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Siamo in autunno ? SI'

E d'autunno cosa succede ? PIOVE

«Quello appena passato è stato un mese che ha ricordato i primi anni Novanta
— spiega Mattia Gussoni de Ilmeteo.it —. Questo sarebbe poi il “clima vero”.


Ma ecco i giornalai che infondono LA PAURA. IL TERRORE. STATE CHIUSI IN CASA.

La fortissima perturbazione atlantica, l’uragano Kirk, che arriverà in Europa giovedì
potrebbe causare grossi danni in tutto il continente.

I primi Paesi a doversi preparare saranno Portogallo e Spagna,
ma la traiettoria della tempesta dovrebbe estendersi fino alla Francia e alla Germania.


Ma noi abbiamo LE ALPI.

Ed infatti, ecco la verità.

Continuando lungo la massa continentale dovrebbe però perdere intensità
e scontrarsi con i picchi delle Alpi che terranno relativamente al riparo il Nord Italia ed il resto della penisola.

Ma subito allerta arancione e scuole chiuse.

Per cosa ?

Per dell'acqua che cade dal cielo. ACQUA.

Il problema vero è che sanno che i danni verranno causati dai fiumi, dai torrenti,
dalle rogge, che non hanno mai pulito.
 
La corsa europea verso l'elettrificazione è tutt'altro che una strada in discesa.

Anzi, sta diventando una vera e propria impasse.

A denunciarlo sono i concessionari di Stellantis,
che vivono ogni giorno le contraddizioni di un mercato costretto a rincorrere obiettivi irraggiungibili.

Bruxelles vede nell'auto elettrica un futuro inevitabile, eppure la realtà è ben diversa.

Da una parte ci sono regolamentazioni sempre più stringenti sulle emissioni,
dall’altra consumatori che non intendono piegarsi a un mercato che non li rappresenta
e che non soddisfa le loro esigenze di prezzo, autonomia e praticità.

Il problema è che le istituzioni, chiuse nelle loro stanze a Bruxelles,
sembrano vivere in un’altra dimensione.


Dal 2020, i produttori di auto in Europa devono mantenere le loro emissioni di Co2 sotto soglie sempre più rigide,
con il rischio di sanzioni colossali.

Finora sono riusciti a stare nei limiti, ma solo grazie a una quota minima di veicoli elettrici, meno del 10% delle vendite.

Dal 2024, però, la situazione si complica:
i target si fanno ancora più stringenti e per evitare multe pesantissime,
la percentuale di auto elettriche dovrà più che raddoppiare.


Il guaio è che il mercato non è assolutamente pronto per una simile svolta.


Le concessionarie Stellantis sono già con i piazzali pieni di auto elettriche
che nessuno vuole comprare.


Questo significa bloccare capitali, affrontare costi elevati e rischiare di mettere in ginocchio l’intero settore.

In Italia, stiamo parlando di migliaia di posti di lavoro
e mai prima d'ora si era visto un tale livello di dissenso da parte dei concessionari.
 
In una lettera riportata da Il Sole24Ore, le associazioni concessionarie scrivono:

"Dal nostro punto di vista, è chiaro che il settore non è ancora pronto a raggiungere il volume necessario di vendite di veicoli elettrici.
Questa crescente divergenza tra obiettivi normativi, prontezza del mercato e aspettative del produttore è motivo di preoccupazione.
Non è stata quindi una sorpresa quando la maggior parte dei produttori europei, tramite Acea,
ha chiesto un rinvio di questi obiettivi, una proposta che sosteniamo pienamente.



L’Acea, l’associazione dei costruttori automobilistici guidata da Luca De Meo (ceo di Renault),
aveva lanciato un appello alla Commissione Europea
per rinviare l’entrata in vigore delle nuove normative sulle emissioni dal 2025 al 2027,
un modo per concedere al mercato il tempo necessario per adattarsi a obiettivi così ambiziosi,
considerando le difficoltà attuali nel settore.

