitare apertamente l’usura fossero di gran lunga più criminali dell’usura stessa.
Le città italiane furono costrette a cedere grossa parte delle loro entrate fiscali, le gabelle, direttamente alle banche creditrici. A partire dal 1315 furono abolite le tasse sul reddito nelle città (gli estimi), per aumentarle invece nelle zone agricole circostanti. Così i banchieri, i mercanti e l’aristocrazia guelfa invece di pagare le tasse potevano estendere i loro crediti (le prestanze) ai comuni ed alle città. In Firenze nel 1342 gli interessi effettivi avevano raggiunto il 15% su un debito di 1.800.000 fiorini d’oro. Nessun prelato denunciò la pratica di quest’usura e i proventi delle gabelle furono impegnati anticipatamente per sei anni ai creditori. Il duca d’Atene, Walter di Brienne, che per un breve periodo fu signore di Firenze, cancellò tutti gli impegni verso i banchieri, cioè dichiarò un’insolvenza come quella di Edoardo III.
Un’idea delle conseguenze della politica economica dei Guelfi Neri si desume dalla storia demografica del contado di Pistoia, la cui densità demografica, che intorno al 1250 aveva raggiunto le 60-65 persone per chilometro quadrato, si ridusse a 50 nel 1340 e piombò a 25 persone per chilometro quadrato nel 1400, come conseguenza di cinque anni di Morte Nera. Le grandi carestie del 1314-1317, del 1328-1329 e del 1338-1339 non furono affatto “disastri naturali”.
Alcune case bancarie toscane, gli Asti di Siena i Franzezi e gli Scali, erano già fallite dopo il 1320. I Peruzzi, gli Acciaiuoli ed i Buonaccorsi operavano in perdita, dirigendosi verso la bancarotta come conseguenza del crollo della produzione dei beni primari di cui avevano ottenuto il monopolio ma che veniva divorata dal meccanismo canceroso della speculazione finanziaria. Gli Acciaiuoli ed i Buonacorsi, che prima della cattività avignonese erano stati i banchieri dei papi, finirono in bancarotta nel 1342 a seguito dell’insolvenza di Firenze e delle prime morosità di Edoardo III. Peruzzi e Bardi, che all’epoca erano le più grandi banche del mondo, crollarono nel 1345, innescando il caos nei mercati finanziari del Mediterraneo e dell’Europa, con l’eccezione della sfera della Lega Anseatica, le città del nord della Germania che non avevano mai ammesso i banchieri italiani ad operare nei loro mercati.
Un’epidemia mortale cominciò a diffondersi nel 1340; non era ancora la peste bubbonica ma falcidiò il 10% degli abitanti della Francia settentrionale e 15 mila dei quasi 100.000 mila abitanti di Firenze. Nel 1347 si diffuse in Europa la Morte Nera, la peste bubbonica e pneumonica, proveniente dalla Cina dove aveva già sterminato 10 milioni di abitanti.
Venezia, la zecca mondiale
“Venezia costituì il più grande successo commerciale del Medio Evo – una città senza industrie, con la sola eccezione delle costruzioni navali militari, giunse a dominare il mondo mediterraneo e controllare un impero semplicemente attraverso le imprese commerciali. Nel XIV secolo giunse al periodo di successo e potenza massimi”, scrive Braudel.
Frederick Lane aggiunge: “I patrizi veneziani si curavano meno dei profitti provenienti dalle industrie rispetto a quelli derivanti dal commercio tra regioni in cui vigevano valutazioni diverse dell’oro e dell’argento”.
Tra il 1250 ed il 1350 i finanzieri veneziani misero in piedi una struttura di speculazione mondiale sulle monete e sui metalli preziosi che richiama per certi aspetti l’immensa speculazione odierna degli “strumenti derivati”. Le dimensioni di questo fenomeno erano tali da contenere e condizionare la più modesta speculazione sul debito, sulle merci e sul commercio delle casate bancarie fiorentine. I veneziani stabilirono il loro controllo monopolistico sull’emissione e sulla circolazione della moneta dei monarchi dell’epoca.
Le banche veneziane potevano apparire ingannevolmente trascurabili rispetto a quelle fiorentine, ma in realtà disponevano di maggiori risorse. Il vantaggio stava nel fatto che l’impero veneziano agiva come un organismo unico, perseguendo i propri interessi con mezzi non solo bancari, ma anche commerciali, diplomatici e spionistici. In questo periodo, il commercio veneziano su lunga distanza avveniva attraverso le “mude di stato”, convogli navali ben scortati, dove tutto era deciso dagli organi dello stato, e dove ai mercanti veniva concessa facoltà di appalto. Lo stato centralizzava inoltre le attività di diverse zecche ed i traffici in metalli preziosi.
Federick Lane presenta una documentazione secondo la quale non più tardi del 1310 questo dei preziosi e della moneta era l’interesse principale dei traffici veneziani. Dietro agli speculatori c’erano naturalmente le grandi garanzie di consorzi finanziari e protezioni politiche, come avviene oggi con individui alla George Soros, le cui fortune immense sembrano spuntare improvvisamente dal nulla.
Ogni anno partiva da Venezia la “muda dei lingotti” composta da venti-trenta galere, armate e scortate senza badare a spese, che navigava alla volta del Mediterraneo Orientale oppure dell’Egitto. Cariche principalmente di argento, le navi facevano ritorno a Venezia cariche di oro sotto ogni forma, monete di tutti i tipi, lingotti, barre, lamine ecc. I profitti di questo commercio erano di gran lunga superiori a quelli degli usurai in Europa, sebbene i Veneziani non si trattenessero dal fare profitti anche su quel fronte.
Dai documenti pervenutici risulta che i finanzieri veneziani prescrivevano ai propri agenti a bordo delle mude di trarre da questi scambi di argento e oro un profitto minimo dell’ 8% per ogni sei mesi di viaggio, il che significa un profitto annuo minimo del 16% e probabilmente medio del 20%.
Un importante documento che dà un’idea dello spirito “imprenditoriale” veneziano risale al 1423, quando il Doge Tommaso Mocenigo tenne un famoso discorso alla Serenissima Signoria per illustrare l’arricchimento favoloso di Venezia.
Disse che l’esportazione aveva raggiunto i 10 milioni di ducati l’anno, attraverso la flotta commerciale. I profitti delle esportazioni ammontavano a 2 milioni di ducati, altrettanto quelli delle importazioni, per cui si può calcolare un profitto annuo del 40%, considerati i due viaggi annui delle grandi mude. La zecca veneziana coniava ogni anno 1.200.000 ducati d’oro e 800.000 ducati d’argento, di cui 20 mila andavano annualmente in Egitto ed in Siria, 100 mila sul territorio italiano, altri 50 mila oltremare e ancora altri 100 mila in Inghilterra ed altrettanto in Francia. Il vecchio doge concluse affermando che presto i veneziani sarebbero stati “signori de l’oro de christiani”, mentre c’è anche la lezione che recita “signori de l’oro e de christiani”.
Frutto della libera impresa? Certamente no. Questo “successo” criminale è il risultato dell’“usura come religione di stato”. Dalla metà del Duecento l’oro orientale veniva saccheggiato dai Mongoli in Cina, che fino ad allora aveva posseduto l’economia più ricca del mondo, ed in India, oppure veniva estratto nelle miniere del Sudan e del Mali in Africa e venduto ai mercanti veneziani in cambio di argento europeo enormemente sopravvalutato. L’argento proveniva dalla Germania, dalla Boemia e dall’Ungheria, ma veniva sostanzialmente venduto tutto ai veneziani che pagavano in oro.
Coniazioni che non erano veneziane cominciarono a sparire, prima dall’impero bizantino, nel XII secolo, poi nei dominii mongoli ed infine in Europa nel XIV secolo.
I crociati e i mongoli
Le crociate che si protrassero tra il 1099 ed il 1291 ebbero un unico effetto strategico principale: espandere e rafforzare l’impero commerciale di Venezia in Oriente. Venezia era la base per il trasporto navale dei crociati, dava loro crediti ed esigeva in compenso “favori” di natura strategica. Attraverso le crociate Venezia si assicurò il controllo su Tiro, Sidone, Acri e Lajazzo e consolidò incontrastata il dominio economico su Costantinopoli e su tutti i traffici che passavano per i Dardanelli. Queste città erano le teste di ponte costiere delle “vie della seta” che attraversando le regioni del Mar Nero e del Mar Caspio giungevano in Cina ed in India. Nel periodo della dominazione mongola, che va dal 1230 al 1370, queste vie erano una sorta di “vie consolari” battute e mantenute dalla cavalleria mongola.
L’impero dei mongoli è stato il più grande della storia ed il più crudele, riuscendo a sterminare con le guerre e le malattie circa il 15% della popolazione mondiale nel giro di un secolo, distruggendo tutte le grandi e fiorenti città, dalla Cina occidentale all’Irak e dal Nord della Russia all’Ungheria, comprese le città commerciali che facevano concorrenza a Venezia. L’alleanza con i mongoli, insieme al monopolio dell’oro del Sudan e del Mali, conferì ai veneziani il monopolio sulla circolazione monetaria nei decenni che precedettero la disintegrazione finanziaria del XIV secolo.
I Mongoli sostituirono la circolazione aurea nei territori conquistati in Cina ed in India con monete d’argento e cartamoneta. Gli scambi con i veneziani avvenivano a Tabriz e Trebisonda, città commerciali persiane cadute sotto i mongoli, e nella città portuale di Tana nel Mar nero. Qui l’oro veniva scambiato con l’argento proveniente dall’Europa. Complementare al traffico monetario era la tratta degli schiavi. L’argento era sottoforma di sommi veneziani, dei piccoli lingotti che “erano il mezzo comune di scambio in tutti i kanati mongoli e tartari... La richiesta di argento dall’estremo oriente era in continuo aumento”, scrive Lane. “I veneziani erano in grado di spingere al rialzo il prezzo dell’argento sebbene ve ne fossero quantità enormi” che arrivavano a Venezia dall’Europa.
