Utopia o realtà ? La LIBERTA' di espressione va difesa ora, perchè domani sarà troppo tardi......e ce ne pentiremo.

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Il caso del professor Alessandro Orsini infiamma la polemica politica
e fa emergere il cortocircuito dell'informazione in Rai e non solo.

Il docente esperto di geopolitica è diventato uno delle voci più ascoltate e controverse
durante la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina,
e le sue tesi sul ruolo della Nato e dell'Europa nella genesi del conflitto
hanno avuto grossa eco sui media e sui social.

La notizia di un contratto per una collaborazione retribuita
con il programma di Rai3 Cartabianca, condotta da Bianca Berlinguer,
ha scatenato l'inferno tanto che Viale Mazzini ha stoppato tutto,
con la più classica delle pezze che si rivelano peggiore del buco.


"Non sono d’accordo con molte cose che dice Orsini,

ma mi spaventa una Nazione nella quale la tv di Stato

consente di sostenere unicamente le stesse tesi del governo.


Una democrazia prevede libertà di pensiero:

per esercitare il libero arbitrio serve il confronto tra tesi diverse"


"La direzione di Rai 3, d'intesa con l'amministratore delegato della Rai,
ha ritenuto opportuno non dar seguito al contratto originato su iniziativa del programma Cartabianca
che prevedeva un compenso per la presenza del professor Alessandro Orsini nella trasmissione",

aveva fatto sapere la rete del servizio pubblico dopo si era venuto a sapere che Orsini
avrebbe ricevuto un compenso di circa duemila euro a puntata, per un totale di sei appuntamenti.


Intanto il professore Orsini giovedì 24 marzo è stato ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita, su La7,
insieme tra gli altri a Selvaggia Lucarelli, Nathalie Tocci, Federico Fubini, Angela Mauro, Mario Calabresi e Alberto Negri.
 
Giampiero Mughini si schiera al fianco di Alessandro Orsini.

Il professore della Luiss è finito nell’occhio del ciclone per i suoi discorsi televisivi sul conflitto tra Ucraina e Russia,
con accuse di essere troppo legato a Vladimir Putin.

Mughini rivendica la possibilità di non essere appiattiti tutti sulle stesse posizioni
e respinge al mittente le polemiche i circa 2mila euro di compenso a puntata che l’esperto riceve da Cartabianca:


“Resto di stucco innanzi alla barbarie di chi sta lanciando grida di dolore

perché una trasmissione Rai ha offerto duemila euro a puntata a sei interventi del professore Orsini,

che qualcuno definisce ‘un pifferaio’ di Putin, ossia lo insulta selvaggiamente.


Mi intendo come pochi altri dello stare ‘in minoranza’ su un argomento diffuso,

e dunque sto interamente dalla parte del professor Orsini.


E non perché condivida al cento per cento i suoi argomenti,

ad esempio non sono così convinto ma Putin abbia ‘già vinto’”.


Detto questo, guai se lui e gli altri che ho citato non ci fossero.


Quanto saremmo più poveri di idee e di intelligenza”.



“Il professore Alessandro Orsini sull’argomento in questione ne sa dieci o quindici volte più della media di quelli che aprono bocca in televisione.


Questa è la bellezza del vivere in Italia,

un Paese dove la discussione e il confronto non comporta stanze chiuse, o confini invalicabili.

Bisogna cercare di mettere nel conto ragioni che a prima vista sfuggono ai più…”.
 
Gli ucraini hanno tenuto Kiev, cosa possono fare di più ?


La Russia ha preso la costa, cosa vuole di più ?


Gli Stati Uniti hanno schierato sull’attenti i Paesi della Nato,
e si portano a casa un favoloso contratto di vendita del gas: cosa possono pretendere di più ?”.
 
L’invasione russa dell’Ucraina sta già ridisegnando un diverso sistema di globalizzazione.

A breve termine ci aspettano sfide complesse
ma allo stesso tempo, a lungo termine, si stanno proiettando indefinibili enigmi.

Come potrà essere il nuovo ordine mondiale per l’Occidente
dopo la guerra in Ucraina che sta mescolando tutte le carte in gioco?

A oggi l’unica certezza è una vertiginosa incertezza.


In questa fase la realtà ci ha schiantato contro un non fenomeno sociologico, la guerra,
che da quasi 80 anni non schierava sulle rive opposte le maggiori potenze mondiali.

Nonostante che in geopolitica sia sempre necessaria una analisi dei fatti senza dogmi, questo non significa accettare l’inaccettabile.

