Da StoriaNetwork Numero 90- Aprile 2004
IL LIBRO DEL MESE - Settembre 1943: fucilazione in massa dei soldati
della divisione Acqui che non si arresero ai nazi. Un episodio oscuro
NUOVE VERITÀ SU CEFALONIA? CHI
FU IL RESPONSABILE DELL'ECCIDIO?
di ALESSANDRO FRIGERIO
A più di sessant'anni di distanza la strage della divisione Acqui nell'isola ionica di Cefalonia pesa come un macigno sulla memoria storica del nostro paese. Per decenni, lo sterminio dei nostri soldati è stato rubricato come la prima tra le stragi compiute dai soldati tedeschi nei confronti degli italiani. Ma di fatto Cefalonia non è mai entrata a pieno titolo nella memoria storica del nostro paese. La si è trascurata per opportunità politica, quando la guerra fredda rendeva necessario un blocco comune tra Italia e Germania contro il pericolo comunista.
La si è dimenticata, e volutamente se ne sono omessi gli aspetti penali, quando la rinascita dell'esercito della nuova repubblica federale tedesca rendeva diplomaticamente opportuno mettere a tacere i ricordi della seconda guerra mondiale. La si è ignorata nelle celebrazioni resistenziali perché la maggior parte degli uomini della divisione Acqui si oppose ai tedeschi nel nome del Re, di Badoglio, della Patria e dell'onore militare, tutta merce senza valore nella Repubblica nata sulle ceneri del fascismo.
Dopo una serie di velenosi processi in Italia nel corso degli anni Cinquanta, dove i
pochi reduci si scambiarono accuse reciproche di tradimento, ancora divisi tra chi riteneva opportuno arrendersi al nemico e chi invece scelse fin da subito di imbracciare le armi, dopo l'archiviazione di un procedimento giudiziario in Germania sul finire degli anni Sessanta, è da ascrivere ai presidenti Pertini e Ciampi, con le rispettive visite a Cefalonia nel 1980 e nel 2001, la restituzione del ricordo di quel massacro alla storia del paese.
Da allora, numerosi volumi di memorie e ricostruzioni ad opera di studiosi e giornalisti hanno vagliato meticolosamente la manciata di giorni intercorsi tra l'8 settembre 1943 e l'annientamento della Acqui, conclusosi le fucilazioni di massa dei prigionieri il giorno 24 settembre. Talvolta privilegiando il resoconto cronachistico, talaltra toccando i tasti della retorica patriottica. Decisamente in controtendenza è invece il volume che di seguito andiamo a raccontare, opera di Paolo Paoletti, profondo conoscitore dei crimini di guerra tedeschi e sagace indagatore di archivi italiani e tedeschi. In controtendenza perché è un pesante atto d'accusa nei confronti dei vertici militari della divisione, in particolare nei confronti del generale Antonio Gandin, fucilato con i suoi uomini e medaglia d'oro al valor militare nel 1948.
Il tema è scottante oggi come lo era sessant'anni fa. Perché in un paese povero di eroi la denuncia del comportamento di una medaglia al valor militare suscita sempre un certo imbarazzo. Imbarazzo che invece non conosce l'autore, il quale in trecentocinquanta pagina imbastisce (dando sfoggio in numerosi passaggi di un linguaggio invero più adeguato al pamphlet che al saggio storico) una durissima requisitoria contro un solo uomo, il generale Gandin, appunto.
Ma veniamo ai fatti. Il presidio militare italiano nell'isola di Cefalonia contava circa dodicimila uomini contro i duemila soldati della Wehrmacht. Un rapporto di forze, quindi, di 6 a 1. La notizia dell'armistizio con gli alleati, e l'ordine di resistere ad ogni atto ostile proveniente da qualsiasi direzione, venne diffusa nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943. Il generale Gandin iniziò le trattative per la resa ai tedeschi la mattina del giorno seguente. Come molti soldati italiani era rimasto turbato dall'improvviso capovolgimento di fronte. A un cappellano militare disse: "Dovremmo improvvisamente rivolgere le armi contro delle truppe che, fino a ieri, si consideravano affratellate con le nostre nella medesima lotta e nei medesimi intenti? Sarebbe un'azione morale la nostra? Un gesto cavalleresco?".