Il sistema di alleanze messo a punto dai veneziani comprendeva non solo i crociati, le città guelfe nere e gli angioini, ma spesso anche il papato, tanto che i Mongoli signori della Persia giunsero ad avanzare ai re ed ai papi europei proposte di crociate congiunte. Grazie al diritto esclusivo di commerciare con i Mamelucchi d’Egitto concessole da Papa Giovanni XXII, Venezia stabilì il suo monopolio sullo scambio di argento sopravvalutato e di schiavi forniti dai mongoli in cambio dell’oro del Sudan e del Malì.
"Derivati"
Alla fine del XIII e XIV secolo, Venezia gestiva tutta la coniazione e gestiva i cambi monetari del più grande impero della storia, quello mongolo, allo scopo di saccheggiare e distruggere le popolazioni sottomesse. Venezia aveva esteso il proprio controllo sul resto del commercio e della coniazione di ciò che restava dell’impero bizantino e dei sultanati mamelucchi nell’Africa Settentrionale. In questo stesso periodo Venezia trasformò la circolazione monetaria in tutto l’oriente, da monete in oro a monete d’argento, e di contro trasformò la circolazione monetaria in Europa e Bisanzio, dove la base monetaria d’argento fu sostituita dalla base aurea.
Mercanti e finanzieri veneziani potevano contare su profitti fino al 40% annui su investimenti a breve (semestrali), e questo su una base economica mondiale dove il profitto reale, ovvero il “surplus” produttivo, nei casi migliori si aggirava tra il 3 ed il 4%. (vedi figura 2). Le operazioni bancarie dei Guelfi Neri, dei banchieri fiorentini, rappresentavano un aspetto, un’articolazione delle manipolazioni finanziarie veneziane, e davano tassi di profitto che pur non raggiungendo i record veneziani, erano abbastanza alti da erodere notevolmente la base produttiva reale, accentuando la depressione.
La speculazione monetaria globale sulle economie europee diretta da Venezia, prima del crac del 1340-1350, rappresentò una speculazione a breve termine in cui restarono intrappolati gli altri banchieri europei e determinò il contesto che causò quel tracollo finanziario.
Dal 1275 al 1325, il rapporto tra i valori medi del prezzo dell’oro e quello dell’argento aumentò in maniera continua, disturbato solo da qualche fluttuazione a breve termine. Dal valore di 8 a 1 si arrivò così al valore di 15 a 1. In questo periodo, facendo leva sul monopolio dell’oro mongolo e africano, Venezia s’impossessò dell’abbondante produzione di argento europea. “Venezia deteneva la posizione centrale nel mercato mondiale dei lingotti ed attirò su Rialto un volume rapidamente crescente di acquisti e vendite stimolate dal continuo cambiamento dei prezzi dei due metalli preziosi” scrive Lane. Dal 1290 fino al terzo decennio del secolo successivo si registrò un rapido aumento dei prezzi dei beni più importanti.
In questo processo di rapida speculazione, Venezia “estese il proprio controllo sulle economie circostanti, compresa quella tedesca”, dove si concentrava la produzione di argento, del ferro e dei suoi manufatti. Negli anni successivi al 1320 i mercanti veneziani non si recavano più in Germania, ma i tedeschi furono costretti ad aprire le loro succursali a Venezia, nel “Fondego de’ Tedeschi”. A Rialto si effettuavano transazioni bancarie senza valuta, si concedevano crediti in conto corrente, si stipulavano contratti di credito, si creava quindi “denaro bancario” su cui speculare. Non si trattò di una raffinata innovazione nel mondo bancario, ma più semplicemente del controllo sulla speculazione mondiale: essi avevano il controllo sulle riserve.
In effetti, le famose “lettere cambiali” dei banchieri fiorentini erano soltanto una forma molto grezza dei “contratti derivati” che si sono diffusi come un cancro nell’economia mondiale sullo scorcio del XX secolo. I banchieri fiorentini imponevano di fatto una tangente a chiunque esercitasse il commercio in quanto, date le numerose monete esistenti che stati e città mettevano in circolazione nella propria giurisdizione, i commercianti erano continuamente costretti ad effettuare cambi presso quelle banche. Questa taglia sul commercio, che passa sotto il nome di “lettera cambiale” (presentata come l’innovazione creativa dell’epoca), diventò poi sempre più gravosa perché doveva coprire anche i rischi derivanti dalle fluttuazioni generate dal monopolio veneziano dei metalli preziosi. La lettera cambiale del XIV secolo costava mediamente un 14% d’interesse, un costo del tutto paragonabile al prestito ad usura.
Venezia costrinse l’Europa a passare al sistema aureo risucchiando tutto l’argento in circolazione. Dal 1300 al 1309 l’Inghilterra acquistò all’estero 90 mila sterline di argento per la coniazione, mentre nel periodo 1330-1339 riuscì ad importarne solo 1000 sterline. “Ma per tutto il decennio 1330-1340 a Venezia non si registrò nessuna scarsità di argento”.
I banchieri fiorentini avevano così ampio spazio per speculare con il loro famoso fiorino d’oro. Ma nel periodo 1325-1345 si registra un capovolgimento della situazione. Il rapporto del prezzo dell’oro su quello dell’argento iniziò rapidamente a diminuire,da 15 a 1 scese a 9 a 1. Quando il prezzo dell’argento cominciò a risalire, dopo il 1330, a Venezia l’offerta di argento era enorme. Nel periodo 1340-1350 “lo scambio internazionale di oro e argento tornò ad intensificarsi notevolmente”, afferma Lane, che documenta inoltre una nuova impennata dei prezzi dei beni.
I banchieri fiorentini adesso si trovarono intrappolati con tutti i loro investimenti denominati in oro, mentre il prezzo del metallo scivolava al ribasso.
Dopo il crollo dell’oro innescato dai veneziani alla fine degli anni Venti, i fiorentini non furono in grado di prendere contromisure fino al 1334, quand’era troppo tardi, il re di Francia aspettò fino al 1337 ed il re d’Inghilterra fino al 1340, come detto all’inizio.
Secondo Lane: “La caduta del prezzo dell’oro, alla quale i veneziani avevano decisamente contribuito con notevoli esportazioni di argento ed importazioni d’oro, ricavandone profitti, andò a discapito dei fiorentini. Invece di essere i leader della finanza internazionale... i fiorentini non erano in una posizione di poter profittare dei cambiamenti verificatisi tra il 1325 ed il 1345 come lo furono invece i veneziani”.
I superprofitti della Serenissima nella speculazione globale continuarono fino ai disastri bancari ed alla disintegrazione del mercato avvenuti tra il 1345-47 ed in seguito.
Nel periodo 1330-1350 la Peste Nera si diffuse nella Cina meridionale sterminando tra i 15 ed i 20 milioni di persone, mentre veniva esaurendosi la furia saccheggiatrice dell’impero mongolo. L’economia monogola si fondava su branchi sterminati di cavalli che rovinarono l’agricoltura di tutto l’immenso dominio dei Khan. Questo flagello ebbe anche l’effetto di costringere i roditori portatori della peste, confinati da secoli in una ristrettissima regione del nord-est della Cina, a migrare verso le regioni meridionali e sulle vie che verso occidente portano al Mar Nero.
Nel 1346 la cavalleria mongola diffuse la peste nelle cittadine della Crimea, sul Mar Nero, da dove i traffici marini la portarono in Sicilia, nel 1347, e da qui si diffuse in tutt’Europa.
La popolazione europea ristagnava sugli stessi livelli da circa quarant’anni, concentrandosi però maggiormente nelle città dove le infrastrutture, soprattutto quelle idriche e e sanitarie, risultavano sempre più carenti e malandate. I famosi ponti di Firenze, ad esempio, furono edificati tutti nel XIII e nessuno nel XIV secolo. La situazione alimentare cominciò a peggiorare con lo scarseggiare dei raccolti. Durante le crociate, la pur limitatissima istruzione classica che si impartiva nei monasteri fu duramente perseguitata dall’ordine cistercense di Bernardo di Chiaravalle che predicava le crociate. Nel 1225 il papato proibì che nei monasteri si istruissero i giovani esterni, gli “oblati”, l’unica forma di istruzione per chi non appartenesse ad una famiglia particolarmente facoltosa.
Dopo il crac finanziario e il diffondersi della peste, la popolazione cominciò a ridursi drasticamente, passando da un livello di circa 90 a circa 60 milioni.
Basta con i metodi veneziani!
Dio permette il male perché combattendolo diventiamo esseri umani migliori, scrisse Gottfried Leibniz, il filosofo e matematico tedesco che nel XVII secolo fondò la scienza dell’economia fisica. Ci sono invece quelli, e sono molti, che con Thomas Malthus oggi pensano che una grande epidemia mortale sia il modo migliore per risolvere il problema di presunte eccedenze demografiche. Tra il 1360 ed il 1370 Matteo Villani scrisse nelle sue cronache che mentre ci si attendeva che dopo la peste vi fosse un’abbondanza di prodotti per i pochi sopravvissuti, in realtà si verificarono nuove carestie ed aumenti disordinati dei prezzi.
I prezzi infatti aumentarono per l’arco di un’intera generazione e, a partire dal 1380, si verificarono una forte deflazione e il crollo dei salari.
Nel 1401 re Martino I d’Aragona espulse i “banchieri italiani” dal suo regno. Nel 1403 Enrico IV impose leggi molto rigide sulle loro attività in Inghilterra. Nel 1409 nelle Fiandre i banchieri genovesi furono sbattuti in prigione. Nel 1410 tutti i mercanti italiani furono espulsi da Parigi. Quando Luigi XI diventò re di Francia nel 1461, regolò gli affari monetari e finanziari del paese sotto la sua sovranità per facilitare la rapida costruzione di città e infrastrutture. Sia nella Francia di Luigi XI che nella contemporanea Inghilterra di Enrico VII “forme di economia nazionale mercantilista si combinavano ad una risoluta ostilità alle tecniche finanziarie italiane”.
 
