ANCHE SE GIRIAMO IL MONDO IN CERCA DI CIO' CHE E' BELLO, O LO PORTIAMO GIA' IN NOI O NON LO TROVEREMO MAI.

Ci deve essere qualcosa nell'aria che spinge sulle pagine dei giornali e oltre, alcuni antielmintici in funzione anticovid.

Sorvoliamo sull'ivermectina e veniamo all'ultimo arrivato, cioè la niclosamide,
che questo mese ha trovato spazio nei titoli di molti giornali, repubblica compreso.

La fusione cellulare indotta da SARS-CoV-2 è un fenomeno il cui ruolo nella patologia è da indagare, e da indagare in modelli animali.

Ma, nonostante la buona attività in vitro a cui si associa un'altrettanto buona attività antivirale
(https://www.nature.com/articles/s41586-021-03491-6),
un modello animale non lo vedremo mai, e per il più banale dei motivi:

la niclosamide non viene assorbita nel tratto intestinale,
tanto che né il farmaco né i suoi metaboliti sono mai stati trovati nel plasma o nelle urine,
cosa che può decisamente tornare comoda se lo scopo è far fuori tenie, e infatti... (https://go.drugbank.com/drugs/DB06803...).

Ma se L'intenzione è vedere un effetto nei polmoni di un macaco infettato con SARS-CoV-2 aspetta e spera...

Forse con uno spray nasale, chissà, ma l'idea di riusare tal quali le compresse dell'antielminico
già in uso in funzione anticovid, che è cominciata a girare, nasce morta e sepolta.
https://www.repubblica.it/.../covid_un_nuova_farmaco.../


MOLNUPIRAVIR, FINITA LA STORIA DEL GAME CHANGER?
(per i più distratti, molnupiravir era "quello dei furetti")

"Quello che sto vedendo è un tentativo di fare il possibile in fase III per individuare i pazienti
in cui molnupiravir davvero mostrerà un effetto utile.
E va bene, ma dobbiamo capire cosa questo significhi: la storia "molnupiravir game changer" adesso è probabilmente morta.

Onestamente non c'è mai stata troppa speranza fin dall'inizio
- ad oggi non esistono terapie antivirali ad agente singolo, per quanto si possa sempre sperare.
Le sole malattie virali che possiamo battere con piccole molecole sono quelle per cui abbiamo diversi farmaci con bersagli diversi,
distinti dal punto di vista del meccanismo, che possano essere somministrati simultaneamente.

E' il caso dell'epatite C e dell' HIV.

Così se possiamo utilizzare un antivirale a largo spettro dobbiamo aspettarci che non sia eccezionale per nessun virus particolare"


In questa chiave è importante che Merck continui la sperimentazione di molnupiravir ,
perché se Pfizer avrà un qualche successo con il suo inibitore di proteasi
avremmo finalmente i due farmaci diversi per meccanismo da sperimentare in combinazione.
https://blogs.sciencemag.org/.../15/merck-keeps-plowing-on
 
O mamma mia....e adesso come faccio a guardare la tv .....domani esco pitturato di nero.




A seguito delle proteste del rapper Ghali e di alcune associazioni di sinistra,
la Rai ha deciso di vietare nei programmi del servizio pubblico la pratica del blackface. ( guardate che sta per "pitturarsi la faccia di nero").


Il politicamente corretto ha vinto, ancora una volta:
basta pitturare le facce di nero in tv e nei programmi del servizio pubblico.

È la decisione che ha preso la Rai dopo le proteste del rapper Ghali
e di altri vip del mondo dello spettacolo e di alcune associazioni di sinistra come l'Arci.

Nei programmi Rai, infatti, non sarà più consentito dipingersi il volto di nero
per assomigliare a un artista o a un personaggio di colore,
pratica impiegata perlopiù in Tale e Quale Show, lo show autunnale di Raiuno.


"Bastava l’autotune e un bel look. Non c’è bisogno di fare il blackFace per imitare me o altri artisti",
aveva dichiarato lo scorso novembre Ghali riguardo la sua imitazione nel programma Rai.


Apriti cielo: le parole del rapper, seguito poi da altri "artisti", hanno portato alla decisione odierna della Rai di non ricorrere più a pitturare la faccia di nero.