Buon soldato nella guerra di Libia e durante la prima guerra mondiale, decorato in più occasioni, con lo scoppio della seconda guerra mondiale Gandin aveva coltivato ottimi rapporti
La Casetta Rossa: qui venne fucilato il generale Gandin
con i comandanti tedeschi. Ne parlava la lingua e da loro, sul fronte russo, aveva ottenuto anche una decorazione, la croce di ferro di prima classe. Ma ora, di fronte al ribaltamento delle alleanze, sul militare prese il sopravvento l'uomo d'onore e di conseguenza il dubbio su quale posizione tenere di fronte al precipitare degli eventi.
Secondo Paoletti l'unica linea guida del generale, fino a quando la situazione non precipitò con lo scatenarsi dell'attacco tedesco, sarà quella dell'accordo di resa con il nuovo nemico. E ciò nonostante l'ordine del Comando Supremo in Italia avesse dato disposizioni abbastanza precise: "Tutte le truppe di qualsiasi arma dovranno reagire immediatamente et energicamente et senza speciale ordine at ogni violenza armata germanica et della popolazione in modo da evitare di essere disarmati e sopraffatti! Non deve però esser presa iniziativa di atti ostili contro germanici". Tant'è che i comandanti di altre divisioni italiane dislocate nei Balcani reagirono all'armistizio senza aprire alcuna trattativa, semplicemente opponendosi agli attacchi tedeschi.
Fu così che a Cefalonia si assistette a cinque giorni di una estenuante trattativa intavolata da Gandin per ottenere una soluzione pacifica, ovvero una resa con l'onore delle armi. In pratica, l'intento era quello di cedere il presidio dell'isola alla Wehrmacht in cambio della disponibilità tedesca ad organizzare il rimpatrio degli uomini della Acqui, con armi e salmerie al seguito. Con il senno di poi, sembra un'ipotesi quantomeno stravagante. I tedeschi erano quasi privi di naviglio e il trasporto di una divisione avrebbe comportato un notevole dispendio di tempo e di energie organizzative. E tutto ciò proprio in uno dei momenti cruciali del conflitto.
Ma c'è di più. Se anche i tedeschi avessero acconsentito, dove avrebbero scaricato i nostri uomini? Nell'Italia liberata? Oppure nella parte della penisola sotto controllo tedesco? L'autore non manca di sottolineare con una punta di malcelato sarcasmo tutte queste incongruenze: "Gandin sopravvalutò le proprie capacità diplomatiche nella trattativa per arrivare a un possibile compromesso, che lui riteneva onorevole per le due parti, e che, nella sua incredibile ingenuità, avrebbe dovuto portarlo ad essere l'unico generale italiano ad essere accompagnato in patria dal nemico".
In tutta la vicenda Gandin commise numerosi errori. La mattina del 9 settembre ordinò alle truppe di ritirarsi dal nodo strategico di Kardakata, dal quale si controllava praticamente tutta l'isola. Da Kardakata si poteva tenere imbottigliato il nemico e impedirgli di raggiungere il centro principale dell'isola, Argostoli. Ma la scelta, chiarì il generale, era dettata da esigenze diplomatiche, non da necessità schiettamente militari.
L'intento era quello di indurre i tedeschi alla trattativa con un gesto che dimostrasse la nostra buona volontà e la totale assenza di intenti bellicosi. Il risultato fu pressoché nullo sotto il profilo dei negoziati e disastroso sotto l'aspetto squisitamente militare. In primo luogo perché i tedeschi, da parte loro, fin dalla mattina del 9 settembre, quando cioè Gandin cercò di dare il via alla prime trattative, non scartarono mai l'opzione militare. Secondariamente perché la cessione di Kardakata si sarebbe rivelata fondamentale sotto il profilo tattico durante la battaglia che sarebbe seguita nei giorni successivi.
Alcuni autori hanno fatto presente che la tattica dilatoria di Gandin doveva servire a tenere a bada i tedeschi con mezze promesse, in attesa dell'arrivo di ordini più chiari dal comando supremo o nell'attesa di significativi rinforzi dalla madrepatria o da parte alleata.
Per Paoletti, invece, il generale aveva scelto fin dall'inizio di non combattere contro gli ex alleati. E ciò, continua, potrebbe spiegare anche il suo voler giocare su tre tavoli diversi: quello della trattativa con i tedeschi, quello del dialogo non sempre chiaro con il Comando Supremo e, infine, quello con gli ufficiali e la truppa della Acqui.
La situazione prese a precipitare la mattina del 13 settembre. Una nostra batteria aprì il fuoco contro due motozattere tedesche che cercavano di entrare in porto per portare rinforzi. Una delle due affondò, l'altra alzò bandiera bianca. Morirono cinque soldati tedeschi. L'azione difensiva fu decisa sulla base di una direttiva dello stesso Gandin, il quale, il giorno precedente, aveva ordinato di "reprimere col fuoco qualsiasi ulteriore tentativo tedesco di alterare lo 'status quo' sull'isola durante le trattative".
