Si intensificano gli attacchi mediatici e propagandistici contro il presidente venezuelano
Nicolas Maduro. Dagli Stati Uniti, alla Santa Sede, i politici si schierano apertamente contro la decisione di Maduro di voler modificare la Costituzione del Paese che sostanzialmente prevede un accentramento di poteri nelle mani del Presidente della Repubblica.
L’opposizione, che continua a chiedere a gran voce le dimissioni di Maduro, trova terreno fertile fra vaste fasce della popolazione che – a causa della crisi petrolifera – hanno visto diminuire drasticamente i beni di prima necessità in commercio a causa della riduzione delle importazioni. Il Venezuela, che galleggia sulle più grandi riserve di petrolio e gas al mondo, basa infatti il proprio bilancio sull’export di petrolio, ma il perdurare delle basse quotazioni del greggio sta mettendo in ginocchio il Paese chavista. Al punto che gli Stati Uniti, che paradossalmente importa grandi quantità petrolio dal Venezuela (Caracas è il terzo fornitore, dopo Cananda e Arabia Saudita), hanno minacciato sanzioni se l’assemblea costituente voterà le modifiche alla costituzione venezuelana.
Bond venezuelani rendono più del 30%
A pagarne le conseguenze sono anche gli investitori internazionali che si ritrovano bond venezuelani in portafoglio con rendimenti compresi fra il 30 e il 40% col rischio che il Caracas possa sospendere i pagamenti e andare in default. Fonti
Bloomberg riferiscono di accresciute difficoltà del Venezuela a reperire fondi sui mercati internazionali, anche se tali considerazioni sono state smentite dai fatti: Caracas sta infatti cercando di raccogliere 5 miliardi di dollari dalla
vendita di nuove obbligazioni a sconto. Non solo,
Goldman Sachs e
Nomura hanno recentemente investito milioni di dollari acquistando titoli della compagnia petrolifera statale PDVSA. In ultimo, la stessa azienda petrolifera sta cercando di rinegoziare la scadenza di
obbligazioni per oltre 3,3 miliardi di dollari allo scopo ottimizzare i costi di finanziamento del debito. Una situazione, comunque, non certo tranquilla e che potrebbe anche sfociare in un default di PDVSA se il contesto politico e finanziario dovesse peggiorare.
L’appoggio di Cina e Russia
Finora il castello di carte si è retto sui prestiti di
Cina e
Russia, oltre che sulle vendite di oro estratto dalle ricche miniere venezuelane. Ma non è escluso che presto o tardi si possa arrivare a una resa dei conti.
Deutsche Bank consiglia di posizionarsi sui bond a lunga scadenza vendendo quelli a breve e media scadenza ipotizzando, alla peggio, una ristrutturazione dei titoli intorno al 45% del valore nominale per i titoli di stato e del 35% per i
bond PDVSA con contestuale taglio delle cedole. Evento che – precisano gli esperti tedeschi – potrebbe avvenire il prossimo anno, giaccchè il rimborso dei bond PDVSA in scadenza il prossimo autunno non incorporano nei prezzi questa drammatica eventualità (l’obbligazione 8,50% 2 novembre 2017 prezza 86). Ipotesi che contrasta sia con la volontà del Venezuela di onorare sempre e puntualmente i debiti (come ha sempre ribadito Maduro) e con le analisi degli esperti di
Torino Capital che ricordano che, scavallato il 2017, ritenuto l’anno più difficile sotto il profilo dei debiti per il Venezuela, PDVSA non avrà più scadenze importanti fino al 2020, anno in cui si dovrà estinguere il bond di cui si è detto prima e per il quale è allo studio una ristrutturazione. Diversa la situazione per quanto concerne i pagamenti di interessi e capitale sui titoli di stato: per quest’anno non ci sono scadenze, mentre nel 2018 Caracas dovrà estinguere bond per 2 miliardi di dollari.