"Nel merito della vicenda per la quale ci avete scritto, diciamo subito che assumiamo l’impegno – per quanto è in nostro potere –
a evitare che essa possa ripetersi sugli schermi Rai. Ci faremo anzi portavoce delle vostre istanze presso il vertice aziendale
e presso le direzioni che svolgono un ruolo nodale di coordinamento perché le vostre osservazioni sulla pratica del blackface diventino consapevolezza diffusa",

ha scritto la Rai in risposta a una lettera inviata da diverse associazioni come Lunaria, Cospe e Arci che
chiedeva di abbandonare l’abitudine di adoperare la blackface nelle trasmissioni di intrattenimento,
nel nome del politicamente corretto imperante.


Come se quel richiamo al colore della pelle risultasse offensivo, sempre.


Qui parliamo infatti di un programma di imitazioni, dove i personaggi del mondo dello spettacolo
vengono truccati per assomigliare il più possibile agli originali.

Che siano bianchi, neri o gialli non dovrebbe avere nessuna importanza.

Perché il prossimo passo è abolire le imitazioni in televisione con il timore di offendere qualcuno.


Significativo poi che questa crociata politically correct arrivi da artisti come Ghali:
un tempo, infatti, i musicisti erano l'incubo del pensiero unico, del perbenismo, e le loro provocazioni erano all'ordine del giorno.

Oggi, invece, accade l'esatto contrario: gli artisti rappresentano l'avanguardia del pensiero unico e politicamente corretto.


Quello che non dà mai fastidio a nessuno.


Altro che #blackface.
 
Quasi un anno fa l’illustre costituzionalista Sabino Cassese rilevò, con dovizia di argomentazioni,
il grande paradosso di un prolungato stato d’emergenza senza emergenza.

Una situazione che stiamo ancora vivendo sotto il profilo delle restrizioni sanitarie.

Non solo: dal momento che ora conosciamo assai meglio il Covid-19, appare ancora più assurda e incomprensibile.

E spiace che ad intestarsi la massima responsabilità politica di tutto ciò non sia più il sedicente avvocato del popolo,
sbucato dal nullismo grillesco, bensì il personaggio che gode la migliore reputazione sul piano internazionale: l’attuale premier Mario Draghi.


In tal senso la misura reiterata del coprifuoco alle 22, ancor più del pass sanitario interregionale di stampo staliniano,
costituisce l’espressione più bieca e deteriore di una vera e propria dittatura sanitaria che, nel breve volgere di qualche settimana,
ha completamente sovvertito i termini e i limiti delle nostre garanzie costituzionali.



E non credo proprio che sottolinearlo sia un mero esercizio accademico per legulei,
soprattutto se consideriamo che non ci troviamo di fronte ad una malattia come l’ebola,
ma abbiamo a che fare con un serio problema sanitario che riguarda sostanzialmente una fascia ristretta della popolazione.

Ossia i molto anziani e i fragili.

Accade pertanto che, non essendo riusciti prima ad isolare e poi vaccinare chi rischiava davvero gravi conseguenze dal virus,
si è deciso di salvare la vita – non riuscendovi molto a leggere i numeri – a costoro impedendo a tutti gli altri di vivere,
dato che i termini a cui è stata ridotta la nostra esistenza non ha molto a che vedere con la vita medesima.


Tuttavia, sta di fatto che chi regge le redini del Paese in questa agonia auto-inflitta
continua a farsi dettare la linea da personaggi come Massimo Galli o Andrea Crisanti
(quest’ultimo ha recentemente tuonato contro le parzialissime aperture del 26 aprile, prevedendo 600 morti al giorno),
il cui interesse sembra perfettamente coincidere con quello di politici del calibro di Roberto Speranza,
il quale solo grazie all’arrivo del virus cinese ha potuto evitare – almeno per il momento – l’oblio a cui era irrimediabilmente destinato.

In sostanza, questa sciagurata emergenza infinita senza emergenza ha fatto scoprire l’America a tanti,
troppi personaggi oscuri e in gran parte impresentabili che, senza un disegno preordinato,
si sono ritrovati sulla linea giacobina delle chiusure ad oltranza per un loro evidente e personale interesse politico e professionale.