Abbattiamo la Frode Bancaria e il Signoraggio

9 maggiohttps://it-it.facebook.com/pages/Abbattiamo-la-Frode-Bancaria-e-il-Signoraggio/208622872545749#

IL FRONTE ANTI-EUROPEISTA SI ALLARGA, SIETE PRONTI A RIPRENDERVI LA VOSTRA SOVRANITA?

FRONT NATIONAL DI MARINE LE PEN E UKIP DI NIGEL FARAGE DATI PRIMI IN FRANCIA E GRAN BRETAGNA.

IL 25 MAGGIO AVREMO LA POSSIBILITA' DI ESPRIMERE LA NOSTRA... SCELTA, POTREBBE ESSERE L'ULTIMA VOLTA.

SE NON VOTEREMO, I GROSSI PARTITI SVENDERANNO QUEL CHE RESTA DEL NOSTRO BEL PAESE AI LORO COMPLICI DI BRUXELLES: L'ASTENSIONISMO E IL DISINTERESSE DEL POPOLO E' CIO' IN CUI SPERANO PER CONCLUDERE L'OPERA.

IL 25 MAGGIO ANDIAMO TUTTI A VOTARE E INCHIODIAMOLI!!! Altro...






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LONDRA - Alcuni anni fa, ho moderato un dibattito in cui un uomo politico statunitense insisteva che la stampa di denaro della Federal Reserve avrebbe presto portato all'iperinflazione. Eppure oggi la principale preoccupazione della Fed è piuttosto come riuscire far salire l'inflazione all'obiettivo stabilito. Come molti altri, il politico non riusciva a capire il funzionamento del sistema monetario.
Ma purtroppo, l'ignoranza non è beata! Ha reso più difficile per le banche centrali agire in modo efficace. Fortunatamente la Banca d'Inghilterra si sta preoccupando di fornire la formazione necessaria. Nel suo ultimo Bollettino trimestrale, il suo staff spiega il sistema monetario. Riporto qui sette punti fondamentali su come effettivamente funziona, al contrario di quel che la gente pensa.
In primo luogo, le banche non sono solo intermediari finanziari. L'atto del risparmio non aumenta i depositi nelle banche. Se il tuo datore di lavoro ti paga, il deposito semplicemente si sposta dal suo conto al tuo. Questo non influisce sulla quantità totale di moneta; invece la moneta aggiuntiva è un prodotto dei prestiti. Ciò che rende speciali le banche è che i loro debiti sono soldi - un titolo di debito (IOU) universalmente accettato. Nel Regno Unito, il 97 per cento dell'aggregato monetario più ampio è costituito dai depositi bancari per lo più creati dal credito bancario. Le banche effettivamente "stampano" soldi. Ma quando i clienti rimborsano i crediti, vengono distrutti.
In secondo luogo, il "moltiplicatore monetario" che collega i prestiti alle riserve bancarie è un mito. Nel passato, quando le banconote potevano essere liberamente convertite in oro, questo rapporto poteva anche esistere. Dei severi coefficienti di riserva potevano ancora ristabilirlo. Ma non è così che funziona oggi il sistema bancario. In un sistema monetario fiat, la banca centrale crea riserve a volontà. Quindi fornirà alle banche le riserve di cui hanno bisogno (ad un certo prezzo) per estinguere le loro obbligazioni di pagamento.
In terzo luogo, sono i rischi e i benefici attesi che determinano la quantità dei prestiti concessi dalle banche, e così la quantità di moneta che esse creano. Le banche devono considerare quanto hanno da offrire per attrarre depositi e quanto potrebbe essere redditizio o rischioso qualsiasi eventuale prestito supplementare. Lo stato dell'economia - in sé fortemente influenzato dalle loro azioni collettive - guiderà queste decisioni. Anche le decisioni degli operatori non-bancari influenzano direttamente le banche. Se i primi rifiutano di contrarre prestiti e decidono di rimborsare quelli che hanno, il credito e così il denaro si ridurrà.
Quarto, la banca centrale influenzerà le decisioni delle banche adeguando il prezzo che fa pagare (il tasso di interesse) sulle riserve supplementari. Ecco come funziona la politica monetaria in tempi normali. Dal momento che la banca centrale è il fornitore monopolista delle riserve bancarie e poiché le banche necessitano di depositi presso la banca centrale per aggiustare i loro reciproci pagamenti, la banca centrale può in questo modo determinare il tasso di interesse a breve termine dell'economia. Nessuna banca sana di mente presterebbe a un tasso inferiore a quello che deve pagare alla banca centrale, che è la banca delle banche.
Quinto, le autorità possono anche influenzare le decisioni di prestito delle banche attraverso la regolamentazione - requisiti di capitale, requisiti di liquidità, regole di finanziamento e così via. La giustificazione di questa regolamentazione è che il credito bancario ha delle ricadute o "esternalità". Così, se molte banche finanziano coi prestiti la stessa attività - acquisto di immobili, per esempio - faranno salire la domanda, i prezzi e le attività, giustificando così ancora maggiori prestiti. Un ciclo di questo tipo potrebbe portare - anzi spesso ha portato - ad un crollo del mercato, una crisi finanziaria e una profonda recessione. La giustificazione di una regolamentazione sistemica è che serve, o almeno dovrebbe servire, ad attenuare questi rischi.
Sesto, le banche non prestano le loro riserve, non hanno bisogno di farlo. Non lo fanno perché tutti gli operatori non-bancari non possono tenere un conto presso la banca centrale. E non ne hanno bisogno perché possono creare prestiti per conto proprio. Inoltre, le banche non possono ridurre le loro riserve aggregate. La banca centrale può farlo con la vendita di asset. Il pubblico può farlo convertendo i depositi in cash, l'unica forma di moneta di banca centrale che il pubblico può detenere.
Infine, il quantitative easing - l'acquisto di asset da parte della banca centrale - amplierà l'offerta di moneta. Lo fa sostituendo, per esempio, i titoli di Stato detenuti dal pubblico con depositi bancari, e in questo processo espande le riserve delle banche presso la banca centrale. Questo aumenterà l'aggregato monetario più ampio, a parità di condizioni. Ma dal momento che non vi è alcun moltiplicatore della moneta, l'impatto sull'offerta di moneta può essere - e in effetti recentemente lo è stato - modesto. L'impatto principale del QE è sui prezzi relativi degli asset. In particolare, questa politica aumenta i prezzi delle attività finanziarie e ne riduce il rendimento. La giustificazione per questo è che a livello di tassi zero la normale politica monetaria non è più efficace. Così la banca centrale cerca di abbassare i rendimenti su una più ampia gamma di asset.
Questo non è solo un discorso accademico.
Comprendere il sistema monetario è essenziale. Uno dei motivi è che eliminerebbe gli ingiustificati timori di iperinflazione. Questa potrebbe verificarsi se la banca centrale creasse troppa moneta. Ma negli ultimi anni la crescita della moneta detenuta dal pubblico è stata troppo lenta, non troppo veloce. In assenza di un moltiplicatore monetario, non vi è alcuna ragione perché le cose cambino.
Una ragione ancora più forte è che subappaltare la funzione di creazione della moneta ad imprese private in cerca di profitto non è il solo sistema monetario possibile. E può anche non essere il migliore. Infatti, esiste la possibilità di lasciare che sia lo stato direttamente a creare moneta. Ho intenzione di affrontare questo argomento in un prossimo articolo.
Autore dell'articolo: Martin Wolf per il Financial Times
 
Cartello degli spacciatori di moneta: con ritardo, se ne accorgono anche i mainstream



Ora quel che vo evidenziando da anni (cfr: http://mercatoliberotestimonianze.blogspot.it/search?q=banche+dealer ) lo stanno dicendo i media mainstream... Con 5 anni di ritardo rispetto ai miei articoli sull'argomento...
N. Forcheri




18 APR 2014 17:36 Fonte: http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/un-debito-che-e-una-cuccagna-le-aste-sui-titoli-di-stato-italiani-sono-75808.htm UN DEBITO CHE E’ UNA CUCCAGNA – LE ASTE SUI TITOLI DI STATO ITALIANI SONO CONTROLLATE DA POCHE BANCHE ESTERE CHE FANNO SOLDI A PALATE GESTENDO I COLLOCAMENTI DI BOT E BTP. IN TESTA CI SONO CITIGROUP E BARCLAYS

Solo nel 2014 dovrà essere rifinanziato debito con 450 miliardi di emissioni lorde. Gli “specialisti” esteri dei nostri titoli cosa guadagnano, esattamente, a vincere questa particolare graduatoria? Naturalmente soldi e un’immensa pubblicità, che a cascata può portare altri soldi…
 
Pubblicato da Nicoletta Forcheri a 16:48 Reazioni: Link a questo post ShareThis Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest






Tamburro: una banca pubblica per risparmiare 70 miliardi l'anno




ITALIA - COME RISPARMIARE 70 MILIARDI DI EURO L'ANNO?