Questa guerra, al di là delle varie opinioni e motivazioni, è crudele, sicuramente ingiusta, ed era certamente evitabile;

ma soprattutto cancella quei progressi morali che, dal crollo del “muro” che spartiva i due blocchi,
avevano permesso l’adozione di protocolli di equilibrio negoziale, applicati nella pratica delle relazioni internazionali.

Questo conflitto rileva una regressione globale della qualità e dell’Etica dei rapporti internazionali,
che ora hanno rimesso in gioco anche l’estrema soluzione.

Questa regressione, che coinvolge emotivamente per l’uso delle armi, per le vittime e per gli esodi,
degrada a tal punto la “morale” che riemergono dal fondo di una umanità in agonia
quei sentimenti guerrafondai, nazionalisti e xenofobi, caratteristici di una società morente.

Impulsi sepolti vivi, in una fossa dalla “copertura morbida”.


Dopo la fine della Seconda guerra mondiale le “divergenze internazionali”
sono state caratterizzate dalla preoccupazione dei ciclopi del Pianeta
– non solo come dimensione ma anche come “acuità visiva” –
di evitare qualsiasi confronto diretto;

canali di comunicazione e regole hanno disciplinato questo modus vivendi.


La maggior parte
dei trattati sul controllo degli armamenti, oggi, sono stati infranti, abbandonati e realmente caduti in disuso.

In tre settimane le strategie russe hanno ridelineato i profili della geopolitica.

L’Europa si sta riarmando, si stanno utilizzando e sperimentando nuove armi non “regolamentate”.

La macabra partita giocata da Putin con la Nato sta facendo precipitare la Russia
e la coalizione antagonista nell’incertezza, e nuove fratture emergono al di fuori del blocco occidentale.

Il presidente russo, autorizzando l’invasione e il bombardamento, prima nella regione del Donbass,
ha sorpreso la maggior parte degli osservatori, compreso il presidente cinese Xi Jinping.

Che sullo scacchiere geopolitico alcune “pedine” siano in movimento è ormai cosa certa.

Il ciclo dei tre decenni dalla caduta dell’Unione Sovietica (1991) e dalla fine della Guerra fredda è inesorabilmente terminato.

Ora si prospetta, probabilmente, un lungo periodo di ostilità con Mosca.


Il Venezuela è una di quelle pedine che già si stanno spostando in altri quadri dello scacchiere geopolitico;

infatti, l’8 marzo, due cittadini statunitensi, funzionari dell’industria petrolifera, sono stati rilasciati dalle carceri venezuelane.


Un episodio all’apparenza poco rilevante, ma che emerge a valle sia dello shock causato dall’invasione dell’Ucraina,
sia del riavvicinamento tra Caracas e Washington avvenuto i primi di marzo,
quando una delegazione statunitense si è incontrata con il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, nel palazzo Miraflores, sede presidenziale.

I colloqui sono stati giudicati da Maduro “rispettosi, cordiali e molto diplomatici”.

Ma come si colloca il Venezuela nello scacchiere geopolitico?

Ricordo che Donald Trump ha tentato, fallendo, di rovesciare il regime di Maduro,
che è notoriamente il principale alleato di Mosca in America Latina.

Va considerato che il Venezuela è anche un importante produttore di petrolio
e che tale prodotto veniva raffinato negli Stati Uniti prima che il Paese
fosse narcotizzato dall’antimperialismo espresso dall’ex presidente Hugo Chávez,
il quale ha trascinato l’economia nel baratro di una devastate crisi.

Adesso, con la guerra in Ucraina in atto e l’embargo sul petrolio russo decretato l’8 marzo, molte paratie ideologiche stanno franando.

Così, anche lo scacchiere del mercato petrolifero è da rivedere, e il Venezuela è una delle pedine più importanti da spostare.


Un nuovo ordine mondiale?
 
Chi oggi sale in cattedra a darci lezioncine di atlantismo

dovrebbe ricordarsi di quando sculettava al cospetto della Russia,

stringendo accordi commerciali (tra cui quello relativo alla fornitura del gas)

rendendoci completamente dipendenti dalle materie prime di Mosca.


Uno dei campioni dell’atlantismo è proprio Enrico Letta

il quale, forse, ha la memoria corta e non ricorda nulla dei 23 (leggasi 23) patti

che strinse nel 2013 proprio con Putin, tra cui spiccava il dossier energetico.