A questo punto, visto che neppure nella cabina di comando si riesce a comprendere l’importanza vitale di tornare al più presto ad una vera normalità,
facendo tabula rasa di chi continua ad usare il terrore sanitario come una clava liberticida,
mi auspico che la crescente protesta sotterranea di un popolo stremato possa sfociare in un forte e strutturato movimento di dissenso civile.


Da questo punto di vista mi sembra encomiabile l’iniziativa dell’amico Nicola Porro,
il quale ha chiesto ai cittadini di far sentire la propria voce divulgando su Twitter #ioil22nonlovoglio,
in segno di aperta protesta nei riguardi del coprifuoco, che in questo momento rappresenta il simbolo negativo di una dittatura sanitaria senza fine.
 
Era l’esempio che il giornale unico del virus attendeva con impazienza:

la regione diventata bianca che, dopo il liberi tutti, si ritrova per settimane in zona rossa.

Quale occasione migliore per dare la caccia al cittadino irresponsabile e minare le già flebili speranze di riapertura?

E infatti da giorni è tutto un raccontare del “caso Sardegna”,
l’isola che ha marzo ha goduto di due settimane di libertà
e che ora si ritrova ad essere l’unica con il massimo delle restrizioni.

Il ritornello preferito è: i sardi si sono dati alla pazza gioia e ora ne pagano le conseguenze.


Ma quanto c’è di reale?


Ad osservare attentamente i dati viene fuori tutt’altra verità.

Partiamo dalle analisi di Gimbe, la fondazione indipendente che studia i numeri dell’epidemia.

In un grafico sulla relazione tra l’incidenza di casi per 100mila abitanti e l’incremento percentuale dei contagi,
si nota che la Sardegna è nell’area “arancione”, ben lontana dalla “rossa” dove stazionano tra le altre Puglia, Campania e Toscana.

Cosa significa?

Vuol dire che i valori dell’incidenza sono inferiori alla media nazionale
e solo l’incremento percentuale dei casi nell’ultima settimana (18-25 aprile) esce di poco dal selciato.


I dati sono comunque migliori di quelli di tante altre regioni e non così diversi da quelli del Lazio.

Come mai allora solo l’isola è stata penalizzata?



E qui entriamo nel magico mondo degli indicatori utilizzati dalla cabina di regia per decidere vita, morte e miracoli delle aree del Belpaese.

Roba complicatissima.


Ma se uno si arma di santa pazienza riesce a capire che l’incidenza settimanale (132 casi ogni 100mila abitanti) in Sardegna

è molto sotto la soglia limite di 250 e soprattutto inferiore a quella di buona parte delle altre Regioni.



Direte: se è in zona rossa un motivo ci sarà, magari avrà un Rt altissimo o una diffusione massiccia.


Invece no: a casa di Solinas infatti l’Rt è sotto sotto l’1 (allo 0,97),

non ci sono problemi a gestire in maniera efficace eventuali zone rosse,

la valutazione sulla probabilità di trasmissione è “moderata”

e quella sull’impatto e la gestione dell’epidemia è “bassa”.


E infatti stando all’algoritmo disegnato dal ministero della Salute, la “valutazione” complessiva sarda sarebbe solo “moderata”.

Magari non da zona gialla, ma neppure da rossa.


Come mai allora ancora restrizioni?


Primo problema:
le regoline ministeriali prevedono che una regione resti in rossa per due settimane di fila
da quando viene registrato un rischio elevato, indipendentemente da come vanno le cose.

E i sardi devono ancora scontare gli ultimi 7 giorni di inferno.

Secondo:
ci sono due “allerte” indicate dai tecnici di Speranza nella resilienza dei servizi sanitari territoriali.

Di che si tratta?

Mancano i posti letto?

Macché.

Il tasso di occupazione delle terapie intensive e dei reparti Covid è sotto la soglia di allerta

(piccolo appunto: il Lazio di Zingaretti è fuori con l’accuso in entrambe le statistiche).


A fregare l’isola ci sono due indicatori:

da un lato l’aumento percentuale dei tamponi positivi, che nell’ultimo monitoraggio è salito dal 9% al 9,2%,
(anche se resta inferiore rispetto ad altre Regioni);

dall’altro i 157 focolai attivi, oltre a qualche difficoltà nel tracciamento dei contagi.

E basta.

Fine.

Nessun sistema sanitario al collasso, né epidemia fuori controllo.