APPELLO PER UNA BANCA PUBBLICA DI INTERESSE NAZIONALE

Scarica il testo integrale con tabelle in formato pdf

Il Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) è, accanto al Trattato sull'Unione Europea (TUE), uno dei documenti fondamentali dell'Unione Europea (UE). Assieme costituiscono le basi fondamentali del diritto primario nel sistema politico dell'UE.
Il TUE contiene soprattutto i principi istituzionali.
Il TFUE, invece, è composto da ben 358 articoli; in particolare spiega in modo più dettagliato il funzionamento degli organi dell'UE e stabilisce con precisione in quali ambiti l'UE è attiva e con quali competenze.


Di seguito si citano l'art.1, art.123 e l'art.128 del TFUE1:
Articolo 1
1.Il presente trattato organizza il funzionamento dell'Unione e determina i settori, la delimitazione e le modalità d'esercizio delle sue competenze.
2.Il presente trattato e il trattato sull'Unione europea costituiscono i trattati su cui è fondata l'Unione. I due trattati, che hanno lo stesso valore giuridico, sono denominati «i trattati».


Articolo 123
1.Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell'Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali.
2.Le disposizioni del paragrafo 1 non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell'offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati.

https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=2098541110841960849
Articolo 128
1.La Banca centrale europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l'emissione di banconote in euro all'interno dell'Unione. La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali possono emettere banconote. Le banconote emesse dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali costituiscono le uniche banconote aventi corso legale nell'Unione.
2.Gli Stati membri possono coniare monete metalliche in euro con l'approvazione della Banca
centrale europea per quanto riguarda il volume del conio. Il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea, può adottare misure per armonizzare le denominazioni e le specificazioni tecniche di tutte le monete metalliche destinate alla circolazione, nella misura necessaria per agevolare la loro circolazione nell'Unione.


PREMESSO CHE
l'euro è amministrato dalla Banca centrale europea (BCE), con sede a Francoforte sul Meno, e dal Sistema europeo delle banche centrali (SEBC); il primo organismo è responsabile unico delle politiche monetarie comuni, mentre coopera con il secondo per quanto riguarda il conio e la distribuzione di banconote e monete negli stati membri.
Obiettivo del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi per preservare il valore dell'euro. Per svolgere le operazioni che rientrano nei compiti della SEBC, la BCE farà capo alle banche centrali nazionali. Spetta al SEBC fissare il Tasso Ufficiale di Riferimento (TUR). Il TUR rappresenta il costo del denaro, ossia il tasso con cui la Banca centrale concede prestiti alle altre banche. Dal 13 novembre 2013 esso è pari allo 0,25%.


PREMESSO CHE
i Titoli di Stato sono obbligazioni emesse periodicamente dal Ministero dell'Economia e delle Finanze per conto dello Stato con lo scopo di finanziare il proprio debito pubblico o direttamente il deficit pubblico.
L'acquisto dei Titoli di Stato può essere effettuato sia in asta sul mercato primario al momento dell'emissione, sia sul mercato secondario; in ogni caso occorre farlo tramite una banca o un intermediario finanziario.
Sul Mercato Primario hanno accesso unicamente banche definite “Specialisti in Titoli di Stato”, ossia operatori che svolgono la funzione di market maker (primary dealers) per i quali sono previsti obblighi di sottoscrizione nelle aste dei titoli di Stato e di negoziazione di volumi sul mercato secondario. A fronte di tali doveri, essi godono di alcuni privilegi, tra cui la facoltà di partecipare in maniera esclusiva ai collocamenti supplementari delle aste di emissione. (vedi artt. 4 e 9 del Decreto Dirigenziale n. 993039 3 del 11/11/2011)
Tra i cosiddetti “Specialisti in Titoli di Stato” si annoverano banche non solo italiane, ma anche straniere.


Elenco degli Specialisti in Titoli di Stato a decorrere dall'8 aprile 2013:


Banca IMI SpA
Barclays Bank PLC
BNP Paribas
Citigroup Global Markets Ltd.
Commerzbank AG
Crédit Agricole Corp. Inv. Bank
Credit Suisse Securities (Europe) Ltd.
Deutsche Bank AG
Goldman Sachs Int. Bank
HSBC France
ING Bank N.V.
JP Morgan Securities Ltd.
Merryl Lynch
Monte dei Paschi di Siena SpA
Morgan Stanley & CO Int. PLC
Nomura Int. PLC
Royal Bank of Scotland PLC
Société Générale Inv. Banking
UBS Ltd
Unicredit SpA


Con un debito pubblico che viaggia ormai oltre i duemila miliardi di euro (nel 2013 è stato pari a €2.067 miliardi – fonte Banca d'Italia), che nel 2013 ha raggiunto il 132,6% del Pil, il livello più alto dal 1990, di questi ben oltre 1.700 miliardi sono rappresentati da Titoli di Stato (prevalentemente Btp) detenuti da banche e istituzioni finanziarie italiane ed estere e, in misura minore, da piccoli risparmiatori (solo il 10% del totale).
Negli ultimi anni i detentori esteri sono scesi dal 47,1% al 30%, mentre quelli italiani sono passati da poco più della metà al 70%.


PREMESSO CHE
dovendo far ricorso al mercato finanziario ogni anno lo Stato italiano – ma sarebbe meglio dire “i cittadini italiani” - versa nelle “casse” delle banche (i principali detentori dei Titoli di Stato) miliardi di euro che vengono sottratti alle esigenze della collettività.


Già solo analizzando gli anni dal 2006 al 2013 si potrà agevolmente evincere come lo Stato italiano abbia erogato circa seicento miliardi di euro per finanziare il proprio debito pubblico, pagando solo nell'anno 2013 oltre settantotto miliardi di euro di interessi e le previsioni per questo valore sono in costante aumento.
Il circolante Titoli di Stato a gennaio 2014 è stato pari a 1.738 miliardi, massimo storico.


NE CONSEGUE
che dalla lettura dei precedenti articoli del TFUE si evince che lo Stato italiano, membro dell'Unione Europea, non potendo ricorrere all'emissione monetaria di una valuta diversa dall'euro, è vincolato esclusivamente all'utilizzo della valuta euro per finanziare il proprio debito pubblico e per fronteggiare gli obiettivi di spesa pubblica, la realizzazione di beni e servizi ai cittadini e il perseguimento della piena occupazione.




SI PROPONE
di ricorrere a quanto descritto dall'art.123 comma 2 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) allo scopo di dotarsi di un ente creditizio pubblico (es.: una banca di interesse nazionale e a capitale interamente pubblico), accedendo alla liquidità offerta dalla BCE al tasso attuale dello 0,25%, tasso di gran lunga inferiore rispetto a quello offerto dal mercato finanziario, e in seguito utilizzare questa liquidità per rifinanziare il settore industriale italiano e ridurre il debito pubblico esistente, il tutto senza ledere alcun trattato stipulato nell'euro-zona ed utilizzando sempre l'euro come moneta a corso legale.
Il questo modo il debito generato sarebbe direttamente nei confronti della BCE, che oggigiorno presta liquidità al tasso dello 0,25% , piuttosto che indebitarsi con i mercati al tasso medio del 4-5%.
Se solo avessimo fatto ricorso a questa soluzione, cioè adottando una banca pubblica in grado di approvvigionarsi di liquidità direttamente dalla BCE, anziché attraverso banche ed intermediari privati, avremmo ottenuto un risparmio calcolato dal 2006 al 2013 di oltre 388 miliardi di euro, pagando oggi oltre 70 miliardi di euro in meno di interessi l'anno.




