Montepaschi, piano in due mosse in caso di intervento del Tesoro
Lo scudo del governo sul Montepaschi, se servisse, ci sarà. Ma quale forma e quale veste giuridica assumerà l’eventuale difesa dello Stato nei confronti della banca senese non è ancora chiaro: le discussioni sono ancora aperte all’interno del governo, del ministero dell’Economia e della Commissione Ue che deve autorizzare una qualche forma di intervento pubblico. Si tratta di una extrema ratio, ma necessaria per escludere conseguenze peggiori per Mps, in particolare per i depositanti. Ieri Renzi è stato esplicito: «I correntisti e i risparmiatori in Italia sono totalmente al sicuro. Questo è solo ciò che mi interessa».
La «soluzione di mercato» sarebbe quella preferita dall’esecutivo, anche perché eviterebbe tante discussioni con Bruxelles: potrebbe essere una banca che si fa carico di Mps — il soggetto più indicato, Ubi, ieri ha ribadito di non avere dossier aperti — oppure un nuovo Fondo Atlante (forse ribattezzato Giasone) che sottoscrive un eventuale aumento di capitale magari accanto al Tesoro come investitore privato (Via XX Settembre è già azionista di Mps al 4%). Ma sono ipotesi che rischiano di scontrarsi con lo scarso appetito degli investitori per Mps.
Il passaggio cruciale sarà la conclusione dello stress test del 29 luglio: è una prova di resistenza delle principali banche europee in condizioni severe dal punto di vista macroeconomico. Secondo le analisi delle banche d’affari, Mps non supererebbe lo scenario peggiore, quello «avverso». In particolare, secondo Morgan Stanley, Mps passerebbe da un 12% di ratio patrimoniale (cet 1) ad appena uno 0,3%, quando invece il minimo dello stress test di fine 2014 era del 5,5%. Si verificherebbe un ammanco patrimoniale da coprire, si dice fra 3-4 miliardi (la forchetta di Morgan Stanley è più ampia: 2-6 miliardi). Chi li metterà?
Se non ci sarà il mercato, il Tesoro potrebbe intervenire facendo valere l’articolo 32 della direttiva Ue sulle banche («Brrd») che prevede un aumento di capitale «precauzionale» pubblico limitato a coprire l’ammanco emerso. A complicare il quadro c’è che il risultato degli stress non sarà pubblico ma confluirà a novembre nell’indicazione da parte della Bce della soglia di capitale necessaria per ogni banca, il cosiddetto «Srep». Ma una volta che il Tesoro rompesse gli indugi, che cosa accadrebbe?
Mps ha un altro problema da risolvere, quello dei crediti deteriorati: sono 47 miliardi lordi, che si riducono a circa 24 netti. Bce vuole che diventino 14 circa entro il 2018, ovvero un drastico aglio di 10 miliardi. È qui che — secondo alcuni banchieri d’affari — potrebbe scattare la seconda fase dell’operazione.
Mps potrebbe creare una «bad bank» svalutando i propri crediti in sofferenza; questi verrebbero acquistati dal fondo Atlante 2 a prezzi di mercato; la «good bank» Montepaschi, ripulita delle sofferenze, verrebbe ricapitalizzata offrendola nuovamente sul mercato, tornando così privata. Sul mercato circolano diverse variabili di questo schema generale; in ogni caso però un intervento pubblico deve superare l’ostacolo del sacrificio (il «burden sharing») che la norma sugli aiuti di Stato pretende sia imposto agli obbligazionisti subordinati di Mps, che sono in buona parte retail, cioè risparmiatori, anche nel caso in cui per salvare la banca scatti l’eccezione al principio del «bail in», che anch’esso richiede un sacrificio per obbligazionisti e perfino depositanti. «Questa posizione della Commissione sul burden sharing aveva senso quando il “bail in” non c’era ancora, perché valeva come vincolo contro gli aiuti di Stato», spiega l’avvocato Giuseppe Scassellati, dello studio Cleary Gottlieb, «ma ora che la direttiva Ue sulle banche prevede espressamente l’eccezione a questo sacrificio, la posizione della Commissione non dovrebbe più valere».