Per il resto, infatti, gli indicatori epidemiologici più importanti (dall’incidenza alla pressione sul sistema ospedaliero)
sono migliori che in altre aree del Paese.


Alla faccia dell’“eccessiva disinvoltura” dei sardi a marzo: in realtà stanno meglio di altre regioni oggi in gialla.
 
FOLLIA PURA


Quindi al ristorante – più o meno – ci si può andare.

Però una volta lì non è possibile andare in bagno.

Se durante il pasto ti scappa, devi cercare un’aiuola nei dintorni e farla lì, o dietro un albero.

Questa è l’ennesima follia dettata da chi sta gestendo l’emergenza pandemica e le riaperture in Italia.

La questione dei bagni nei ristoranti è l’ennesima dimostrazione dell’incapacità di chi governo.

Se sui social l’indicazione è stata accolta – fortunatamente – con la solita ironia italiana da parte dei clienti,
i ristoratori invece hanno risposto con rabbia.

Rassegnati, dato che ormai non sanno davvero più cosa fare.


I servizi igienici possono essere utilizzato solo “in caso di assoluta necessità”.

E come la dimostra uno l’assoluta necessità?


È infatti questo uno dei paradossi più evidenti contenuti nel nuovo decreto del governo Draghi, che ha disposto le prime riaperture.

Si può andare al ristorante all’aperto ma non si può entrare per usare il bagno.

Così come non si può entrare a mangiare all’interno del locale in caso di pioggia.

Quella del bagno però è la norma che sta suscitando più polemiche.


Andare in bagno è di per sé un bisogno essenziale, quindi le faq di palazzo Chigi che precisano che

“l’uso dei servizi igienici posti all’interno dei bar e dei ristoranti non può essere consentito, salvo casi di assoluta necessità”

appare alquanto bizzarra.

Non è specificato cosa si intenda per casi di “assoluta necessità”: ed è proprio su questa opzione
che si sono scatenati meme e vignette su social.

Tra chi non tira lo sciacquone per far vedere al proprietario e alle forze dell’ordine l'”assoluta necessità”
a chi si alza dal tavolino per andare a farla nelle aiuole.


L’autorizzazione all’utilizzo dei servizi igienici è quindi discrezione del ristoratore?

E chi lo sa.

Ma il ristoratore, già vessato da mille intoppi, può mettersi anche ad assumersi una responsabilità non sua
per mandare o non mandare i clienti al bagno?


Siamo alla follia.
 
Ieri l'altro la Regione Lombardia ha vaccinato da sola il ventuno per cento dei vaccinati dell'intero Paese nello stesso giorno,
ieri ha raggiunto i tre milioni di somministrazioni e nei prossimi giorni si avvicina alle centomila dosi quotidiane.

Alla faccia dei gufi e degli odiatori seriali che avevano descritto, non senza compiacimento, la Lombardia come morta.


È stata una delle pagine più vergognose e spietate dell'informazione, un linciaggio mediatico.

Lombardia uguale centrodestra a trazione leghista.

Cioè il nemico da abbattere a prescindere.


A un passo dalla resa, Fontana ha raccolto le poche energie che gli erano rimaste e ha rilanciato
chiamando al suo fianco Guido Bertolaso e Letizia Moratti,
aumentando così il tasso di odio dei gazzettieri di sinistra nei suoi confronti.

Giorni e giorni di titoloni in prima pagina, sberleffi e sciacallaggi sul privato per tutti e tre.

Ora è chiaro che la competenza paga.

I competenti certo possono cadere come tutti, ma sanno rialzarsi e correre più di prima.


Ma soprattutto rosiconi, perché il trio lombardo e Draghi con il suo generale Figliuolo
- alla faccia delle stupide polemiche sul suo non rinunciare alla divisa di Alpino -
stanno riuscendo là dove Conte e i suoi uomini grillini e paragrillini hanno clamorosamente fallito, al punto da essere cacciati.


Tutto risolto?

No, per niente, ma la strada è sicuramente quella giusta,
quella del «rischio calcolato» che da lunedì ci permette di riacquistare alcune libertà che
- fossimo rimasti nelle mani del duo Arcuri-Galli - non avremmo potuto neppure immaginare.

Tra pochi giorni, salvo imprevisti, cadrà anche il coprifuoco alle 22,
misura che anche la maggior parte degli scienziati ritiene inutilmente punitiva.