Non si comprende perché, alla luce di queste soluzioni, tra l'altro realizzabili da subito se non nel breve periodo e nel pieno rispetto dei Trattati europei, i governi che si avvicendano continuino “ingenuamente” a proporre ricette economiche fallimentari o incapaci di risolvere i problemi che attanagliano il popolo italiano, quali mancanza di competitività delle nostre imprese all'estero, diminuzione dei consumi interni, assenza di grandi investimenti pubblici, con conseguente incapacità di risollevare l'economia e le piccole-medie imprese che compongono l'ossatura del nostro sistema produttivo.
Tutto ciò senza dimenticare due piaghe che non possiamo ignorare: il continuo aumento del debito pubblico che ci impone di seguire vincoli capaci solo di strozzare la nostra economia (e i dati macro-economici ne sono la prova), e la disoccupazione che strappa un nuovo record negativo, toccando a febbraio 2014 quota 13%, registrando 3,3 milioni di italiani in cerca di lavoro e senza futuro.
Confido nel fatto che questa proposta, quantunque non esauriente a risolvere tutti i problemi sistemici, venga presa al più presto in considerazione, anche perché non sarebbe una novità nel contesto europeo, dal momento che ci sono altri Paesi i quali, non a torto, adottano una banca con la caratteristica specifica di finanziare l'apparato produttivo nazionale.
Non tutti sanno che in Germania è operativa da tempo una banca molto utile all'economia tedesca, ossia la KfW Bankengruppe.
La KfW (non a caso reputata la prima banca più sicura al mondo) è nata nell'immediato dopoguerra, definendosi una "banca della ricostruzione", col compito di amministrare i fondi del piano Marshall. Essa è posseduta all'80% della Repubblica federale e al 20% dai Lander (ossia i 16 stati federati della Germania, sempre soggetti pubblici).
Svolge molti compiti di finanziamento del settore pubblico e finanzia le piccole-medie imprese, sostenendo costi che restano al di fuori del perimetro del bilancio federale e che pertanto non figurano nel debito pubblico tedesco11.
Come la Germania, anche la Francia, su modello della KfW tedesca, si serve di una banca chiamata BPI (Banca pubblica d’investimento) che, a detta del presidente francese François Hollande, è in grado di “promuovere lo sviluppo della PMI, acquisire partecipazioni in aziende strategiche per lo sviluppo locale e per la competitività della Francia, in cui parte del finanziamento sia diretto verso l'economia sociale e solidale”.
C'è da chiedersi perché, in Italia, una proposta del genere non sia avanzata da alcun partito politico, discussa nelle sedi istituzionali o in dibattiti mediatici, bensì resti un'idea sconosciuta all'opinione pubblica e circoscritta ad una ristretta élite di “addetti ai lavori”.
 
Follia UE, in programma il Debt Redemption Fund: 1.000 euro all’anno di tasse per persona per 20 anni



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Alzi la mano quanti hanno sentito parlare dell’ultima, mostruosa, follia targata Unione Europea: il Debt Redemption Fund. I giornaloni nostrani, tutti protesi a contarci le gesta renziane, si sono “dimenticati” di svelare l’arcano. Potevano non sapere? No, perché persino il quotatissimo Financial Times, nel novembre 2011, descriveva “l’urgenza europea di creare un Debt Redemption Fund”. Ma tutti i nodi vengono al pettine e Marzo 2014 è il termine ultimo che il Gruppo di Esperti, incaricati da Bruxelles, si è dato per presentare il report finale su DRF. Cerchiamo, allora, di capire cos’è e perché (quasi) tutti ce lo tengono nascosto.




La migliore descrizione di quanto folle, stupida e pericolosa sia l’idea del Debt Redemption Fund l’ha data Alessandro Guzzini su Micromega.
“Si è fatta strada negli ultimi tempi l'idea di un Fondo di Redenzione come alternativa agli Eurobond. Ma se davvero fosse attuato, il 10% del PIL italiano dovrebbe, per 20 anni, andare al servizio (e all’estinzione) del debito: una follia per chiunque abbia una minima nozione di Macroeconomia e di Fiscalità.”
Guzzini è amministratore delegato e presidente del comitato investimenti di FinLABO Sim, società d’investimenti. Laureato con lode in ingegneria e diplomato al Master ISTAO in gestione di impresa, ha iniziato la sua carriera come consulente di direzione alla JMAC Europe. E’ socio AIAF (Associazione Italiana Analisti Finanziari) e membro del consiglio di amministrazione di Fimag Spa (Gruppo Guzzini), della IGuzzini Spa e di Finlabo Investments Sicav SA.
Non è, quindi, un anti-europeista alla Grillo o un “complottista” alla Barnard, per capirci.
“L’idea dei tedeschi – continua Guzzini su Micromega - è di creare un fondo che acquisti il debito pubblico di ogni paese che ecceda il 60% del PIL dello stesso. Secondo i piani, il fondo dovrebbe avere una garanzia congiunta di tutti i paesi dell’Eurozona e dovrebbe finanziarsi emettendo titoli di debito sul mercato. (…) Il fondo andrebbe ammortizzato in 20 anni, quindi ogni anno ogni paese si dovrebbe impegnare a versare gli interessi (che rimarrebbero ugualmente elevati, non è previsto infatti una rimodulazione degli stessi essendo i titoli già emessi sul mercato) ed una quota del debito stesso. Facendo l’esempio dell’Italia quindi, il fondo acquisterebbe un ammontare di debito pubblico pari a circa il 65% del PIL (quindi circa 1000 miliardi): ogni anno l’Italia dovrebbe versare al fondo quindi circa 50 miliardi come rimborso del capitale ed altri 40 circa a titolo di interesse; in pratica al fondo andrebbe versato ogni anno quasi il 6% del PIL. Da notare che all’Italia poi rimarrebbe sempre in carico il 60% del proprio debito (sempre in rapporto al PIL): questo debito diventerebbe di fatto subordinato al primo ed è quindi evidente che i tassi di interesse sui nuovi titoli emessi salirebbero invece di scendere! È probabile quindi che per servire il debito che rimarrebbe in carico direttamente al paese l’Italia dovrebbe, con tutta probabilità, spendere circa un altro 3-4% del proprio PIL. In totale quindi il 10% del PIL italiano dovrebbe, per 20 anni, andare al servizio (e all’estinzione) del debito: chiunque abbia la minima nozione di Macroeconomia e di Fiscalità pubblica può capire come sia del tutto assurdo che ciò possa essere realizzabile!”
50 miliardi all’anno fa, less or more, circa 1.000 euro a testa all’anno, compressi vecchi in punto di morte e neonati.
Gli esperti, o presunti tali, che compongono il gruppo di lavoro sul Debt Redemption Fund sono undici: qui trovate tutti i nomi. Su cui spicca un nome in particolare, perché esaustivo del sistema alla base del DRF: parliamo di Beatrice Weder di Mauro, tecnocrate con un passato lavorativo prima al Fondo Monetario Internazionale poi alla Banca Mondiale. Oggi la signora siede nel board della ThyssenKrupp, l’azienda tedesca condannata al risarcimento danni per il rogo di Torino e la morte di 7 operai, ed nel board di Hoffman-La Roche, l’azienda svizzera accusata, insieme a Novartis, di disastro doloso per aver fatto “cartello” sui farmaci.
Ora, la domanda è questa: possono siffatti “esperti” decidere, senza condizionamenti, del destino di un’Europa intera?
La risposta la avremo a breve. E ci sarà poco da stare allegri.

Pubblicato da Nicoletta Forcheri a 17:08
 
http://www.ilnord.it/c-2953_SUCCESSO_CO ... _A_GENNAIO

SUCCESSO COLOSSALE DELL'UNGHERIA DI ORBAN! CRESCITA ECONOMICA AL RITMO DELLA CINA: +8,1% A FEBBRAIO! (+6,1% A GENNAIO!)
giovedì 8 maggio 2014
BUDAPEST - La crescita della produzione industriale ungherese ha un'accelerazione insapettata perfino per gli analisti più ottimisti. Gli ultimi dati resi noti per il mese di febbraio 2014 mostrano un tasso di sviluppo e di crescita che è il più alto e veloce degli utlimi tre anni. Questo indicano i dati preliminari dell'Ufficio Centrale di Statistica ungherese resi pubblici ieri.

L'indice della produzione industriale è aumentato di uno straordinario 8,1% anno su anno a febbraio, dopo una crescita del 6,1% nel mese di gennaio. Gli economisti avevano previsto una crescita del 5,9 per cento.

La produzione è cresciuta per il sesto mese consecutivo. Nei primi due mesi dell'anno, la produzione industriale è aumentata mediamente del 7,1% rispetto a un anno fa. L'ufficio statistico è prevista per rilasciare i dati dettagliati sulla produzione industriale il 14 aprile.

Questo risultato porta l'Ungheria ad affiancare addirittura la Cina quanto a sviluppo dell'attività economica industriale e manifatturiera. E' fuor di dubbio che questo risultato sia la prova provata della giustezza delle scelte politiche del governo Orban, che ha reciso le catene che costringevano l'Ungheria a sottostare alle folli politiche economiche dell'Unione Europea e della Banca Centrale Europea.

Bruxelles e Francoforte sono state abbandonate da Orban al loro destino infausto, e infatti mentre l'Ungheria sta crescendo al ritmo di Shanghai, la Zona euro si sta inabissando come il Titanic.

Non pensiamo servano molte altre parole per far capire che senza l'euro-BCE si prospera, con l'euro-BCE si muore.
 
