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Nonostante le percentuali di dipendenza dal Cremlino continuino a scendere,
ciò non basta per porre l’intero continente europeo al riparo dalla prossima stagione invernale.

Putin, infatti, rappresenta ancora un quarto degli import di gas Ue e, proprio per questo,
le istituzioni comunitarie si stanno già preparando allo scenario peggiore.

A partire dal primo agosto, fino alla primavera 2023,

gli Stati europei dovranno ridurre del 15 per cento la quantità di gas utilizzata
.

Per di più, nell’ipotesi estrema in cui Mosca dovesse tagliare definitivamente le forniture di Gazprom,
ecco che l’Ue potrebbe disporre anche nuove misure aggiuntive non obbligatorie.

Nonostante gli allarmismi delle istituzioni comunitarie,
pare che Gazprom non sembri ancora intenzionata a sospendere totalmente il proprio export.

I lavori di manutenzione del Nord Stream, giustificazione usata dal Cremlino per spiegare la riduzione di gas all’Ue,
dovrebbe cessare da domani, tant’è che, durante la visita a Teheran,
Putin ha specificato come Gazprom abbia “sempre adempiuto e adempirà sempre a tutti i suoi obblighi”.


La presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, tira dritto:
Dobbiamo prepararci ad un’interruzione integrale del gas russo.
È uno scenario probabile, che andrebbe ad avere un impatto su tutta l’Unione”.

E prosegue:
“Gazprom non ha intenzione di riequilibrare il mercato. Al contrario, ha tenuto a un livello molto basso gli stoccaggi,
riducendo la fornitura per creare tensioni sul mercato e aumentare i prezzi. Sappiamo che la situazione è estremamente complicata”.


Da qui nasce l’obbligo di riduzione del 15 per cento del metano utilizzato dagli Stati,
che andrebbe a colpire per primi gli edifici pubblici, le luminarie delle città ed anche le dimore private.


L’Italia, come già detto, dipende dalla Russia per il 25 per cento delle sue importazioni totali;
la Germania, invece, per il 35;
fino ad arrivare alle cifre mastodontiche di Austria ed Ungheria, che si aggirano intorno all’80 per cento – e anche oltre per Budapest.

Con ciò cosa intendiamo dire?

Che la riduzione di una tale percentuale non potrà mai risolvere la crisi dell’Unione Europea.

Troppe sono le disparità tra i vari appartenenti alla comunità
e troppe sono ancora le percentuali di dipendenza, soprattutto per gli Stati dell’Est.

Anche nelle remota ipotesi, in cui tutti i governi riuscissero a raggiungere il parametro codificato,
ecco che la dipendenza dalla Russia sarebbe al di sopra del 50 per cento per una larga parte dei Paesi membri.


Il secondo problema concerne i metri cubi di gas che l’Ue riuscirebbe a risparmiare dal primo agosto,
cioè dalla data di inizio della politica di risparmio del gas utilizzato.

Oggi, la presidente della Commissione Europea ha parlato di una cifra pari a dieci miliardi di metri cubi,
solo per quanto riguarda le case private più fredde.

Peccato che il valore rappresenti un settimo dell’uso annuale di metano in Italia.

Com’è possibile ritenere che la cifra possa essere sufficiente per l’intero continente?

E come l’Ue riuscirà a diminuire la dipendenza dalle forniture russe, nel caso in cui i Paesi membri non riuscissero a ridurre le proprie percentuali?


Insomma, la situazione appare sempre più confusionaria, caotica,

senza la presenza di una visione di lungo periodo che certifichi l’esistenza di una strategia.


Siamo ufficialmente entrati nel paradosso, secondo cui le sanzioni fanno più male al sanzionatore che al sanzionato.
 
uhm

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Da una parte la protervia e l’arroganza di Mario Draghi i partiti se la meritano tutta.