Diranno che Draghi ha ceduto alle pressioni e ai ricatti del centrodestra.

Io ho un'altra lettura: Draghi ha fatto fare al centrodestra ciò che lui,
premier di una coalizione che ha al suo interno anche la sinistra «chiusurista»,
voleva fare ma non era opportuno che facesse in prima persona: riaprire l'Italia il più presto possibile.


Si chiama «il gioco delle parti», e per fortuna in questo gioco la sinistra non tocca palla.
 
La presa per il kulo di tutti i soloni sopra citati e dei giornalai di regime,
è che loro fanno riferimento a quanto succede nelle grandi città, ma nei
piccoli centri.........venite a vedere che assembramenti.



L’ultimo aggiornamento del Decreto Covid garantisce
la possibilità per bar e ristoranti di poter servire i propri clienti ai tavoli all’aperto.

Un provvedimento che in qualche modo si avvicina alle necessità del mondo della ristorazione,
ma che, purtroppo, non può far nulla di fronte all’incertezza delle condizioni meteorologiche.


Si sa il destino è spesso beffardo e proprio nel primo lunedì di riaperture,
pioggia e maltempo si sono abbattute su tutto il territorio nazionale.

Qualcuno, tuttavia, ha voluto riderci sopra:
il video di Paolo Lucariello che cena all’aperto sotto il diluvio è diventato virale in pochissimo tempo.


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"26 Aprile 2021, finalmente zona gialla… Da oggi si può mangiare con il tavolo all’aperto.
Ho invitato a cena Noè ma mi ha detto che stava cercando i due liocorni, c
osì ho dovuto cenare da solo. Buona cena a tutti e nel caso buon pranzo per domani!”.

Si chiama Paolo Lucariello ed è il titolare della “Macelleria Paolo Lucariello” di Ozzano Monferrato in provincia di Alessandria.

In pochissimo tempo, il suo video pubblicato sul suo profilo Facebook è diventato virale:
una cena a lume di candela per celebrare la riapertura dei ristoranti all’aperto… sotto una pioggia battente.
 
“La vanità, insaziato cormorano, consumati i suoi mezzi, si fa preda subito di se stessa”:
così William Shakespeare nel suo “Riccardo II” ha brillantemente sintetizzato
la feroce autoreferenzialità della vanità, tratto distintivo, peraltro,
di quella tambureggiante campagna mediatica denominata “Diamociunamano
– che ogni giorno si premura di arruolare sempre più personaggi dello spettacolo da inviare al fronte della propria causa –
organizzata dalla nota rivista “Vanity Fair” a sostegno del Ddl Zan.

Alla fiera della vanità, tuttavia, specialmente per problemi giuridici di una certa complessità e importanza
che riguardano diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti come la libertà personale,
bisognerebbe preferire la “Verity fair”, cioè la fiera della verità, poiché solo la verità rende liberi come ha insegnato
– tra i tanti – un laicissimo Luigi Einaudi secondo il quale bisognava prima conoscere, poi discutere, e soltanto dopo deliberare.


In questa direzione occorre sfatare alcune falsità che sorreggono il diffuso sostegno a favore del Ddl Zan.



In primo luogo, emerge la questione quantitativa che giustificherebbe l’emergenza con cui approvare una suddetta legge.

Si dice che siano migliaia i casi di omofobia che attendono di essere puniti poiché adesso rimangono impuniti;
si dice che l’emergenza sia arginabile soltanto con una legge ad hoc;
si dice che soltanto penalmente si possa risolvere il problema.

Si dovrebbe tener presente che una simile logica fu già adottata in passato
per legittimare l’approvazione della legge Cirinnà nel 2016 in tema di unioni civili:
all’epoca si disse che erano milioni gli italiani in attesa di una simile legge
che avrebbe garantito i diritti fino a quel momento privi di tutela.


Anche in quel caso il circolo ideologico-mediatico si mise in moto per una simile campagna.

Neanche un anno dopo dall’approvazione della “miracolosa” legge Cirinnà,

si scoprì, tuttavia, che i milioni di italiani che avrebbero dovuto e voluto ricorrere a tale legge non esistevano;

non ne esistevano neanche alcune centinaia di migliaia;

non se ne trovarono nemmeno diecimila;

furono, infatti, meno della metà di quest’ultima cifra, cioè appena 2800.