Europea, US Air Force, US Army, US Navy, USA
Crisi ucraina: il grande bluff delle sanzioni economiche dell’Occidente contro la Russia

maggio 11, 2014 3 commenti

Lezione N° 72 di Geostrategia africana, parte 2/4
Jean-Paul Pougala (ex-cameriere) Bamena (Camerun), 05/05/2014
Jean-Paul Pougala insegna Geostrategia Africana al Master II presso l’Istituto Superiore di Management, ISMA, di Douala, Camerun
Crisi ucraina: il grande bluff delle sanzioni economiche occidentali contro la Russia
Ecco il 2 e 3 aprile 2014, i titoli dei principali quotidiani occidentali:
The New York Times del 2 aprile è il primo a pubblicare la nota interna di un certo Michael F. O’Brien, vicedirettore per le relazioni internazionali della NASA, “La NASA rompe il maggior contatto con la Russia” (NASA ha tagliato tutti i rapporti con la Russia).
Il giorno dopo, il 3 aprile, sono emittenti e giornali europei ad entrare in ballo:
“La NASA taglia i rapporti con Mosca a causa della crisi in Ucraina”, Info-RTS (Radio Télévision Suisse).
“La NASA sospende i “contatti” con la Russia”, Le Monde
“La NASA sospende i contatti con la Russia”, Le Figaro
Queste informazioni sono solo fumo, come il bluff delle pseudo-sanzioni economiche occidentali contro la Russia sulla crisi ucraina e ne capiremo immediatamente il perché.
Oblio selettivo delle informazioni
Tutti i giornalisti che danno queste informazioni non comunicano quella più importante, di soli cinque giorni prima che contraddice tali presunte informazioni. Il 27 marzo 2014, al Congresso degli Stati Uniti d’America, il numero 1 dell’agenzia spaziale statunitense, la NASA, Charles Bolden dice ad alcuni deputati e senatori statunitensi che se ci saranno sanzioni tra Russia e Stati Uniti, gli Stati Uniti avranno più da perdere. Spiega perché in realtà gli Stati Uniti non potrebbero sostenere a lungo le sanzioni russe contro gli statunitensi nello spazio. In conclusione, secondo le agenzie, da AP a Reuters via AFP, ai membri del Congresso “conferma la fiducia nel partenariato spaziale con la Russia, da cui gli Stati Uniti dipendono per inviare i loro astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), nonostante le tensioni per la crisi ucraina“. Ecco le informazioni fornite dallo stesso direttore al Congresso degli Stati Uniti. Ma perché i giornali occidentali ignorano queste informazioni per concentrarsi invece su una nota interna del vicedirettore di una sottocommissione? Ancora più inquietante: perché Michael F. O’Brien può fare una dichiarazione in totale contraddizione con le dichiarazioni del suo capo di cinque giorni prima? Ecco in dettaglio la sua dichiarazione: “Data la violazione da parte della Russia della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, fino a nuovo avviso il governo statunitense ha deciso che qualsiasi contatto tra la NASA e funzionari del governo russo dovrebbe essere sospeso, salvo quanto diversamente ed espressamente previsto (…) L’agenzia spaziale degli Stati Uniti pone termine ai voli dipendenti dalla Russia, così come all’ospitalità data ai russi nei suoi edifici, e decreta il congelamento dei contatti via e-mail, teleconferenze o videoconferenze“. Chi ha ragione in questo gioco a poker truccato, dove entrambi i giocatori giocano lo stesso ruolo al fine di confondere il cittadino ignaro in una cortina di fumo e montature? In tutto ciò, vi sono due statunitensi nello spazio con tre russi che volano sulle nostre teste nella stazione spaziale internazionale, ISS. Dalla fine dei voli degli Shuttle nel 2011 ad oggi, è la Russia che ha i mezzi tecnici per inviare qualcuno su questa stazione. Il direttore della NASA cercava di spiegare ai congressisti che se la Russia si arrabbia, i due astronauti statunitensi rimarranno bloccati per sempre nello spazio.
E l’Agenzia spaziale europea? Il suo caso è ancora più grave, perché per inviare i propri cittadini nello spazio, gli europei sgomitano. E la Russia ne approfitta. La tariffa per visitare la Stazione Spaziale Internazionale ISS per qualsiasi cittadino non russo è di 71 milioni di dollari, 53 milioni di euro andata e ritorno. E i posti sono limitati, naturalmente. Nel caso di serie sanzioni contro la Russia, questa potrebbe semplicemente rimborsare il Paese occidentale del biglietto di ritorno chiedendogli di sbrogliarsela da solo nel far rientrare il suo astronauta. Si può quindi immaginare l’effetto devastante sull’opinione pubblica occidentale contro i propri capi politici che lasciano morire i propri astronauti nello spazio. Non è finzione, questo è il piano B che Mosca ha preparato in risposta agli occidentali, se superassero la linea rossa. Per saperlo basta ascoltare il viceprimo ministro russo Dmitrij Rogozin dopo la prima delle sanzioni del 28 aprile. Ecco cosa ha detto all’agenzia russa Interfax: “Se vogliono colpire l’industria dei missili russi, automaticamente abbandoneranno i loro cosmonauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (…) Onestamente, cominciano a dare sui nervi con le loro sanzioni e non capiscono nemmeno che gli ritorneranno come boomerang.(…)” E secondo l’agenzia Itar-Tass ecco cosa aggiunge sul suo account Twitter: “Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro la nostra industria spaziale. Ma abbiamo avvertito che risponderemo dichiarazione per dichiarazione e azione per azione (…) Gli statunitensi potranno inviare i loro astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) con un trampolino“. I due astronauti statunitensi sono Rick Mastracchio e Steve Swanson e il loro rientro è previsto per ottobre 2014. Salvo che nel frattempo la situazione si aggravi tra i due Paesi e che i russi semplicemente decidano di lasciarli morire nello spazio. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama avrebbe dovuto seguire il consiglio di un detto popolare akonolinga del Camerun, che recita: “Se vuoi entrare in lotta, per primo togliti il cesto di uova che hai sulla testa“. Prima di fare dichiarazioni sensazionali sulle sanzioni contro la Russia, si dovrebbe far prima rientrare gli astronauti. La Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è un investimento da 150 miliardi di dollari forniti da diversi Paesi del mondo. Ma in realtà è gestita dalla Russia, dato che essa solo ha i mezzi tecnici per portarvi personale. Per ridurre la dipendenza dai voli del cargo da trasporti russo Progress, il governo degli Stati Uniti ha concluso accordi miliardari per inviarvi solo 40 tonnellate di carico con due società statunitensi, l’Orbital Sciences per 1,9 miliardi dollari (8 viaggi per consegnare 20 tonnellate di carico) e la SpaceX per 1,6 miliardi dollari (12 viaggi per trasportare 20 tonnellate di carico). Pertanto, senza i russi il programma spaziale degli Stati Uniti è un’avventura piuttosto rovinosa, senza risultati convincenti. L’uscita del 2 aprile 2014 della NASA, che denunciava la cooperazione con la Russia per la crisi ucraina, è un vero e proprio bluff, perché almeno in questo settore, gli statunitensi hanno bisogno dei russi e non il contrario. Ci sono per esempio sempre due navette russe Sojuz nella stazione spaziale, per evacuarne gli occupanti in caso di imprevisti o d’emergenza (incendi, mancanza di ossigeno, prolungata assenza di elettricità, ecc.). Tuttavia su ogni navetta ci sono solo tre posti. E in caso d’incidente, come regola sono i russi i primi a prendervi posto e Mosca poi decide il destino dei restanti occupanti, chi salvare e sacrificare tra europei e statunitensi. E questo non è tutto. Nel settore degli investimenti e dei lanci orbitali dei satelliti per comunicazioni militari o civili, gli Stati Uniti dipendono dalla Russia. Secondo il New York Times del 2 aprile 2014, il segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America, Chuck Hagel, ha preteso rabbiosamente che l’US Air Force non si rivolga più alla Russia. Finge di dimenticare che i previsti satelliti militari statunitensi sono assegnati al vettore Atlas-5 della joint venture tra Boeing e Lockheed Martin. E queste due aziende da anni usano per i loro lanciatori motori realizzati in Russia, tra cui i famosi RD-180 che hanno superato tutti i record di lanci senza incidenti dovuti a guasti del motore. Dire a Boeing o Lockheed Martin di lasciare i motori russi, significa chiedergli di iniziare nel 2014 le ricerche su nuovi motori per equipaggiare i loro vettori. Tempo necessario, almeno 10 anni per avere i primi motori. Si tratta puramente e semplicemente di null’altro che stupidità strategica. Ma perché tale improvviso odio contro la Russia? È per amore dell’Ucraina? Ne dubito.
La democrazia negli USA
Per comprendere la sequenza degli eventi in Ucraina negli ultimi mesi, può essere importante tornare al 1835 per leggere un libro di 438 pagine, attuale punto di riferimento per comprendere la politica degli Stati Uniti. Ecco cosa Alexis de Tocqueville scriveva nel primo volume del suo libro, “La democrazia negli Stati Uniti“: “Sulla terra oggi ci sono due grandi popoli che, partendo da diversi punti, sembrano muoversi verso lo stesso obiettivo: i russi e gli anglo-americani. Entrambi sono cresciuti nell’ombra; e mentre l’attenzione degli uomini era rivolta altrove, improvvisamente sono tra le prime nazioni, e il mondo ne ha appreso quasi allo stesso tempo nascita e grandiosità. Tutti gli altri popoli sembrano aver raggiunto i limiti che la natura gli ha tracciato non avendo che da conservare; ma loro avanzano: tutti gli altri si sono fermati o avanzano con estrema difficoltà; solo loro camminano con passo rapido e facile su un corso di cui non si possono ancora vedere i limiti. (…) Per raggiungere l’obiettivo, i primi puntano agli interessi personali e danno libero corso alla forza e alla ragione individuali. I secondi concentrano in qualche modo su un uomo tutto il potere della società. (…) Il loro punto di partenza è diverso, i loro percorsi sono diversi; tuttavia, ciascuno sembra chiamato a un disegno segreto della Provvidenza, che un giorno terrà nelle sue mani i destini di mezzo mondo“.