Per l’incompetenza delle loro classi dirigenti, ma soprattutto per la loro ignavia,
la scelta di mantenere una comoda posizione che consente loro da un lato di partecipare al banchetto del potere,
dall’altro essendo al riparo dell’ombrello deresponsabilizzante di Sua Competenza, ovvero risparmiandosi l’onere dell’azione di governo.


Al netto della retorica e degli scontatissimi toni duri nei confronti dei partiti
(quasi più nei confronti della Lega che dei 5 Stelle), e della solita frase spudorata su cui torneremo,
stringi stringi Draghi sembra venuto a dire al Parlamento che le dimissioni della scorsa settimana
sono dovute ad un suo momento di sconforto, ma in realtà lui è pronto a proseguire.


A proseguire, va da sé, con i “pieni poteri” ricevuti al momento della sua investitura.



Non può sfuggire però al presidente del Consiglio un dato evocato da lui stesso questa mattina: non il semplice rischio, ma la certezza di una “fiducia di facciata“.

I gruppi parlamentari che con ogni probabilità oggi gli rinnoveranno la fiducia non potranno esimersi, in piena campagna elettorale,
dal rimarcare sui provvedimenti in esame la loro identità, con distinguo, strappi, tensioni.

Un premier che avesse la consapevolezza della natura politica e non tecnica delle sue scelte,
e dunque del suo governo, lo accetterebbe e considererebbe l’opera di mediazione tra le diverse spinte di una maggioranza molto eterogenea parte a tutti gli effetti del suo lavoro.

Non una perdita di tempo e un freno all’azione di governo, ma la composizione di istanze legittime in un governo di grande coalizione.


Non è che da domani, come per magia, la maggioranza funzionerà meglio di ieri.
Se ne è consapevole anche il premier bene, lo accetti, ma allora certe lezioncine sono del tutto fuori luogo.


Spetta innanzitutto a Draghi uscire dall’equivoco.

Invece, il premier sembra talmente avulso dalla democrazia rappresentativa
da ritenere che una mobilitazione di qualche giorno di qualche centinaia di persone
(militanti di Renzi e Calenda, una ristretta minoranza di sindaci, Confindustria e Competenty, televirologi e, dulcis in fundo, qualche senzatetto)
valga di più del voto espresso nel 2018 da milioni italiani che legittimano – forse un qualcosina di più –
le forze politiche presenti in Parlamento a portare avanti le loro istanze.


Come ha osservato Luigi Curini in questa intervista ad Atlantico Quotidiano:

“La politica e la sua competizione non si possono neutralizzare.
Non è possibile nascondere la politica sotto un tappeto,
pretendere che non esista e volersi affidare al grand commis di turno”.


Questa, testualmente, la frase spudorata di Draghi:


“La mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori

a favore della prosecuzione del governo è senza precedenti e impossibile da ignorare

(con un preoccupante filo di rabbia nel pronunciare la parola “ignorare”).



Scioccante la sola idea
che Draghi possa esserne davvero convinto,
che una personalità della sua levatura possa credere che questa “mobilitazione” esista davvero.


“Gli italiani me lo chiedono”, davvero, non si può sentire da un premier privo persino di qualsiasi esperienza politico-elettorale.

La sua unica legittimazione politica gli deriva dalla legittimazione dei partiti che lo sostengono,
anche se essi sembrano essersene dimenticati.

Quei partiti che con molta più fondatezza potrebbero rispondergli, a sostegno delle loro rivendicazioni, gli italiani ce lo chiedono”.


Gli italiani “chiedono” attraverso le elezioni.



Invocare la legittimazione delle piazze è la quintessenza del populismo, con venature di peronismo.



Un punto colto senza fatica da Giorgia Meloni
:

“Sono le autocrazie che rivendicano di rappresentare il popolo senza bisogno di far votare i cittadini,

non le democrazie occidentali. Fratelli d’Italia non intende assecondare questa pericolosa deriva”.