Tuttavia, Stellantis aveva preso una posizione diametralmente opposta
sostenendo che le normative debbano restare inalterate.

Tavares si dice fiducioso nella capacità dell'azienda
di rispettare le scadenze previste
,
sottolineando la necessità di mantenere alta la pressione
per incentivare l'adozione dei veicoli elettrici.


Nel frattempo, Stellantis continua a rimanere in silenzio
alla denuncia dei concessionari,
una mossa che potrebbe rivelarsi insostenibile a lungo termine.
 
Ma vediamo chi è.

Arrivare primo. Non per la squadra, ma per se stesso. L'ossessione inizia da bambino.

Nato a Lisbona nel 1958, Carlos Tavares, è appassionato di corse automobilistiche.

Appena può va al circuito portoghese dell’Estoril, dove fa il commissario volontario di pista.

Dopo il diploma il papà gli regala un’Alfasud Sprint,
auto creata nel 1976 che a differenza della “Milano” ha dovuto aspettare fino al 1983 per togliere il riferimento al Mezzogiorno
e cambiare nome in Alfa Romeo Sprint, con cui disputa la sua prima gara nel 1980.

La passione resta, tanto che in seguito ha dato vita ad una sua scuderia, Clementeam Racing,
in onore della prima di tre figlie, Clementine, e non perde occasione per rimettersi al volante.

Ma le vittorie non arrivano.

E così Tavares cambia strada.

Quando oggi lo accusano di favorire i francesi nelle strategie di Stellantis
il manager rivendica con orgoglio le sue origini portoghesi.

In realtà il papà lavorava per una compagnia d’Oltralpe,
la madre insegnava la lingua di Moliere,
lui inizia a frequentare il liceo francese di Lisbona
e finisce il corso a Tolosa al liceo Pierre de Fermat.

Poi si sposta a Parigi per entrare alla Ecole Centrale d’ingegneria.

Nell’81, a 23 anni, è già stipendiato dalla Renault.

Qui inizia a correre più veloce che nei circuiti.

Inizia come ingegnere di pista sui progetti legati ai modelli Clio e Megane.

Poi, dopo gli accordi societari tra le due case automobilistiche, si sposta in Nissan.
 
Nel 2009 diventa responsabile per i mercati del Nord e Sud America.

Nel 2011 torna in Renault come Chief Operating Officer.

Gradino dopo gradino arriva al fianco di Carlos Ghosn.

Il carismatico manager (poi finito nei guai per le accuse di frode in Giappone) lo porta in palmo di mano.

Ma lui ad un certo punto si accorge che il nome è lo stesso, ma lo stipendio no.

Così, nel 2013, dichiara: «In un certo momento, si ha l’energia e l’appetito per diventare numero uno.
La mia esperienza sarebbe preziosa per qualsiasi produttore».


Due settimane dopo Ghosn gli dà il benservito.

Tavares non si scompone. Né si dispera.

Poco dopo approda alla Peugeot, in difficoltà finanziarie.

In quattro anni, dal 2014 al 2018, taglia tutto quello che è possibile tagliare: costi, produzione, salari, modelli, personale.

Chiama i cinesi di Donfeng, che entrano nel capitale con una quota consistente, e ritrova i profitti.

Poi soffia la Opel a Sergio Marchionne.

Per la controllata di GM, in perdita da anni acquistata per pochi spicci la cura è sempre la stessa:
dieta dimagrante che sfiora l'anoressia.
 
Nel 2019 viene inserito nella The Ceo 100,
la classifica annuale dei 100 migliori chief executive officer del mondo
secondo la rivista di settore Harvard Business Review.

Ma le vittorie ancora no.

Almeno in termini di stipendio, a cui Tavares sembra ormai tenere più dei tempi di gara quando scende in pista nei rally.

Il capo di Psa si deve accontentare di 7,6 milioni di euro l'anno.