Prima del Governo Letta (ma anche dopo), tutti trattarono la nuova e ricchissima Russia
come un partner commerciale privilegiato, perché in quel momento era giusto che fosse così.

Qualcuno, più recentemente, si è spinto a fare lo stesso con la Cina:

il Governo Conte, ad esempio, ha inaugurato la “Via della Seta” stendendo tappeti rossi
.

Oggi ci ritroviamo completamente dipendenti dall’asse russo-cinese
e, dimostrando di non aver imparato la lezione, bramiamo per sottrarci da questa dipendenza
abbracciando altri partner da cui presto diventeremo dipendenti.

Il tutto senza aver nel contempo nemmeno programmato un percorso
che ci porti a non rimanere tutte le volte letteralmente legati “alla canna del gas” di qualcuno.



Il risultato?

Dal punto di vista militare, Putin va avanti per la sua strada,
presto forse la Cina farà la stessa cosa con Hong Kong (quella Ucraina sembra solo la prova generale),
la Corea lancia missili in Giappone
e l’Occidente impone sanzioni che – almeno nel medio termine – paiono più a danno dei sanzionatori che dei sanzionati.


Vladimir Putin noi occidentali lo abbiamo regalato alla Cina, che ben presto colonizzerà la Russia,

diventando un colosso economico, demografico e militare capace di far paura.



A tempo debito – quando cioè la Russia sarà completamente dipendente dall’economia cinese
e qualora i piani non fossero diversi e più aggressivi –
la Cina ordinerà alla propria colonia il “cessate il fuoco”.

Ma questo avrà un prezzo: nella migliore delle ipotesi si tratterà solo dell’annessione di fatto della Russia,
con conseguente creazione di un super blocco capace di cambiare l’ordine mondiale.

Nella peggiore delle ipotesi chi può dire cosa accadrà.


Certo, non noi che siamo semplici osservatori e non esperti di strategia militare o di geopolitica.
 
Ahahahahah che buffoni. Dove sono quelli che scendevano in piazza con le bandiere della pace ?
Seduti sul bidet ?


Tra le conseguenze della guerra russo-ucraina c’è la corsa al riarmo dei Paesi occidentali.

Italia compresa.

Lo ha confermato il premier Mario Draghi in risposta all’ordine del giorno sull’aumento della spesa per la Difesa al 2 per cento del Pil,
ed approvato a larghissima maggioranza (favorevoli 391 su 421 presenti, 19 no di Alternativa, Sinistra italiana ed Europa Verde).

L’ordine del giorno impegna il Governo ad

avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del Pil,

dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal presidente del Consiglio il primo marzo scorso

e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo,

che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione,

a tutela degli interessi nazionali, anche dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti energetici
”.



Di che numeri parliamo?

Prendendo a base di calcolo il valore del Pil,
fissato ai prezzi di mercato per il 2021 (primo anno della ripresa) a 1.781.221 milioni di euro,
si stima che il 2 per cento da destinare al capitolo della Difesa possa essere circa 36 miliardi di euro.

Un salto in avanti considerevole se lo si raffronta ai saldi del 2021,
anno in cui le spese finali del ministero della Difesa sono state postate in Bilancio per 25 miliardi e 794 milioni di euro,
di cui soltanto 5 miliardi e 656 milioni di spesa in conto capitale.


Il grosso è andato alla spesa corrente.


E non tutta pienamente attinente ai tradizionali compiti delle Forze armate.

Come, ad esempio, gli 8,2 milioni di euro utilizzati nell’operazione di ordine pubblico “Strade sicure”.

Più denari non devono alimentare sprechi di risorse pubbliche.

Perché ciò non accada bisogna che ci si intenda prima su quale “Difesa” per il nostro Paese.

Non basta pensare che tutto si risolva guardando appena fuori l’uscio di casa nostra.

Ora, se l’obiettivo è dotarsi di efficaci strumenti d’azione per rispondere adeguatamente alle mutate esigenze di sicurezza,
non è sufficiente spendere per riammodernarsi: occorre una riconversione del modello di Difesa.

Se si va sul campo non da peacekeeper inviati dalle Nazioni Unite ma sotto l’ombrello Nato,
con unità in assetto da combattimento, occorrono mezzi pesanti, dai carri armati alle artiglierie;

se si crede nella efficacia dei velivoli pilotati da remoto (droni) è indispensabile che questi siano armati
e predisposti per operazioni d’attacco e non soltanto per la ricognizione aerea.