Quando analizziamo gli eventi in Ucraina, possiamo dire che dei due protagonisti principali, gli Stati Uniti sembrano agire con maggiore dilettantismo, nella mediocrità. Minacciare di sanzioni Putin, acclamato dal suo popolo con quasi l’80% di popolarità per aver annesso la Crimea, sperando che tremi come un bambino alla’asilo, è alquanto ingenuo per non dire sciocco. Ma perché? Secondo le analisi e le previsioni di Tocqueville, la democrazia statunitense è indebolita dalla totale assenza di libertà intellettuale, per via di ciò che chiamava “dispotismo delle masse” e “tirannia della maggioranza”. Dice che in questo Paese gli “ignoranti si credono saggi”. Sul dilettantismo statunitense nella politica internazionale sappiamo che non è dovuto a mancanza d’intelligenza dei suoi strateghi, ma piuttosto dal bisogno di compiacere e assoggettarsi alla “tirannia della maggioranza”, agli ignoranti che non sanno nemmeno dove siano i propri interessi. E’ in questo contesto che il presidente Obama annuncia e minaccia sanzioni economiche contro la Russia, quando tutti sanno che tali sanzioni non saranno mai messe in pratica senza colpire gli operatori economici degli Stati Uniti. Ciò vale per gli Stati Uniti, ma anche per i loro alleati. In termini puramente economici, si veda l’esempio di uno dei Paesi occidentali che brandisce le sanzioni contro la Russia, la Germania.
Germania
I politici europei sono veramente incoscienti“. Non lo dico io, ma è ciò che pensa e dice apertamente chi conta nell’economia tedesca, soprattutto industriali chimici, automobilistici e bancari riguardo le dichiarazione dei vari capi europei sulla crisi ucraina. In un articolo del quotidiano economico francese “La Tribune” del 13 marzo, con il suggestivo titolo: “I padroni tedeschi riluttanti a punire la Russia“, il giornalista Romaric Godin ci dice come praticamente tutti i boss tedeschi siano in prima linea nel difendere Vladimir Putin e la sua decisione di annettere la Crimea. E per non offendere il padrone statunitense questo sostegno non apparirà mai sui giornali tedeschi che all’unisono hanno condannato il malvagio Vladimir ed espresso il loro sostegno ai manifestanti Euro-Majdan a Kiev, che entreranno nella storia per aver attuato la rivoluzione più idiota regalando al nemico che volevano umiliare, la Russia, una regione dalle dimensioni del Belgio. Ci sono state delle eccezioni, tuttavia, nell’allineamento unanime della stampa tedesca dietro il presidente Obama. Questo è il quotidiano “Handelsblatt“, espressione della confindustria tedesca. Nel suo editoriale del 13 marzo, l’editore in persona, Gabor Steingart, denuncia gli occidentali per il confronto fatto da Hillary Clinton tra Vladimir Putin e Hitler. Va oltre, restituendo al mittente le accuse di espansionismo mosse dall’occidente contro Putin. Risponde l’ex-vice di McCain nelle presidenziali del 2008 degli Stati Uniti, Sara Palin, che ha trovato Obama troppo morbido sul caso ucraino e ha suggerito la necessità di un duro per bloccare un altro duro; Steingart si beffa completamente di ciò che chiama la politica chiacchierona dei “pitbull” occidentali. Ma in questa fase, c’è ancora qualcosa che intriga: perché diavolo la confindustria tedesca sostiene Vladimir Putin, al punto da prendere in giro i propri politici? Questi capi tedeschi hanno presentato alla cancelleria Merkel il risultato di un sondaggio che dice che il 69% del popolo tedesco è con Vladimir Putin e contro le sanzioni. Ciò ha spinto il vicecancelliere Gabriel a cercare di calmare il malcontento degli industriali tedeschi con promesse che contraddicono il comunicato finale di Bruxelles che conferma le sanzioni contro i funzionari russi, in questi termini: “La Germania farà di tutto per evitare nuove sanzioni contro la Russia“.
Il motivo di questo attendismo è più facile di quanto si possa immaginare: il buon senso. I tedeschi hanno rinunciato all’energia nucleare. Hanno bisogno di produrre energia termica, soprattutto dall’energia fossile in cui il gas fa la parte del leone. Oggi il prezzo del gas che la Russia applica per la Germania non è il risultato di un negoziato, l’equilibrio di potere è completamente a favore della Russia perché non vi è partita, la Germania non ha alcuna alternativa credibile al gas russo, e i russi lo sanno. Quindi, indipendentemente dal prezzo che i russi imporrebbero, i tedeschi dovrebbero pagare senza batter ciglio. Ma la Russia non ne abusa. Sostenendo la competitività tedesca la Russia mantiene il prezzo del gas in modo corretto, sufficiente a che queste aziende possano soddisfare sempre più clienti e quindi aver sempre più bisogno del gas russo. Ecco perché la quasi unanimità degli industriali tedeschi nell’indignazione verso la cancelliera Merkel che supporta la causa dell’opposizione ucraina sostenendo apertamente i manifestanti anti-russi. Questo è anche il motivo per cui gli industriali tedeschi, noti per la loro discrezione, hanno gettato le loro riserve. Ad esempio, il 12 marzo 2014 Jürgen Fitschen, presidente della federazione delle banche private BdB, co-direttore della Deutsche Bank, ha fatto dichiarazioni ufficiali mendicando dalla cancelliera Angela Merkel di smetterla d’innervosire la Russia, perché dice “non si sa mai cosa può succedere nella testa di un Putin arrabbiato“. E che la Germania non può permettersi il lusso di solleticarlo per scoprirlo. In altre parole, prega i politici tedeschi di non aderire all’unanimità europea contro il presidente Putin, e di fare tutto “per evitare assolutamente di far rivivere la Guerra Fredda”. Quando ho provato a chiedere ad alcuni degli industriali tedeschi del loro sostegno alla Russia, più o meno ho avuto l’essenza del loro ragionamento assai pragmatico: la Germania versa ogni anno alla Russia 40 miliardi di euro per acquistare soprattutto gas. E la Germania non ha risolto il problema del deficit commerciale per bilanciare i conti tra i due Paesi. Ciò che dicono è facile da capire anche per i bambini all’asilo: la Germania paga 40 miliardi di euro alla Russia. E’ responsabilità degli industriali tedeschi recuperare questi soldi con tutti i mezzi, perché un deficit commerciale con un Paese significa essere sempre più poveri rispetto a quel Paese. E ogni anno i risultati sono incoraggianti, la Germania recupera dalla Russia circa l’8% annuo del suo debito. E una crisi con la Russia rovinerebbe tutto il lavoro degli industriali tedeschi per ridurre lo squilibrio tedesco nei confronti della Russia, dove sono presenti 6000 aziende tedesche.
Si comprende dunque perché il 12 marzo di quest’anno, il presidente della Federazione degli esportatori tedeschi, BDA, ha convocato una riunione di emergenza a Berlino seguita da una conferenza stampa per dire, forte e chiaro, che gli industriali tedeschi sono con la Russia. Ha continuato suggerendo al governo di prendere tempo. Ecco cosa ha detto in una conferenza stampa: “l’essenziale obiettivo principale da raggiungere nella crisi con la Russia è guadagnare tempo e non lanciare immediatamente i missili delle sanzioni“. Per coloro che non capiscono, dice che si deve fingere di condannare la Russia ufficialmente, ma in sordina continuare gli affari, dopo tutto queste aziende hanno investito 20 miliardi di euro in Russia.
I miliardi della Crimea
Si osservino i volti dei capi dell’Ucraina alle riunioni con i capi occidentali. Notate qualcosa di strano? Osservate ancora con cura. Ancora non vedete niente di strano? Beh, ci sono persone che hanno appena preso il potere con un golpe nella rivoluzione popolare, dovrebbero essere molto felici. Beh no, hanno una faccia da funerale. Sono in lutto. Guardate Obama quando riceve il nuovo primo ministro ucraino alla Casa Bianca. La si confronti con la conferenza stampa in Olanda del mese prima. Sono in lutto, sì anche Obama è in lutto. Pensate che il lutto sia per la Crimea? Bingo, indovinato. Ma ciò che non sapete è che non si tratta solo della Crimea. E perché sono in lutto? Per capirlo, indaghiamo con un po’ di brainstorming e dalle nostre informazioni su alcune situazioni reali. Quando a Kiev vi è stato tale sorta di passaggio di poteri da un governo legittimamente eletto dal popolo dell’Ucraina a estremisti di destra sostenuti da Stati Uniti ed Unione europea, in quel preciso momento il gigante russo del gas Gazprom accelerava la costruzione del gasdotto South Stream che dovrebbe bypassare l’Ucraina a sud rifornendo Paesi come l’Italia o l’Austria del gas russo, aggiudicando l’appalto per la costruzione della prima delle 4 sezioni del gasdotto alla società italiana Saipem, per un importo di 2 miliardi di euro. Stessa cosa con due altre aziende, la tedesca Wintershall già partner del progetto al 15% e la francese EDF che possiede sempre il 15% del progetto, sei giorni prima dell’occupazione della Crimea da parte delle cosiddette SDF russe. Ma questa informazione non dice nulla. Per comprenderne la portata, scopriamo dalle notizie pubblicate il giorno stesso dell’occupazione della Crimea da parte delle truppe