Un buffetto al premier è arrivato durante il dibattito in aula persino da Pierferdinando Casini:

“Lei è qui non solo perché glielo hanno chiesto gli italiani,
ma perché il Parlamento non le ha mancato la fiducia.
Attenzione a invocare gli italiani: vorrebbe dire andare al voto
“.


Certo, come anticipato, c’è l’ignavia di queste stesse forze politiche,
ma lascia sgomenti quella che una volta (o forse all’indirizzo di altri premier)
si sarebbe chiamata insensibilità istituzionale.

Nella richiesta ai partiti di non disturbare il manovratore, di procedere senza ostacoli,
nel suo rifiuto di perdere tempo a mediare tra le diverse istanze,
c’è il rigetto della democrazia parlamentare.


C’è, in poche parole, la pretesa dei “pieni poteri“.



La ricomposizione pareva cosa fatta, ma non saremmo così sorpresi se quella frase terribile
e un discorso molto sbilanciato a sinistra finissero per provocare “l’incidente“.


Il premier ha ricordato a Conte e ai parlamentari del Movimento che si preoccupa più lui di loro della “agenda sociale”,
come dimostrerebbero gli incontri con i sindacati, l’apertura sul salario minimo, la conferma del reddito di cittadinanza e i diversi bonus.

Mentre a destra, tranne un riferimento alla autonomia differenziata, solo bastonate.


Un discorso, nella sua attenta calibratura volta a recuperare i 5 Stelle

e a non concedere nulla alla Lega, che sembra scritto al Nazareno.



Pur avendo provocato la crisi, il Movimento 5 Stelle è considerato una componente da blandire e recuperare,
essendo chiaramente un asset del Partito democratico,
che si troverebbe in grande difficoltà a restare al governo senza di esso,

mentre la Lega un partito da detestare e provocare fino a determinarne, magari, l’uscita.

Questa la sensazione che si ricava dalle parole e soprattutto dalle azioni di Draghi.


Se non temessimo di sopravvalutare la strategia parlamentare del premier,

potremmo anche ipotizzare che il discorso abbia lo scopo di spaccare entrambi i gruppi,

sia i 5 Stelle a sinistra che la Lega a destra, in modo da proseguire solo con i fedelissimi delle due componenti.



Non c’è dubbio che dopo un discorso così a rompere, oggi stesso, dovrebbero essere Lega e Forza Italia, se avessero uno straccio di dignità.


Con un discorso così squilibrato nella Prima Repubblica un premier non sarebbe sopravvissuto alla giornata parlamentare di oggi.
 
Un piccolo caso all’italiana sta sconvolgendo lo strumento di convincimento dei draghiani più forte:

la famosa “Lista dei 1300 sindaci” che avrebbero firmato l’appello perché Draghi resti.


Premesso che comunque ci sono 6000 sindaci che non hanno votato,
secondo TPI c
i sarebbero anche dei casi di nomi che sono nella lista, ma in realtà non hanno firmato,
fra cui il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla.


Allora, cari lettori, dato che magari un cittadino di Orco Feglino (prov di Savona) o di Malfa, (prov di Messina)
non sa che il suo sindaco ha firmato per Draghi, e magari neanche il suo sindaco sa di essere nella lista,
vi chiediamo di trasformarvi in investigatori per la democrazia e domandare al vostro sindaco, se presente nell’elenco,
se veramente ha firmato la lettera a favore di Draghi.


L’elenco lo potete trovare dal sito ANSA, oppure anche dal nostro Drive, se fosse cancellata.

Guardate se il vostro sindaco ha firmato e, se fosse presente, chiedetegli se ha veramente firmato.

Non avesse firmato chiedetegli di renderlo pubblico e, in questo caso, comunicatecelo tramite la pagina Contatti.


Magari, anzi quasi sicuramente, sono tutte firme vere, ma perché non fare un check?


La democrazia è anche questo..
 
Il sire sta rispondendo ed è piuttosto nervoso…pero almeno è circondato da grandi personalità politiche…soubrette, bibitari, gente ignara a sua insaputa, nobili…ecc…

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