Ciò nonostante i colloqui si trascinarono ancora. E ancora una volta nonostante non fosse giunta alcuna autorizzazione in tal senso da parte del comando supremo in Italia. I soldati della divisione Acqui, chiedeva Gandin al colonnello tedesco Hans Barge, dovevano poter tenere le proprie posizioni e lasciarle solo nel momento in cui avessero ottenuto dai tedeschi le necessarie assicurazioni sulle modalità d'imbarco.
Solo allora i soldati avrebbero consegnato le artiglierie, conservando però le armi leggere e quelle individuali. Ma la doccia fredda per il generale avvenne la notte tra il 13 e il
Il vallone S. Barbara dove i nazi uccisero 40 ufficiali della Acqui
14 settembre. Di fronte al tergiversare di Barge, che tuttavia offrì una parvenza di accordo per la cessione delle armi, Gandin scelse di rivolgersi direttamente alla truppa indicendo una sorta di referendum.
Le opzioni erano tre: combattere al fianco dei tedeschi, combattere contro di loro, arrendersi. Secondo Paoletti, più che un atto rivoluzionario di democrazia diretta all'interno di un esercito, il referendum fu "l'atto di un generale che non voleva rassegnarsi all'idea che i suoi soldati non capissero che l'onore imponeva di combattere a fianco dei camerati tedeschi". L'esito fu nettamente a favore della seconda opzione: combattere l'ex alleato.
Le negoziazioni intavolate con il colonnello Barge proseguirono ancora per tutta la giornata del 14, cioè anche dopo l'esito del referendum indetto tra gli uomini della Acqui. La dilazione faceva comodo anche ai tedeschi, che erano in netta inferiorità numerica e attendevano rinforzi. A questo punto però Gandin non poteva più esimersi dal far presente a Barge l'indisponibilità ad accettare la resa. Ma lo fece in modo subdolo, addossando la colpa ai suoi uomini, tramite una lettera che l'autore ha scovato nell'archivio militare tedesco e alla quale fino ad ora non si era prestata molta attenzione.
E' una missiva inviata da Gandin a Barge il 14 settembre e vi si legge quanto segue: "La divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di concentrarsi nella zona di Sami (il primo passo dell'accordo di cessione delle armi, n.d.a.), poiché essa teme, nonostante tutte le promesse tedesche, di essere disarmata o di essere lasciata sull'isola come preda per i Greci o ancora peggio di essere portata non in Italia ma sul continente greco per combattere contro i ribelli. Perciò gli accordi di ieri con lei non sono stati accettati dalla Divisione"
"La Divisione vuole rimanere nelle sue posizioni fino a quando non ottiene assicurazione, con garanzie che escludano ogni ambiguità [...] che essa possa mantenere le sue armi e le sue munizioni e che solo al momento dell'imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La divisione assicurerebbe, sul suo onore e con garanzie, che non impiegherebbe le sue armi contro i tedeschi. Se ciò non accadrà, la divisione preferirà combattere piuttosto di subire l'onta della cessione delle armi ed io, sia pur con dolore, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, rimanendo al vertice della mia divisione". L'ambiguità stava tutta nella prima frase: "La divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine".
In pratica un generale italiano diceva a un colonnello tedesco - capo cioè di un esercito amico divenuto nemico nel giro di poche ore - che la sua truppa non rispondeva più al comando, che si era ammutinata. Scrive Paoletti con una punta di acredine: "Quella frase iniziale distruggeva l'eroica figura di Gandin e lo riduceva a uomo meschino, che forse vuole vendicarsi sui suoi uomini per l'infausto risultato del referendum. Un generale che prende le distanze dalla sua divisione proprio di fronte ai suoi amici tedeschi, ha capito di avere perso e cerca ormai di salvarsi la pelle oppure parla con la bocca di Mr. Hyde".
E quelle parole avrebbero avuto un notevole peso negli sviluppi successivi. Soprattutto perché nell'economia della trattativa si inserì anche Adolf Hitler in persona. Venuto a sapere della ribellione della divisione Acqui al suo generale, Hitler dispose che "a Cefalonia a causa del comportamento infame e proditorio tenuto dalla guarnigione italiana non deve essere fatto alcun prigioniero". Fu quella lettera di Gandin a suscitare nella mente di Hitler l'ordine di negare ai soldati italiani lo status di prigionieri di guerra? Fu quella lettera a far sì che ai nostri soldati venisse riservato un Sonderbehandlung, un trattamento speciale, cioè la fucilazione di massa a battaglia conclusa e a resa avvenuta?