Sui casi di crimini d’odio e intolleranza omofobica, tuttavia, non sarà necessario attendere,
poiché i numeri sono già noti e sono ricavabili dai rapporti annuali dell’Osce
dai quali si apprende che in Italia i crimini per omofobia – segnalati dalle forze dell’ordine e penalmente repressi con le norme già esistenti –
sono stati nel 2014 appena 52,
nel 2015 appena 27,
nel 2018 sono stati 100,
nel 2019 sono stati 107
.

Si tratta di numeri di gran lunga inferiori a ciò che viene ripetuto e sicuramente tali da non giustificare una tale presunta emergenza che quindi non esiste.

Se così non fosse, del resto, sarebbe ben più emergenziale la situazione segnalata dagli stessi rapporti Osce
secondo i quali nei medesimi anni suddetti si sono registrati ben 194 crimini di odio per motivi etnico-razziali
e 226 ai danni delle comunità religiose in genere e cristiane in particolare nel 2014, 413 e 153 nel 2015, 701 e 210 nel 2018, 805 e 207 nel 2019.


I numeri, dunque, dicono ben altro.


In secondo luogo: la seconda falsità da sfatare riguarda coloro che sono contrari al Ddl Zan,
che albergherebbero soltanto all’interno degli ambienti più reconditi del più coriaceo oscurantismo cattolico.

Anche in questo caso così non è.

Gli esempi potrebbero essere molteplici, ma è sufficiente ricordare, oltre i corretti dubbi sollevati dal laicissimo Marco Politi,
che tanto Arcilesbica, quanto diverse voci del mondo femminista, si sono più volte espresse contro l’approvazione del Ddl Zan,
almeno nella sua attuale formulazione che impedirebbe di esplicitare una critica anche nei confronti della pratica
(attualmente penalmente sanzionata) dell’utero in affitto.


In terzo luogo: la terza falsità da smentire riguarda proprio la questione normativa,
essendo del tutto falso che adesso l’ordinamento sia sguarnito di norme che possano tutelare le persone omosessuali
(e tutte quelle degli altri 10, 100 o 1000 generi ipotizzati o ipotizzabili dall’ideologia gender)
da eventuali aggressioni o lesioni della loro integrità psico-fisica.


Sarebbe bene ricordare, infatti, che esistono e sono ancora pienamente in vigore le norme specifiche del Codice penale

che puniscono l’omicidio, indifferentemente dal sesso o genere di appartenenza, così come le percosse,

le lesioni personali, l’ingiuria, la diffamazione e tutti gli altri comportamenti antigiuridici

che dovessero danneggiare le suddette categorie nella loro fisicità come nel loro onore.


Inoltre, esiste l’articolo 61 del Codice penale che prescrive le comuni aggravanti tra cui i motivi abietti o futili.


Infine, esiste la cosiddetta “Legge Mancino” che già dispone pene specifiche per i reati di odio e discriminazione:

a questo proposito sarebbe stato sufficiente modificare tale norma, aggiungendo i motivi di discriminazione sessuale,

mostrando continenza normativa, sapienza giuridica, e prudenza culturale,

invece di introdurre un disegno di legge come il Ddl Zan più fondato sulla cieca furia dei presupposti ideologici

che sulla mite ragionevolezza degli argomenti giuridici.



Insomma, in conclusione, si evince con estrema chiarezza che il problema del Ddl Zan si inserisce in un contesto del tutto ideologico
e perfino totalitario, come quello descritto da George Orwell nel suo “1984” in cui molti credevano

“fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte”.
 
Dove sta il problema ?
Chiudere il conto e portarsi i soldi a casa.
I nostri nonni li muravano nel muro.


Dal primo luglio il gruppo bancario olandese Ing (Conto Arancio) chiuderà atm e casse automatiche.

Questa è stata la comunicazione che hanno ricevuto i suoi clienti, ben 1,3 milioni di persone solo in Italia.

Il colosso olandese ha deciso così di non dar importanza alle proteste degli altri istituti di credito,
riguardo il progetto di Bancomat spa, che tra l'altro sta venendo esaminato dall'Antitrust.

