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Per essere seri, non e' che se si ha il gruzzolo, 1-2-3 si compra. Bisogna iniziare a muovere i contatti per capire quali sono le aree piu' interessanti, vedere se ci sono affari in vista, contattare le banche americane per il mutuo, scegliere l'avvocato e il commercialista in loco, etc Se poi le cifre da spendere sono importanti, sarebbe opportuno ritagliarsi qualche giorno per fare dei sopralluoghi.
Diciamo questo: la parte piu' difficile e' identificare le aree prospetticamente piu' interessanti ed eventuali affari all'interno di queste aree.
Per cui, potremmo gia' capire adesso quanti siamo, quanto vogliamo metterci e iniziare a studiare il business case.
Io mi ero fatto la mia idea nel 2009 (che l'area di Miami Downtown fosse l'area con maggior possibilita' di rivalutazione), ma probabilmente dovremmo riprendere in mano l'intero fascicolo e ripartire da zero.
Ciao,
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Occupandomi di immobiliare "turistico", da sempre, per questioni familiari, sono conscio che sia una fatica immane (la fregatura è più facile prenderla che darla) .
E' per questo che, alla proposta di Rott, ho dato parere favorevole; ma ritenevo e ritengo che faccia la fine di Assoinvestitori : "vai avanti tu che a me scappa da ridere"
Provo a elaborare sul tema, sapendo che in materia di start-up un eccesso di realismo non guasta mai. Elenco alcuni presupposti e butto giù alcuni concetti in modo alquanto grossolano:
*investire nell’immobiliare con finalità di lucro non può avvenire senza uno studio approfondito del mercato: in quale regione (non è che si possa scegliere un po’ qui e un po’ là: l’America è grande…); quale tipologia di immobile; a quali prezzi e con quale obiettivo di realizzo; etc. etc. La definizione della “mission”, almeno quella, sarebbe facile: puntare ad un volgarissimo profitto principalmente attraverso la compravendita di beni immobili. Può sembrare banale, ma è già un vantaggio rispetto al caso di Assoinvestitori, citato da Amorgos: là i fumi della nebbia non si sono mai dissipati neppure attorno alle finalità del progetto.
*parimenti approfondita deve essere la comprensione dei meccanismi amministrativi e legali che regolano le compravendite. Chiunque abbia acquistato/venduto degli immobili in Italia, con relative astrusità procedurali, capisce cosa intendo, anche se non fatico a pensare che negli USA le cose siano più semplici che da noi.
*occorre uno studio puntuale delle modalità di costituzione e di gestione, con relativa governance, della società titolare degli immobili. Zorba, che di tutti noi è certamente il più addentro tali questioni, ha già fatto un’ipotesi a me totalmente nuova proprio perché conosce già, immagino, le peculiarità yankee. Ecco: la materia andrebbe attentamente studiata e capita prima di prendere una qualsiasi decisione al riguardo.
*i soli 3 punti precedenti richiedono una mole notevole di lavoro preparatorio. Per muovere i primi passi occorre che almeno 3-4 persone siano disponibili, su base volontaria, a raccogliere in modo convincente le risposte a svariate domande. Se queste saranno incoraggianti, sarà già necessario effettuare un investimento (il più contenuto possibile, ma dovrà essere messo in conto, sapendo che il rischio di non-riuscita sarà ancora elevato) per una missione esplorativa oltre oceano. Chi non fosse disponibile a contribuire (è il classico caso di spesa da conteggiarsi in bilancio come goodwill…) non dovrebbe neppure prendere in considerazione di coinvolgersi.
*visto il tempo e i costi che vanno realisticamente considerati (mi riferisco sia ai costi di avviamento che a quelli di ordinaria gestione) non mi sembra sensato ipotizzare che il primo livello di operatività si possa realizzare se il capitale investito (non necessariamente uguale al capitale dei soci, come ha fatto notare Zorba) non arriva rapidamente almeno intorno ai 10 mln di $. Proviamo a pensare, anche molto spannometricamente, a costi amministrativi, fiscali, di comunicazione e viaggi, al tempo di qualcuno che segue il tutto (non necessariamente full-time, ma neppure nei ritagli di tempo) e vediamo subito che c’è bisogno di raggiungere una massa critica minima per sopportarli.
*la creazione del nucleo originale di partecipanti è forse il punto più critico. Riesco a pensare a questi due tipi di approcci:
a)si parte da un gruppetto di 8-10 persone, ognuna delle quali è disponibile a investire una somma non marginale. Costoro dovrebbero sobbarcarsi tutto l’onere iniziale di analizzare il progetto e dovrebbero considerare concluso il loro lavoro alla stesura del business plan. Il passo successivo consisterebbe nell’allargare la base dei soci, ai quali (visto che si troverebbero la pappa pronta…) sarebbe richiesto un contributo di ingresso. Anche lo statuto della costituenda società dovrebbe tener conto dello status dei “soci fondatori”.
Pregio principale di questa impostazione sarebbe la maggiore agilità decisionale; il principale svantaggio sarebbe il peso maggiore che ricadrebbe sul gruppo di fondatori.
b)si inizia subito da un gruppo più ampio e tale da coprire le esigenze minime di raccolta fondi che, seppur grossolanamente, si sono ipotizzate. Vantaggi e svantaggi sono simmetrici a quelli indicati al punto precedente.
In ogni caso il cammino sarebbe impervio, e non solo per via delle incognite di merito che il progetto frapporrebbe: non mancherebbero neppure delusioni e defaillances sul piano delle relazioni interpersonali tra i soci (promesse non mantenute, passi indietro, pretese “strane”…), visto che, nonostante la conoscenza reciproca tramite forum (ma in futuro non si vede perché il cerchio non potrebbe essere allargato), nessuno può scommettere che ci sarà il minimo affiatamento.
Tutto questo per percorrere il primo miglio. Quanto al punto di arrivo, potrebbe essere estremamente ambizioso oppure malinconico: tutto dipenderà da un insieme di fattori, non ultimo tra questi l’intelligenza e il talento dei soci e dei gestori.
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