Non è difficile, quando si è all’opposizione in un paese che mostra crescenti fragilità democratiche (per usare un eufemismo), giungere ad accusare le autorità di
mentire con e sulle statistiche. È quanto riporta oggi
Bloomberg riguardo alla
Turchia di
Recep Tayyip Erdogan e famigli(a). Oltre a ciò, credo serva anche fare qualche riflessione sulle antiche “certezze” di noi europei della Ue nei confronti di Ankara.
Sul piano economico, come scrivo ormai da anni, la Turchia sembra una sorta di Torre di Pisa: pende, pende e mai va giù. Un deficit ampio delle partite correnti, colmato con afflussi di denaro sempre più “caldo”, cioè da volatili flussi finanziari di breve termine e non da investimento diretto. La popolazione impegnata da tempo immemore a convertire la lira in dollari appena se ne presenti l’occasione.
A queste dinamiche “sudamericane” dovrebbe conseguire, secondo logica, una crisi valutaria ed un collasso economico, con conseguente implosione del sistema politico. Possibile e probabile ma ci sono ovviamente degli
step da compiere, ed il regime ha la possibilità di calciare la lattina più in là, sino in tribuna. Nel senso che si prende la banca centrale, la si mette sotto tutela e si tagliano aggressivamente i tassi, mentre contemporaneamente si ordina alle banche (non solo a quelle pubbliche) di premere il pedale dell’acceleratore del credito.
Il risultato finale è qualcosa che assomiglia notevolmente all’Italia degli anni Settanta: boom di importazioni, voragine di bilancia dei pagamenti, deflusso di riserve valutarie, inflazione, fuga dalla moneta. Prima che qualche prestigioso economista prestato alla politica italiana venga a dirvi “ma almeno si cresceva, signora mia”, tenete presente che sì, si cresceva ma a credito, dall’estero, in attesa del collasso finale con controlli sui capitali e
prestiti del FMI. Assai poco patriottico, non trovate?
Che fa, allora, Erdogan? Quello che si fa in questi casi: prende tempo, pur se a caro prezzo. Ad esempio, tuona contro gli alti tassi d’interesse ma permette ai suoi fidi banchieri centrali di dare una stretta monetaria per far respirare le riserve valutarie, e mette in pausa la crescita del credito. Poi la giostra riparte.
A questo schema di condotta non si deve tuttavia tralasciare la leva strategica di politica estera. In che senso? Nel senso che la Turchia è una media potenza regionale, collocata geograficamente in una posizione di cerniera tra mondi, ed è l’erede dell’Impero Ottomano. Nel senso che mantiene e rivendica il diritto di ingerirsi su vari teatri, oltre ad essere una sorta di “genitore” per le popolazioni turcomanne dell’Asia centrale.
L’ultimo episodio in ordine di tempo è essersi schierata con l’Azerbaijan contro l’Armenia, nel conflitto pluridecennale sulla rivendicazione territoriale del Nagorno Karabakh tra le due ex repubbliche sovietiche, che periodicamente si riaccende. Ma possiamo enumerare anche l’attivismo turco in
Siria e
Libia, ambiti dove il Sultano si trova a convivere con
Vladimir Putin; sinora i due hanno trovato un equilibrio di ovvia convenienza, ritengo più per intelligenza strategica di Putin che di Erdogan.
E quindi, l’autodichiarato nume tutelare degli islamici della regione vasta che va dal Mediterraneo all’Asia Centrale, cerca di crearsi margini di manovra sempre più ampi, anche a colpi di spallate e ricatti all’Europa, costretta a dare prova di continenza, vista la bomba umana di profughi in territorio turco, per i quali la Ue paga miliardi di “mantenimento”. Poiché ogni regola ha la sua eccezione, Erdogan pare scordare il suo ruolo tutelare
quando dialoga con la Cina, chissà
perché.
L’attivismo sulla sponda Sud del Mediterraneo ha motivazioni economiche: la possibilità di portarsi a casa gas e petrolio da perforazioni in mare. Per un paese che ha una bolletta energetica fortemente passiva (proprio come l’Italia degli anni Settanta, a proposito), sarebbe una svolta, almeno in teoria. Serve tempo e pazienza, ovviamente, ma Erdogan ha il dovere di provarci.
Quando e come potrà cadere, il Sultano? Se dovesse diventare troppo “problematico”, l’Occidente proverà a usare la leva economica, per mandare definitivamente a secco le riserve valutarie del paese e mettere Erdogan di fronte ad una pesante crisi economica che ridarebbe fiato alla “primavera dei sindaci” che -forse- ha iniziato a germogliare.
Ma al momento questa non pare essere una priorità, anche considerando le ricadute dell’eventuale regime change. Per dare l’idea, ricordiamo
il messaggio forte e chiaro mandato a Erdogan da
Donald Trump, lo scorso anno, e che ha ricondotto il Sultano a più miti consigli, almeno nelle sue rivendicazioni verso Washington, ad esempio sulla estradizione del suo arcinemico
Fethullah Gülen.
La sintesi è presto fatta: l’economia turca è in condizioni di estrema fragilità ma la rilevanza geostrategica del paese permetterà ad Erdogan di restare a galla. Almeno, sin quando le sue manovre non oltrepasseranno alcune linee rosse. Tenendo a mente che questo attivismo di politica estera da parte di Erdogan rischia di produrre un
overstretch economico che potrebbe essergli fatale. Questa è forse la linea rossa più sottile, tra tutte.
Nel frattempo, un elemento di riflessione ed una domanda per gli entusiasti dell’euro-allargamento: davvero credete che l’ingresso in Ue della Turchia avrebbe irenicamente impedito tutto questo?
Phastidio.net