Troppo poco per chi pensa di essere una sorta di divinità delle automobili, in grado di guidarle, costruirle, ripararle e venderle.

Troppo poco per chi vive di regole ferree, controlla l’alimentazione, si tiene alla larga dai vizi, calcolai tempi sonno/veglia.

A differenza di quel “panzone” di Marchionne, sempre avvolto dal suo fumo di sigarette,
che nel 2017 già portava a casa circa 10 milioni di euro.

Ed ecco allora il progetto: conquistare l’impero costruito dal suo rivale.

Tavares usa i suoi contatti con l’Eliseo per far saltare il progetto Fca-Renault
e al suo posto propone una bella fusione tra la casa italo-americana e Psa.

Un affarone per Parigi.

Nonostante il valore azionario dei due gruppi fosse equivalente (poco sopra i 20 miliardi di euro nel 2019),
la Fca fatturava 114 miliardi di euro con un utile di 4,5 miliardi,
la Psa rispettivamente 76 e 3,3 miliardi.


Non solo, la Fiat Chrysler ha portato una dote strategica superiore perché ha aperto le porte dell’America,
soprattutto Stati Uniti e Brasile, mercati in espansione,
mentre in Europa si produce per sostituire le vecchie auto.

Il resto è storia recente.
 
A inizio 2021 nasce Stellantis.

E Tavares inizia a portare a casa i frutti del suo lavoro:

il primo stipendio, tutto compreso, è di oltre 19 milioni.

Un livello talmente alto che persino il suo amico Emmanuel Macron lo definisce «scioccante ed eccessivo».

Per avere un'idea Herbert Diess, ex numero uno di Volkswagen, secondo gruppo più grande del mondo,
ha intascato nello stesso anno circa 10 milioni.

Corsa finita, obiettivo raggiunto? Macché.

Il manager franco-portoghese si mette a testa bassa a fare quello che gli riesce meglio: meno costi, più profitti.

Delocalizza,
riduce la produzione,
manda a casa gli operai,
chiede sussidi pubblici.
 
In Italia, uno dei tre pilastri del gruppo insieme a Francia e Stati Uniti,
si rischia la de-industrializzazione dell'automotive,
la de-sertificazione delle fabbriche,
la macelleria sociale,
la beffa del marchio Fiat diffuso nel mondo
grazie ad auto realizzate in Algeria, Marocco e Polonia.


Ma per l'azienda le cose funzionano.

I ricavi nel 2023 sono saliti del 6% a 189,5 miliardi,
gli utili netti dell'11% a 18,6 miliardi e
per i soci è arrivata una pioggia di dividendi 4,7 miliardi di euro,
annunciati un paio di giorni fa
proprio mentre a Mirafiori
(che nei primi tre mesi dell'anno ha registrato un crollo della produzione del 50%)
scattava l’ennesimo periodo di cassa integrazione.

Numeri che hanno gonfiato ulteriormente
la paga «scioccante ed eccessiva» di Tavares.
 
Tra stipendio base, bonus, premi e incentivi
al ragazzino che sognava di primeggiare nelle gare automobilistiche
sono arrivati 36,5 milioni all’anno.

Cifra che, con circa 3 milioni al mese,
mille volte di più dello stipendio medio di un suo operaio,
lo consacra finalmente come il manager dell'auto più pagato del globo.

Il tema è finito anche in assemblea,
dove il 30% dei soci si è detto contrario a tanta generosità.


L’azienda non ha battuto ciglio:
la remunerazione deve essere paragonata alle grandi multinazionali degli Usa,
dove il gruppo ottiene la maggior parte dei profitti, come Boeing.


Sarà un caso, ma proprio ieri il Financial Times (vedi l’articolo in pagina)
ci spiegava perché lo stipendio dell’ad Dave Calhoun,
che tra l’altro prende “solo” 33 milioni, è duro da digerire.
 

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