Bancomat spa è la società che si occupa della gestione dei circuiti di prelievo e pagamento Bancomat e Pagobancomat.
Il suo capitale è distribuito tra 125 soggetti, i principali sono: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Iccrea Banca, Banco Bpm e Monte dei Paschi.
Il nuovo progetto "prevede" - come scritto nel testo - "la sostituzione delle commissioni interbancarie
con l'applicazione al titolare della carta di un'eventuale commissione definita in via autonoma da ciascuna banca proprietaria dell’Atm
e che eroga, dunque, il servizio di prelievo attraverso le proprie apparecchiature".


Nonostante stiano aderendo a questo progetto i principali istituti di credito, Ing ha deciso di non far parte di questo gruppo.

La scelta era immaginabile, infatti erano giorni che sui social si parlava della possibilità che il colosso olandese
prendesse questa decisione, ossia di rottamare i bancomat. Ora c'è la conferma.

Dal primo luglio il tasso base sarà più basso e verrà dismesso il servizio il servizio di alimentazione
oltre l'impossibilità di usare gli Atm per prelevare e versare i contanti.


"Stiamo evolvendo verso un modello cashless e sempre più mobile-first.
Questo per rispondere alle preferenze dei nostri clienti", è stata la spiegazione di Alessio Miranda, Country Manager di Ing in Italia.

Si tratta di una mossa abbastanza sorprendente, chissà che non sia precorritrice.

A quanto pare, la gestione del contante è diventata un'attività non più strategica né profittevole per le banche,
soprattutto dopo la diffusione dell'utilizzo sempre maggiore dei canali digitali.

Certo è che, qualora questa scelta venisse adottata anche da altre banche,
come riporta il Sole 24ore, si aprirebbero delle importanti riflessioni sul futuro e sulla sostenibilità delle reti degli Atm.

La scelta del gruppo bancario, però, non implica che tutti i suoi clienti, dal primo luglio, non possano più prelevare.

Sarà loro ancora eseguibile ma chiunque vorrà prelevare dei contanti sarà obbligato a farlo presso gli sportelli Atm di altri istituti bancari.

Per quanto riguarda gli assegni, invece, questa avverrà con l'invio della documentazione via posta assicurata alla sede.



Non si tratta dell'unica novità, la banca proprio per questa scelta, passerà dagli attuali 30 punti sul territorio nazione a 23.
 
Una buona notizia sul Covid arriva da uno studio dell'Università di Tor Vergata,
dove si stanno analizzando le persone immuni, quelle che seppur a contatto con il virus non prendono l'infezione.

Ce ne parla il rettore e genetista dell'Università, il professor Giuseppe Novelli


“Si sta concentrando sui cosiddetti “resistenti”, cioè gli immuni al Covid-19.
Questi soggetti, nonostante il contatto prolungato e senza dispositivi di protezioni con familiari positivi,
non solo non hanno mai sviluppato sintomi, ma sono sempre risultati negativi ai tamponi nasofaringei ed agli esami sierologici.
Da qui è nato l’interrogativo su quali siano i fattori che conferiscono questa sorta di barriera naturale al virus,
e li stiamo cercando nella nostra “libreria genetica”: il DNA.
Attraverso un prelievo di sangue venoso è possibile estrarre il DNA e sequenziarlo,
andando così a ricercare le varianti genetiche associate a questa risposta fenotipica
(l'insieme di tutte le caratteristiche manifestate da un organismo vivente ndr)”.


Esiste un modo per scoprire se si è immuni al Covid-19?

“Attualmente stiamo ancora cercando di comprendere cosa ci sia alla base della resistenza.
Una volta chiariti i meccanismi genetico-molecolari sottostanti a questa risposta,
potrebbe essere messo a punto un test che indichi il livello di suscettibilità dell’individuo all’infezione da SARS-CoV-2, anche se è ancora presto per dirlo”.


Spiegandolo chiaramente da cosa dipende il fatto che alcune persone lo prendono e altre seppur venute a contatto con il virus, rimangono immuni?

“Come ho detto prima, se il virus è sempre lo stesso le differenze vanno ricercate nell’ospite e nello specifico nel DNA.
La nostra attenzione è focalizzata sulla risposta immunitaria, sugli interferoni
(che sono una famiglia di proteine prodotte sia da cellule del sistema immunitario sia da cellule tissutali
in risposta alla presenza di agenti esterni come virus, batteri, parassiti ndr)
ma anche sulle molecole che permettono l’entrata e l’uscita del coronavirus nelle cellule,
ponendo a confronto il DNA dei soggetti immuni con quello di chi, al contrario, ha contratto il SARS-CoV-2 in forma più o meno grave”.


