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A Mestre, su un muro, è apparsa una scritta con la firma delle Brigate Rosse: “La Meloni come Moro”.

A parte tutto, emerge la singolarità del confronto.

Aldo Moro, con una prosa sempre confusa, fatta ad arte, per non farsi capire dagli elettori democristiani,
voleva tramandare il potere della “balena bianca” attraverso un accordo di potere con il Partito Comunista italiano:
il “compromesso storico” per chiudere la “Repubblica conciliare”.

Saremmo diventati una “democrazia popolare”, come quelle sotto il controllo dell’allora Unione Sovietica,
senza possibilità di alternativa, ma non uscendo dall’ombrello dell’Alleanza Atlantica, per non bagnarsi.


Quel disegno, oggi, dopo il crollo della “Cortina di ferro” in Europa,

continua in Italia con il Partito Democratico,

comunisti imperterriti fusi con i democristiani di sinistra,

con in tasca il santino di Aldo Moro.


Giorgia Meloni
, al contrario, si erge contro tutto questo.

Leader dei Conservatori europei, vuole un Italia con un’alternativa liberale di Destra proprio a quel disegno.

Paradossalmente, per questo, è nel mirino dei resti delle Brigate Rosse.


L’eliminazione di Aldo Moro, il troppo evidente sostenitore del compromesso storico, dette la volata a Giulio Andreotti.

Questi fondò un Governo di “larghe intese”, come allora si disse, con l’appoggio del Partito Comunista di Enrico Berlinguer,
il quale all’epoca fu durissimo a parole contro le Brigate Rosse ma, guarda il caso, fu anche colui il quale più se ne giovò.

Ebbe un Esecutivo diretto da un democristiano un tempo di destra, rassicurante per i nordamericani
ma, di fatto, completamente succube dei comunisti.

Sotto l’ombrello di una cosiddetta “egemonia culturale” comunista.


Adesso Giorgia Meloni, tra l’altro, ha chiuso quell’ombrello sulla testa della Sinistra, svelando quell’egemonia come di mero, e brutale, potere.

Se Giorgia Meloni si afferma, rompe il giocattolo.

Ecco di nuovo di scena la Brigate Rosse.

Il fine marchese Berlinguer non c’è più.


C’è Enrico Letta.

E permane sullo sfondo Romano Prodi,

quello il quale aveva sentito il nome Gradoli in una seduta spiritica, e fece andare la polizia in gita sulle sponde di un lago.



.
 
Sto ascoltando La conferenza stampa di Draghi, che tra le varie, fa i complimenti al ministro Franco e sostiene che il suo governo sia stato l’unico governo sotto il quale il debito non è aumentato.

Qualcuno più bravo di me può spiegarmi cosa significa questa affermazione nel concreto? Grazie.


Nuovo picco del debito pubblico a luglio, meno titoli di Stato italiani nei portafogli esteri - MilanoFinanza.it

mi pare sia nel solco precedente

1) non ti vaccini, ti ammali muori

2) volete la pace o il condizionatore?

.
 
Per chi se lo fosse dimenticato


ANTEFATTO:
Il 3 aprile 1978, nel corso di una seduta spiritica a cui partecipa il futuro presidente dell’Iri, Romano Prodi,
una “entità” [nella fattispecie, e come risulterà dal verbale, gli spiriti di Don Sturzo e La Pira, n.d.r]
avrebbe indicato “Gradoli” come luogo in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro.

Sulla base della segnalazione dall’aldilà, il 6 aprile viene organizzata una perlustrazione a Gradoli, un paesino in provincia di Viterbo.

Al ministero dell’Interno, che aveva in precedenza ricevuto la segnalazione su via Gradoli, nessuno mette in collegamento le due cose.

E’ la moglie di Moro, Eleonora, a chiedere se non potrebbe trattarsi di una via di Roma.

Cossiga in persona, secondo la testimonianza resa in commissione da Agnese Moro, risponde di no.

In realtà via Gradoli esiste, e sta sulle pagine gialle.

In seguito alla seduta il professor Prodi si reca a Roma – solo due giorni dopo, il 4 aprile -,
per trasmettere l’indicazione ad Umberto Cavina, capo ufficio stampa dell’on. Benigno Zaccagnini.


E’ la seconda volta che viene fuori il nome “Gradoli”.

La prima fu una manciata di giorni prima.

Il 18 marzo, alle 9 e 30 del mattino, gli agenti del commissariato Flaminio Nuovo
si presentano al terzo piano della palazzina al numero 96 di via Gradoli, una stradina residenziale sulla via Cassia.

Una “soffiata” molto precisa, forse proveniente da ambienti vicini ai servizi segreti, ha segnalato che lì, all’interno 11, c’è un covo delle Br.

Gli agenti bussano alla fragile porta di legno, ma nessuna risponde.

Apre invece l’inquilina dell’interno 9, Lucia Mokbel, e racconta di aver sentito provenire dall’appartamento sospetto dei ticchettii simili a segnali Morse.

Secondo le disposizioni vigenti i poliziotti dovrebbero a quel punto sfondare la porta, o quantomeno piantonare il palazzo.

Invece vanno via.

Al processo Moro presenteranno un rapporto di servizio grossolanamente falso, costruito a posteriori,
stando al quale i vicini avrebbero fornito “rassicurazioni” sull’onestà dell’inquilino dell’interno 11, il ragionier Borghi, alias Mario Moretti.