russe, su un giornale russo specializzato in questioni energetiche del marzo 2014, il mensile “Ekspert” che titola: “Con la Crimea, la Russia risparmia 20 miliardi di dollari sul gasdotto South Stream“. Per comprendere il significato di questa informazione, dobbiamo ricordare che la Russia ha deciso di costruire due gasdotti, uno a Nord attraverso il Mar Baltico, portando il gas in Germania, Paesi Bassi, Belgio e Francia bypassando l’Ucraina, evitando la crisi del 2007 e i ricatti che Kiev potrebbe imporre sulle forniture di gas russo all’Unione europea. Quindi il secondo gasdotto denominato South Stream che passa per Mar Nero, Turchia e Grecia, rifornendo Italia, Grecia, ecc., sempre bypassando il territorio ucraino. Solo che quando il progetto fu tracciato, si basava su una Crimea ucraina e quindi l’evitava. Occupando la Crimea, ha ridotto la lunghezza della pipeline e quindi il lavoro per completarlo. Risparmio totale: 20 miliardi di dollari. Finora, e non dico sempre, Obama e i nuovi dirigenti a Kiev sono in lutto per la perdita della Crimea. Ciò semplicemente perché la Crimea era l’unica possibilità per l’Ucraina d’indipendenza energetica dalla Russia da quando furono scoperti, su un’area di 1400 kmq al largo della Crimea orientale, i giacimenti di gas e petrolio più importanti della regione. Secondo il quotidiano economico italiano “Il Sole 24 ore” del 15 marzo 2014, le scoperte fatte dagli occidentali, tra cui ENI, Shell e Exxon, sono fenomenali. Il quotidiano italiano spiega che l’ENI dovrebbe controllare il 50% dell’operazione e la società pubblica ucraina Chornomornaftogaz, come spesso accade in Africa, solo il 10%.
Il progetto South Stream sarebbe costato ai russi 46 miliardi dollari. Recuperando la Crimea, il costo passa a 25 miliardi di dollari. E inoltre la Russia nega l’unica possibilità dell’Ucraina di produrre petrolio e gas. La questione ora è come l’Ucraina senza la Crimea potrà pagare i propri debiti con l’occidente. La Russia potrebbe anche condonarglieli ma in ogni caso i giacimenti di gas e petrolio dalla Crimea consoleranno i russi. Ecco perché le sanzioni pseudo-economiche contro la Russia non fanno né freddo né caldo al Presidente Putin e al Primo ministro Medvedev, cosa che quest’ultimo ha detto in una dichiarazione del 22 aprile. Tornando al gasdotto South Stream e alla Crimea. La Russia ha già steso una mano agli europei, offrendo alle società Saipem, Wintershall ed EDF un buon prezzo. La velocità della proposta dimostra che è una manovra per dividere gli europei, e che funziona: da allora, da quando si parla di sanzioni economiche dell’Unione Europea contro la Russia, non c’è unanimità su una dura presa di posizione contro la Russia. E la statunitense Exxon e l’olandese Shell? Anch’esse si sono rivoltate contro i loro rispettivi governi pur di evitare il confronto con i russi per le sanzioni. Saranno escluse dalle operazioni in Crimea su petrolio e gas? Il beneficio finanziario della Crimea è troppo grande per la Russia per farsi emozionare dalle sanzioni occidentali ed inoltre penalizzerà gli stessi investitori in terra russa. La Russia attraverso Gazprom ha diviso le briciole del progetto South Stream tra diversi Paesi, come Austria, Bulgaria, Croazia, Grecia… Paesi che in sordina soffrono l’ira della Commissione Europea, che si giustifica così: “Nella sua forma attuale, il gasdotto South Stream non opererà sul territorio dell’Unione europea”. Per la Commissione ci sono tre ragioni per non andare avanti: “nessuna separazione tra produzione e trasmissione, monopolio dei trasporti e opacità della struttura tariffaria“.
Conclusione parziale
Le eventuali sanzioni dell’occidente contro la Russia sono una spada a doppio taglio che farà più danni all’occidente che alla Russia, Continente-Stato di 17 milioni kmq che può tranquillamente vivere in completa autarchia isolandosi dal mondo senza soffrirne indebitamente. Meglio, viviamo nel ventunesimo, piuttosto che nel ventesimo secolo. Le sanzioni economiche saranno solo simboliche perché i beni rifiutati a un Paese vengono rapidamente sostituito da altri. E su questo punto i cinesi non si fanno pregare sostituendo i Paesi che applicano sanzioni. L’abbiamo visto in Iran, s’è visto anche in Corea democratica dove, nonostante le sanzioni occidentali, non manca nulla. S’è visto anche in Zimbabwe, dove quasi ci si dimentica che c’è un embargo economico europeo contro questo Paese, perché lì i voli giornalieri da Harare per Londra sono stati sostituiti dai voli giornalieri per Pechino. Seguendo la strategia della Cina in occidente, la Russia mette le mani su tutti i gioielli dell’economia occidentale, perché ha i soldi, un sacco di soldi. La Russia ha una chiara strategia per controllare il mercato azionario e comprare tutte le aziende che operano in Russia su aree strategiche. Così, British Petroleum fu acquistata dai russi per 55 miliardi di dollari, vale a dire 27500 miliardi di franchi CFA. L’azienda dei trasporti francese GEFCO è ora di proprietà al 100% di una società delle ferrovie russe. In Italia, Pirelli è inghiottita dai miliardi russi. In un caso o nell’altro i russi non sono africani. Sanno quali sono i loro interessi e sanno come difenderli. Qualsiasi sanzione contro di loro riduce due volte in ginocchio coloro che le impongono.
Quali lezioni per l’Africa?
Quando il 2 maggio 2014 49 ucraini chiamati dagli occidentali “filo-russi” e dai russi “sostenitori del federalismo ucraino” sono stati bruciati vivi in un edificio del sindacato a Odessa, nel sud dell’Ucraina, dai “filo-occidentali” o “partigiani dell’unione”, le reazioni più di ogni altro hanno chiarito che l’Ucraina gioca ancora una parte nella Guerra Fredda tra gli Stati Uniti d’America e la Russia, per interposti attori. Gli statunitensi sanno di essere stati ancora una volta intrappolati dai russi nella famosa conferenza di Ginevra del 17 aprile 2014. Gli statunitensi credevano di avere i russi in pugno facendoli sedere per la prima volta su un tavolo con coloro che l’amministrazione Putin ha definito “estremisti che hanno preso il potere a Kiev illegalmente“. Gli statunitensi scoprirono, solo dopo la riunione, che in fondo hanno dovuto convalidare l’annessione della Crimea alla Russia, dato che tutto sarà discusso a Ginevra, ma senza alcuna traccia della Crimea, formalizzando di fatto l’accettazione degli Stati Uniti dell’annessione della Crimea alla Russia. E’ questa consapevolezza che frustra Washington mettendo sotto pressione la sua gente al potere a Kiev per sferrare l’attacco armato contro i separatisti in Ucraina orientale. In fondo fu lo stesso Obama che chiese e ottenne la risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nel marzo 2011, per proteggere gli abitanti di Bengasi in Libia perché, disse, “Gheddafi spara al proprio popolo”. Forse il presidente degli Stati Uniti Obama riesce a spiegarci la differenza tra il popolo di Bengasi in Libia, che riceve il suo sostegno, e le popolazioni di Slavjansk, Odessa, Kostantinovka, Marjupol, Kramatorsk, ecc., uccise e bruciate dai militari del proprio Paese inviati dai golpisti di Kiev agli ordini di Washington. Forse Obama è l’unico a spiegare la differenza tra le dichiarazioni del capo dei servizi antiterrorismo ucraino, Vassilij Krutov, in una conferenza stampa a Kiev il 3 maggio 2014: “L’Ucraina è ora in una situazione di guerra, perché ciò che accade nella regione di Donetsk e nelle regioni orientali non è un evento passeggero, ma una guerra“.
Le affermazioni della Guida libica Gheddafi, nel febbraio 2011, dicevano: “Ciò che succede a Bengasi non è una rivolta del popolo scontento, ma terroristi stranieri di al-Qaida che ci hanno dichiarato guerra. E a Bengasi c’è la guerra“. Su qualunque cosa Obama decide a geometria variabile i buoni e definisce gli altri, i cattivi da combattere, secondo gli interessi del momento degli Stati Uniti. Ma temo che questa volta il presidente degli Stati Uniti non sia nemmeno in grado di scoprire perché sostiene il caos in Ucraina o, peggio, sia incapace di dire come i morti nella parte orientale e meridionale dell’Ucraina siano utili agli interessi degli Stati Uniti. O tutti questi morti servono solo a flettere i muscoli contro il nemico, la Russia? Oggi la Repubblica del Sud Sudan creata da Obama con il fuoco e il sangue, con il solito aiuto della razzista Corte penale internazionale che aveva decretato che i malvagi si trovavano a Khartoum, il cui peggiore difetto è avere accordi strategici con la Cina, escludendo le società statunitensi dall’operare nel suo sottosuolo. L’ambasciata degli Stati Uniti nella capitale del Sud Sudan aprì il giorno dell’indipendenza, al fine di far godere al Sud Sudan i miracoli forniti dalla democrazia. Obama non ha nemmeno lasciato un giorno di tregua a questi nuovi capi nel decidere con quali Paesi avere relazioni diplomatiche, così come hanno avuto l’indipendenza con il caos che gli statunitensi erano riusciti a creare in Sudan con l’aiuto dei loto illustri attori di Hollywood, che dalle loro sontuose ville in California scorgevano il genocidio in Darfur. E quando hanno diviso il Sudan in due parti, il miracolo s’è avverato: il genocidio in Darfur è improvvisamente scomparso. La staffetta è passata al Sud Sudan sotto il controllo di Washington. E se la Russia minacciasse sanzioni economiche e militari agli Stati Uniti, se la pace non tornasse rapidamente in Sud Sudan?
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
 

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