Val
Torniamo alla LIRA
Enimont durò neanche due anni.
Nel ‘90 Montedison cedette il settore «chimica» all’Eni
anche perché tutto il mondo politico voleva Gardini fuori
per favorire quello che veniva definito il partito degli appalti e degli appaltatori all’ombra del cane a sei zampe.
Vennero pagati 2.800 miliardi di lire per costringere Gardini alla resa.
Ma potevano essere anche di più, come sosteneva all’epoca l’imperituro Franco Bernabè,
in forza all’Eni e incaricato di una valutazione, pur di cacciare il «Contadino».
Gardini, affogato nel suo ego, era rimasto quello spregiudicato giocatore di poker che Serafino mal sopportava.
Spesso i geni sono incontenibili nelle loro pretese e gesta,
ma comunque i fratelli Ferruzzi, Arturo, Alessandra e Franca gli accordarono fiducia, supporto e sostegno.
Tuttavia, riguardo a Enimont, certamente la vicenda più mediatica,
la famiglia ha sempre affermato che la decisione della vendita della quota della società a Eni fu presa dal solo Raul,
in totale autonomia e comunicata solo a cose fatte ai familiari
i quali, basiti di fronte a tanta prepotenza, gli chiesero invano spiegazioni,
così come avvenne per l’acquisto a debito della Montedison, portando ovviamente in garanzia il patrimonio Ferruzzi.
Gardini non si smentiva mai e aveva manie di grandezza,
anche perché il suo sogno nascosto era quello di diventare il nuovo Gianni Agnelli.
Solo una volta è venuto meno a sé stesso,
solleticato nell’ego ipertrofico da quel venditore di sogni di Silvio Berlusconi,
che ben sapeva interpretare i suoi interlocutori.
L’occasione fu l’acquisto della Standa, che Gardini aveva giurato di non vendere mai e invece…
Berlusconi si recò in pellegrinaggio a Ravenna e, giunto sulla soglia d’ingresso della villa di Gardini,
si inginocchiò in stile Wojtyla.
Davanti a quel gesto, Gardini rimase esterrefatto
e così Silvio cominciò ad incantarlo, rimarcando che loro due erano gli unici indipendenti:
«Abbiamo figli giovani. Abbiamo tutti contro. Ci vogliono far litigare.
Ci scatenano contro i loro giornali». E così si prese la Standa.
La lucida follia di Gardini raggiunse il suo apice
quando pretese di mettere come presidente della Ferruzzi Finanziaria,
la cassaforte del Gruppo il giovane figlio Ivan, in un consiglio di amministrazione dove sedevano, tra gli altri,
giganti come Giuseppe Garofano, Italo Trapasso, Renato Picco e Sergio Cragnotti.
Un bravo ragazzo che, nonostante l’aiuto del comandante generale dei Carabinieri,
non riuscì neanche ad essere ammesso nell’Arma.
La conseguenza per la gloriosa «Ferruzzi Finanziaria» è che quel Cda divenne una farsa come l’Enrico IV di Pirandello,
dove ogni consigliere doveva leggere un foglio pre-compilato in modo che il rampollo, fatto re, non facesse brutta figura.
Fu l’inizio della fine per Raul, che voleva cancellare la Ferruzzi per farla diventare la Gardini.
Voleva condizionare e tenere sotto controllo ogni cosa, anche la vita dei suoi collaboratori.
Non gli piaceva, ad esempio, la moglie di Sergio Cragnotti, la Signora Flora, che poi si è dimostrata una donna eccezionale.
E così architettò di creare le condizioni per il loro divorzio.
Aveva addirittura scelto la futura compagna di Cragnotti:
l’attrice e modella Marisa Berenson, che peraltro non aveva mai conosciuto.
Nel «Colosseo Ferruzzi», come un imperatore romano,
Raul voleva avere potere di vita e di morte, anche in nome di tutti gli eredi,
perfino dei piccoli in arrivo come il bimbo di Alessandra, la più tenace dei figli di Serafino,
l’unica che aveva compreso la fatale deriva verso cui stava trascinando il Gruppo.
La debolezza della famiglia sotto scacco di Gardini,
portò ad un certo punto alla decisione di liquidare il Contadino con 500 miliardi di lire.
E da lì a poco entrò maleficamente in campo la Mediobanca di Cuccia
che non permise alla famiglia Ferruzzi
di farsi assistere dalla Goldman Sachs di Claudio Costamagna
– che al contrario - apprezzava il piano di risanamento portato avanti da Arturo Ferruzzi e Carlo Sama
per poterla così spingere nell’abisso.
Decisamente una storia tristissima per il capitalismo italiano.
Ed è struggente l’ultima frase della prima lunga “intervista-verità”
che ha rilasciato poche settimane fa Alessandra Ferruzzi, ricordando anche Gardini.
