Lo scorso luglio la relatrice speciale per conto Onu ha stilato un report
per la 59ª Sessione del Consiglio per i diritti umani riunito a Ginevra dal 16 giugno fino al 9 luglio, dal titolo:
“Dall’economia dell’Occupazione all’economia del Genocidio”.
Ma già in precedenza la signora Albanese si è espressa sulla medesima linea di pensiero.
Il report consegnato alla 55ª sessione del Consiglio dei diritti umani (26 febbraio-5 aprile 2024),
con all’ordine del giorno la Situazione dei diritti umani in Palestina e in altri territori arabi occupati si intitolava
“Anatomia di un genocidio”.
Insomma, un chiodo fisso per la Albanese la storia del genocidio a Gaza.
Non che i singoli report contenessero elementi di novità significativi dal punto di vista della individuazione del quadro probatorio,
atteso che l’analisi è stata sviluppata a distanza dai luoghi esaminati per stessa ammissione della relatrice.
Le carte rimestano i soliti concetti a cui la Albanese si è aggrappata per sostenere la sua scioccante testi genocidaria.
Dal punto di vista filosofico, per la Albanese il genocidio si palesa come un elemento intrinseco del colonialismo.
Citando Raphael Lemkin, giurista polacco padre putativo del termine “genocidio”, tale deve intendersi
“un insieme di diversi atti di persecuzione o distruzione”, che vanno dall’eliminazione fisica
alla “disintegrazione forzata” delle istituzioni politiche e sociali, della cultura,
della lingua, dei sentimenti nazionali e della religione di un popolo.
E questo che avrebbero fatto gli israeliani ai danni dei palestinesi?
Ma come si può sostenere una castroneria del genere senza essere in totale malafede?
Quindi, per l’Albanese i palestinesi come i Nativi americani negli Stati Uniti d’America,
i primi popoli in Australia o gli Herero in Namibia.
Scrive l’Albanese:
“L’acquisizione di terre e risorse indigene è l’obiettivo del colonialismo,
la sola esistenza dei Popoli Indigeni rappresenta una minaccia esistenziale per la società dei coloni”.