Si richiede innovazione nella costruzione dei sistemi d’arma, ma questa presuppone la maggiore indipendenza possibile,
se non nazionale almeno europea, nella capacità di generare in proprio la gamma di tecnologie funzionali alle capacità militari in situazioni critiche.


Attualmente non è così.


Gli Stati Membri dell’Ue per ottenere l’intera gamma delle capacità militari

devono fare riferimento a fornitori di solito americani

o alla collaborazione con programmi di armamento multinazionali
(Claudio Catalano).


Ma è anche questione di risorse umane.

Un programma di sviluppo della Difesa non può prescindere dal potenziamento degli organici militari.

Nell’ultimo decennio siamo andati al contrario, facendoci merito di aver sforbiciato il comparto fino all’osso.

Nel 2012, la riduzione degli organici è stata di circa il 25 per cento della sua consistenza,
cioè si è passati da 190.000 militari e 30.000 civili a 150.000 militari e 20.000 civili.

Si comprende benissimo che un intervento radicale in questo settore richieda uno sforzo economico
che, nelle condizioni date, l’Italia non può reggere.


Il Governo tedesco del socialdemocratico Olaf Scholz, profittando della crisi russo-ucraina,
ha deciso di riarmare il suo Paese (non accadeva dalla Seconda guerra mondiale) investendo 100 miliardi di euro
nell’immediato e adeguando la spesa annuale per la Difesa al 2 per cento del Pil, come pattuito in sede Nato.

Si dà il caso, però, che il Pil della Germania non sia quello di Cipro o del Granducato di Lussemburgo.

Nel 2020, in piena pandemia, la Germania ha chiuso l’anno con un Pil pari a 3.329 miliardi di euro.

Ora, il 2 per cento corrisponde pressappoco a 70 miliardi di euro.


Domanda: che ci fanno i tedeschi con investimenti in armi per 70 miliardi annui?

Danno un contributo forte ma leale alla creazione di un esercito comune europeo
oppure provano a rimettere insieme un apparato bellico che faccia da supporto all’aggressività commerciale praticata dall’economia tedesca?

Piacerebbe saperlo per adeguarci ai nuovi scenari.


Dopo un’iniziale prudenza verso la politica delle sanzioni alla Russia,

Mario Draghi sembra essere diventato lo strenuo sostenitore della guerra a Mosca.

Segno che i potenti circoli finanziari d’Oltreoceano, di cui è stato talvolta fedele espressione, l’abbiano rimesso in riga.



Ciò ha fatto svanire l’allure di uomo più ascoltato d’Europa,
dopo l’uscita di scena della signora Angela Merkel,
guadagnato grazie alle performance da banchiere centrale.

Per riacquistare credibilità, Draghi deve dimostrare, in Italia, di contare ancora più degli altri.


Perciò, se ne riparlerà nel 2023.
 
Fa specie che un Partito come quello Democratico,

che si presenta continuamente (ipocritamente?)

come campione di atlantismo e occidentalismo,

disponga un’interrogazione parlamentare in Commissione di Vigilanza

(e che la Rai prontamente ubbidisca)

in cui si contesta un contratto stipulto ad Alessandro Orsini

definendo “assolutamente inaccettabile che le risorse del servizio pubblico radiotelevisivo vengano utilizzate per finanziare i pifferai della propaganda di Putin”.


È come se un vecchio riflesso condizionato fosse qui venuto fuori,
fin nel linguaggio adoperato (“pifferai”) di chiaro stampo stalinista
e che non avrebbe sfigurato nemmeno in bocca al più antioccidentale
e antiamericano dei leader comunisti italiani:

quel Palmiro Togliatti che definiva “cimici” coloro che non la pensavano come lui.


È questa voglia di “pensiero unico”, di omologazione e “normalizzazione”, che fa paura,
e che si ritrova in tante iniziative ideologiche del partito di Letta
(in questo caso suffragato anche, con Michele Anzaldi, da quella Italia Viva
il cui leader un tempo si era proposto di “spezzare le catene della sinistra”):

dalle proposte di legge sulle cosiddette fake news
(quasi che Socrate invece di andare in piazza per confutare i sofisti avesse chiesto una legge per zittirli)
a quelle sui temi connessi alle tematiche della vita e della sua protezione.


“La libertà di espressione è da noi garantita dalla Costituzione"
 
La Rai gli aveva offerto 2 mila euro a puntata per sei puntate,

quindi 12 mila euro totali come dice “ilFoglio.it”.