Due sole parole eloquenti: «Scusa papà».
Nel ‘90 Montedison cedette il settore «chimica» all’Eni
anche perché tutto il mondo politico voleva Gardini fuori
per favorire quello che veniva definito il partito degli appalti e degli appaltatori all’ombra del cane a sei zampe.
Vennero pagati 2.800 miliardi di lire per costringere Gardini alla resa.
Ma potevano essere anche di più, come sosteneva all’epoca l’imperituro Franco Bernabè,
in forza all’Eni e incaricato di una valutazione, pur di cacciare il «Contadino».
Gardini, affogato nel suo ego, era rimasto quello spregiudicato giocatore di poker che Serafino mal sopportava.
Spesso i geni sono incontenibili nelle loro pretese e gesta,
ma comunque i fratelli Ferruzzi, Arturo, Alessandra e Franca gli accordarono fiducia, supporto e sostegno.
Tuttavia, riguardo a Enimont, certamente la vicenda più mediatica,
la famiglia ha sempre affermato che la decisione della vendita della quota della società a Eni fu presa dal solo Raul,
in totale autonomia e comunicata solo a cose fatte ai familiari
i quali, basiti di fronte a tanta prepotenza, gli chiesero invano spiegazioni,
così come avvenne per l’acquisto a debito della Montedison, portando ovviamente in garanzia il patrimonio Ferruzzi.
Gardini non si smentiva mai e aveva manie di grandezza,
anche perché il suo sogno nascosto era quello di diventare il nuovo Gianni Agnelli.
Solo una volta è venuto meno a sé stesso,
solleticato nell’ego ipertrofico da quel venditore di sogni di Silvio Berlusconi,
che ben sapeva interpretare i suoi interlocutori.
L’occasione fu l’acquisto della Standa, che Gardini aveva giurato di non vendere mai e invece…
Berlusconi si recò in pellegrinaggio a Ravenna e, giunto sulla soglia d’ingresso della villa di Gardini,
si inginocchiò in stile Wojtyla.
Davanti a quel gesto, Gardini rimase esterrefatto
e così Silvio cominciò ad incantarlo, rimarcando che loro due erano gli unici indipendenti:
«Abbiamo figli giovani. Abbiamo tutti contro. Ci vogliono far litigare.
Ci scatenano contro i loro giornali». E così si prese la Standa.
La lucida follia di Gardini raggiunse il suo apice
quando pretese di mettere come presidente della Ferruzzi Finanziaria,
la cassaforte del Gruppo il giovane figlio Ivan, in un consiglio di amministrazione dove sedevano, tra gli altri,
giganti come Giuseppe Garofano, Italo Trapasso, Renato Picco e Sergio Cragnotti.
Un bravo ragazzo che, nonostante l’aiuto del comandante generale dei Carabinieri,
non riuscì neanche ad essere ammesso nell’Arma.
La conseguenza per la gloriosa «Ferruzzi Finanziaria» è che quel Cda divenne una farsa come l’Enrico IV di Pirandello,
dove ogni consigliere doveva leggere un foglio pre-compilato in modo che il rampollo, fatto re, non facesse brutta figura.
Fu l’inizio della fine per Raul, che voleva cancellare la Ferruzzi per farla diventare la Gardini.
Voleva condizionare e tenere sotto controllo ogni cosa, anche la vita dei suoi collaboratori.
Non gli piaceva, ad esempio, la moglie di Sergio Cragnotti, la Signora Flora, che poi si è dimostrata una donna eccezionale.
E così architettò di creare le condizioni per il loro divorzio.
Aveva addirittura scelto la futura compagna di Cragnotti:
l’attrice e modella Marisa Berenson, che peraltro non aveva mai conosciuto.
Nel «Colosseo Ferruzzi», come un imperatore romano,
Raul voleva avere potere di vita e di morte, anche in nome di tutti gli eredi,
perfino dei piccoli in arrivo come il bimbo di Alessandra, la più tenace dei figli di Serafino,
l’unica che aveva compreso la fatale deriva verso cui stava trascinando il Gruppo.
La debolezza della famiglia sotto scacco di Gardini,
portò ad un certo punto alla decisione di liquidare il Contadino con 500 miliardi di lire.
E da lì a poco entrò maleficamente in campo la Mediobanca di Cuccia
che non permise alla famiglia Ferruzzi
di farsi assistere dalla Goldman Sachs di Claudio Costamagna
– che al contrario - apprezzava il piano di risanamento portato avanti da Arturo Ferruzzi e Carlo Sama
per poterla così spingere nell’abisso.
Decisamente una storia tristissima per il capitalismo italiano.
Ed è struggente l’ultima frase della prima lunga “intervista-verità”
che ha rilasciato poche settimane fa Alessandra Ferruzzi, ricordando anche Gardini.
Due sole parole eloquenti: «Scusa papà».