Secondo Paoletti i soldati di Cefalonia non vennero massacrati perché si erano opposti con le armi ai tedeschi ma perché si erano ribellati agli ufficiali italiani. E Hitler, in uno dei suoi frequenti deliri punitivi, volle che fosse impartita una lezione esemplare. Quel che è
Il generale Antonio Gandin
certo è che quando la mattina del 15 settembre iniziò la battaglia, in seguito all'attacco aereo tedesco su Argostoli, le incertezze del comando italiano svanirono. Furono commessi altri errori strategici e tattici dopo quello del 9 settembre a Kardakata: attacchi portati solo alla luce del sole e mai con il favore delle tenebre, operazioni contro postazioni tedesche poco significative, scarsa propensione a capitalizzare con rapide avanzate i pochi successi ottenuti sul campo.
Ma la scelta di campo contro i tedeschi fu inequivocabile. E Gandin si schierò alla testa dei suoi uomini senza più incertezze. I combattimenti durarono fino al 22 di settembre, sotto il bombardamento degli Stukas e in totale assenza di una copertura aerea italiana o alleata. Firmata la resa, la divisione Acqui fu oggetto del "trattamento speciale" voluto da Hitler. Il massacro degli italiani - soldati semplici, sottufficiali e ufficiali, falciati contro i muri a secco da plotoni dai esecuzione oppure scaraventati in pozzi o burroni con un colpo alla nuca - durò fino al 24 settembre. Furono circa 5000 i prigionieri passati per le armi.
Gandin venne fucilato con altri ufficiali la mattina del 24 settembre nel cortile della Casetta Rossa, un edificio nei pressi di Punta San Teodoro.
Sarebbe però ingiusto, oltre che storicamente scorretto, scaricare sul generale Gandin le responsabilità dell'eccidio. Il suo comando non brillò per decisionismo (Paoletti parla invece apertamente di tradimento) ma nel suo atteggiamento di fronte ai tedeschi si può ravvisare la sintesi suprema dell'8 settembre, il dramma del repentino capovolgimento di un'alleanza, cioè una delle peggiori situazioni in cui possa incorrere un militare di carriera. L'8 settembre fu poi vissuto in modo assai più lacerante da tutti quei comandanti, come Gandin, che avevano interpretato sotto il segno della massima stima, prima ancora che della lealtà militare, l'alleanza con i tedeschi. E va quindi a onore di Gandin il rifiuto opposto alle reiterate offerte di Barge per fuggire a Berlino e ricostituire un nuovo esercito italiano al fianco della Wehrmacht.
Comunque sia, nel disastro della divisione Acqui andarono ad intrecciarsi numerose altre concause che in combinazione tra loro, e a più livelli, portarono al drammatico esito finale. Gli alleati vennero meno al dettato del cosiddetto documento di Quebec dell'agosto 1943, integrato nell'armistizio corto, dove si faceva cenno a un piano per trasportare le unità italiane nei Balcani verso il territorio nazionale.
Di fatto, non fu predisposto alcun serio tentativo di soccorso. E il nostro Comando Supremo non fece pressioni sugli alleati per il rispetto degli impegni assunti. Del resto, gli alleati diffidavano ancora di noi e non vollero mandare la nostra flotta, che si era consegnata a Malta, a difesa di Cefalonia e della vicina Corfù. A causa dell'ostilità dell'ammiragliato inglese, anche una missione di soccorso organizzata con due cacciatorpediniere dal contrammiraglio Giovanni Galati dovette fare dietrofront, proprio quando ormai era in vista dell'isola.
Abbandonati a sé stessi, per nulla supportati dagli stessi partigiani greci, che si defilarono dalla battaglia, gli uomini del presidio di Cefalonia si immolarono in un teatro di guerra a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane. Quel che resta del loro sacrificio è il frutto di episodi tragici, grotteschi, vili, talvolta miserevoli, ma anche di atti di sincero eroismo e di disperato orgoglio. Tutti assieme legati nello sciagurato spettacolo della rotta del nostro esercito dopo l'8 settembre.
BIBLIOGRAFIA
Paolo Paoletti, I traditi di Cefalonia. La vicenda della Divisione Acqui 1943-1944, Fratelli Frilli Editori, 2004, pp. 351, euro 19,50
(Le immagini sono tratte dal volume I traditi di Cefalonia e dal sito
www.cefalonia.it)