Senonché un’ora dopo aver avuto questa offerta

– è un’indiscrezione che hanno fatto a me, ci metto i condizionali del caso

ma è molto ben conosciuta nel mondo televisivo –

quelli di Floris gli avrebbero detto:

“Ti diamo 3.500 euro per venire da noi”.


Il motivo?

Perché fa ascolti, perché ha una posizione diversa degli altri e ha il coraggio di esternarla.



La cosa incredibile è che si pagano a Burioni 5mila euro da Fazio e nessuno dice una minchia,

anche se il professore sostiene che il tampone nasale può far male al cervello.



Perché Burioni sì e Orsini no?


Perché il primo sta nel mainstream,

mentre se Orsini si permette di alzare il ditino e dire una cosa diversa,

che io parzialmente condivido, beh: allora scatta la censura.
 
Coglioni ? Dove ? Sicuramente qui.


Pecunia non olet, dicevano i latini.

Che se ne intendevano di imperi.

Oggi diremmo business is business,
e forse proprio per questo le sanzioni e i boicottaggi contro Putin restano al palo se c’è da far di conto.


Se in Italia Draghi costringe le imprese a far le valigie e rientrare da Mosca,

importanti multinazionali straniere non hanno la minima intenzione di lasciare spazi di mercato

e presidi commerciali solo perché lo chiedono Zelensky o Biden o la Von Der Leyen.



In Europa Francia e Germania diversi colossi si guardano bene dal prendere una decisione drastica;

addirittura c’è chi apertamente si è rifiutato di andare via.


Anche a costo di provocare le ire del presidente ucraino che spera attraverso i social

di ingaggiare una campagna di boicottaggio puntando l’indice contro i cattivi della globalizzazione.


Nel mirino di Zelensky sono così finiti grandi marchi come le francesi Auchan, Decathlon, Leroy Merlin, Renault e Société Générale.


A essere onesti, anche i tedeschi della Metro non hanno spiantato le tende,
e ad oggi fanno melina pure grandi realtà come le francesi Accor, Air Liquid e Danone;
le americane Colgate-Palmolive, Coty,,Hyatt, Hilton, Johnson&Johnson;
le tedesche Basf, Bayer, Henkel;
le britanniche Intercontinental Hotels o la GlaxoSmith&Kline.


Insomma business is business e ogni motivo è valido per non non mollare la Russia.

Per non dire ovviamente di tutti coloro che interagiscono sul mercato del gas.


Chi in questi giorni ha avuto a che fare con le piccole imprese italiane da anni connesse alla Russia,
si sentirà dire dell’inutilità delle sanzioni al fine della risoluzione del conflitto
e del grande buco che rischiano le nostre imprese a vantaggio di competitor disinteressati a lasciare Mosca.

<Sono anni che subiamo la mannaia delle sanzioni – si commenta nel mondo delle pmi –
Con la conseguenza che poi ognuno ha dovuto inventarsi corridoi commerciali per non perdere quei mercati.
Ora però è diverso, noi piccoli siamo tagliati fuori e nessuno ci ripara, né nelle associazioni di categoria né al governo>.


In effetti Mario Draghi e Luigino Di Maio non hanno perso tempo a schierare l’Italia tra i più solerti nella compagna di boicottaggio,

senza preoccuparsi se pure gli altri partner europei facessero altrettanto.


Così si scopre che tedeschi e francesi fanno melina lasciano le loro unioni industriali libere di scegliere come reagire al piano delle sanzioni.



Mi diceva un imprenditore lombardo di lungo corso che

<In piena guerra fredda, in anni dove la tensione tra i due blocchi si tagliava a fette
(nel decennio precedente ci fu la repressione della rivolta ungherese e nel 68 la Primavera di Praga “risolta” coi carri armati sovietici),
la Fiat apriva stabilimenti nell’Unione Sovietica, in accordo con il partito comunista italiano e le sue strutture.
La fabbrica torinese, con questa scelta di strategia aziendale, si incuneava non soltanto in un vasto mercato di fascia popolare
(segmento dove Fiat primeggiava) ma gettava le basi per una rete relazionale, talvolta assai riservata, in appoggio al governo italiano e agli alleati>,
(che non sempre videro di buon occhio questa politica aperturista garantita dal più forte partito comunista d’occidente,
tanto che la Mirafiori sovietica fu denominata Togliattigrad).


Oggigiorno una apertura del genere non sarebbe ammessa,

anzi verrebbe immediatamente giudicata come collaborazionismo con il Nemico, con il Cattivo.


E poco importa se gli altri ci fanno affari assieme da anni e anni.
 

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