Allo stesso modo perché anche componenti della stessa famiglia sviluppano il virus con sintomi diversi?

“La diversa manifestazione clinica di una stessa infezione in un gruppo di soggetti,
come per esempio in un ambiente familiare, dipende dalla variabilità genetica inter-individuale.
Anche tra componenti della stessa famiglia, come ad esempio tra padre e figlio,
ci possono essere delle differenze nei geni che modulano la risposta immunitaria.
Dunque, lo stesso agente patogeno che in un soggetto determina una manifestazione clinica grave
tanto da richiedere l’ospedalizzazione, può manifestarsi in un altro sotto forma di semplice raffreddore”.


Scoprire il perché alcune persone sono immuni può essere la base di partenza per una cura?

“Lo scopo di questa ricerca è proprio quello di capire cosa rende geneticamente resistente un soggetto e quindi,
partendo da questo punto, sviluppare nuovi farmaci che aiutino gli individui più a rischio a combattere l’infezione e, nella migliore delle ipotesi, a prevenirla”.


Quali sono i fattori fino ad ora scoperti che fanno la differenza rispetto all'infezione da coronavirus i cosiddetti fattori di resistenza.

“Al momento attuale ci stiamo concentrando sulla risposta immunitaria e sulle molecole
che permettono al virus di svolgere il proprio ciclo replicativo all’interno delle cellule.
Uno degli elementi su cui stiamo puntando gli occhi è l’Interferone, che è la proteina che crea la prima barriera delle cellule contro virus e batteri.
Questo perché noi del laboratorio di Tor Vergata e gli altri affiliati al consorzio internazionale di cui facciamo parte,
il Covid Human Genetic Effort, coordinato dalla Rockfeller University di New York, abbiamo scoperto che il 15% dei soggetti infettati dal SARS CoV-2
che vengono ricoverati in terapia intensiva presenta un deficit di interferone:


il 3,5% non ne produce abbastanza,

mentre il 10% presenta autoanticorpi che lo bloccano.

Partendo dalla nostra barriera immunitaria e dal suo corretto funzionamento,
siamo spinti ad indagare sempre più a fondo quali siano i fattori protettivi e come questi agiscano nella risposta al SARS-CoV-2”.


Gruppo sanguigno piuttosto che vitamina D, sono tanti i fattori di cui si è parlato a lungo che potevano essere motivo di immunità, c'è tra questi qualcuno che scientificamente corrisponde a realtà?

“Secondo alcuni studi, sembrerebbe che i soggetti con gruppo sanguigno A siano più suscettibili all’infezione.
In merito alla vitamina D, l’unica certezza che abbiamo è che l'integrazione per chi ne è carente
aiuta il sistema immunitario e la mineralizzazione ossea, tuttavia è improbabile che la vitamina D da sola
possa essere considerata una terapia o un metodo per prevenire l’infezione da Coronavirus.
E’ stato visto infine che donne e i bambini sembrano meno suscettibili all’infezione:
le prime per una produzione maggiore di interferone,
i secondi per una minor attivazione del sistema immunitario e per un meccanismo più efficiente di riparazione del danno tissutale
(ovvero le molecole rilasciate nel torrente ematico quando un particolare organo o tessuto dell'organismo subisce un forte stress,
o risulta sofferente in seguito a un significativo evento patologico ndr)".


Allo stesso modo a parte le protezioni come mascherina, disinfettante e distanziamento esistono altre modalità che possono aiutare?

“Sicuramente bisognerebbe aprire frequentemente le finestre negli ambienti chiusi ed evitare luoghi affollati e con scarso ricambio d’aria.
Si dovrebbero utilizzare mascherine adatte, come le mascherine chirurgiche o le FFP2, evitando l’uso di quelle di cotone e cambiandole frequentemente.
Non in ultimo la più grande arma che abbiamo a disposizione in questo momento: il vaccino.
Chiaramente non stiamo parlando di una barriera fisica, che possa impedire il contagio,
ma il suo fine è quello di proteggere la parte di popolazione più fragile dalle conseguenze gravi della malattia”.
 

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