Saranno sbugiardati pubblicamente, ma mai puniti.


Il 18 aprile la porta dietro cui forse era stato nascosto, fino a qualche giorno prima, lo stesso Aldo Moro, viene finalmente sfondata.

Non da polizia e carabinieri però, ma da pompieri; che ci arrivano a causa di un allagamento.

Anche se i brigatisti lo hanno sempre negato, si tratta di una messinscena organizzata perché il covo venga scoperto:
il telefono della doccia è sorretto da una scopa e puntato contro una fessura nel muro aperta con uno scalpello
in modo da far filtrare meglio l’acqua lungo i muri fino all’appartamento dei vicini, che infatti daranno l’allarme.

L’allagamento si verifica lo stesso giorno in cui un falso comunicato delle Br spedisce migliaia di carabinieri e poliziotti
a cercare il cadavere di Moro nel lago gelato della Duchessa. Si tratta di due episodi di difficile lettura.

Alcuni brigatisti del gruppo dirigente dichiareranno, molti anni dopo, che la scoperta del covo e il falso comunicato
li spinsero ad affrettare i tempi dell’operazione Moro verso la decisione di sopprimere l’ostaggio;
proprio come voleva Moretti, rappresentato della cosiddetta “ala dura” delle Br.


Il 10 giugno 1981 Romano Prodi viene chiamato a testimoniare davanti alla Commissione Moro
per rispondere degli avvenimenti che sarebbero occorsi durante la seduta spiritica.

Il caso viene riaperto nel 1998 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi,
al fine di chiarire le motivazioni che avrebbero portato su un’altra pista le ricerche della prigione di Moro
ed escludere che l’utilizzo del nome “Gradoli” fosse stato un modo per informare le stesse Brigate Rosse
dell’avvicinamento delle forze di polizia all’omonima via,
sita nei pressi della via Cassia di Roma.

Il professor Prodi non si rende disponibile per essere ascoltato dalla Commissione parlamentare,
contrariamente a Mario Baldassarri e Alberto Clò
(ministro dell’Industria nel governo Dini e proprietario della casa di campagna nella quale si svolsero i fatti),
entrambi presenti alla seduta spiritica.


Il 5 aprile 2004 Romano Prodi viene ascoltato come testimone dalla
“Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana”.

Secondo il presidente della commissione, Paolo Guzzanti, Prodi

“non ha avuto il coraggio di pronunciare le parole seduta spiritica, piattino o tazzina”.

Nel corso della seduta, l’On. Fragalà ha ricordato all’ex presidente dell’Iri un articolo del settimanale “Avvenimenti“,
secondo il quale Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, agente del Kgb con nome in codice Dario,
aveva ospitato Valerio Morucci e Adriana Faranda, brigatisti contrari al sequestro di Moro.

Un’amica di Conforto, Luciana Bozzi, aveva affittato la casa di via Gradoli al commando delle Br.

Secondo questa tesi, non commentata da Prodi, fu il Kgb a far sapere del covo di via Gradoli
e la messinscena della seduta spiritica fu organizzata per coprire la vera fonte.


Una seconda tesi, supportata tra l’altro dal senatore Francesco Cossiga
– che riguardo al caso Moro ha sempre rilasciato dichiarazioni quantomeno ambigue -,
identifica l’informatore in “qualcuno appartenente all’area dell’eversione tra Autonomia Operaia e Potere Operaio. Dicono fosse un professore universitario”.


Va da sé che Paolo Guzzanti e Francesco Cossiga siano politicamente più inclini a fare passare la tesi dell’omicidio
deciso e pilotato dai servizi segreti dell’Est, in contrapposizione all’altra ipotesi prevalente,
ovvero che la segnalazione della parola “Gradoli” alle forze dell’ordine rappresentasse un doppio avvertimento a Mario Moretti,
figura di terrorista controversa e più volte descritta come infiltrato vicino ai servizi segreti italiani.


Il primo: che il covo di via Gradoli era ormai “bruciato”.

Il secondo: che la questione doveva essere chiusa il più presto possibile con l’assassinio di Aldo Moro
ed il tramonto del progetto che voleva un “Governo della non sfiducia”, inviso agli Stati Uniti in quanto sorretto, tra gli altri, dal Partito Comunista.
 
Ahahahahahahah e mi taccio. Bei figuri che abbiamo.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha scelto il sostituto di Giuliano Amato dopo il suo discusso addio.

E chi è?

Tanto per rendersi bene conto di qual è lo stato delle cose basti sapere che si tratti – guarda caso –

del consigliere giuridico di Mario Draghi a Palazzo Chigi.



È infatti lui a essere stato nominato nuovo giudice della Corte costituzionale.

“è caduta su Marco D’Alberti la scelta di Sergio Mattarella, per sostituire Giuliano Amato alla Consulta.
L’ex premier cessa dalle sue funzioni il prossimo 18 settembre.
Il decreto di nomina è stato controfirmato dallo stesso Draghi, che si è avvalso della consulenza di D’Alberti fino a oggi”.


Il neo giudice costituzionale

“presterà giuramento martedì 20 settembre al Quirinale.
Oltre a essere consigliere giuridico del premier,
D’Alberti è anche componente del Consiglio Superiore della Banca d’Italia. Romano, 74 anni”.


È solo un caso che la nomina sia caduta su un fedelissimo di Draghi?

O è un altro indizio di quel che sarà dopo il 25 settembre?

Ossia che si cambia tutto purché nulla cambi?
 
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