Anteprima. Una nuova Storia dell'arte :)

Attendo anch'io con impazienza il capitolo dei concettuali, estroflessori & Co.
PS: Credo che anche l'arte povera, dopo Baleng, rimarrà ancora più povera.
 
CAPITOLO 8 Le tecniche degli artisti


Abbiamo già visto la tecnica dell’affresco presso i primitivi, consistente nel ricoprire il soggetto desiderato di pigmento e poi schiacciarlo contro il muro. Presentava il difetto che certi soggetti (uova, vasi di vetro e ceramica, televisori) era impossibile rappresentarli in quel modo, per comprensibili motivi. Col tempo, allora, si sviluppò la tecnica della tempera. L’artista contemplava a lungo l’oggetto, poi, piangendo, buttava su una tavola di legno pigmenti e pennello e diceva a tutti “Non so come fare”. Allora tutti temperavano la sua sofferenza dicendogli “Ma no, guarda, hai fatto un quadro bellissimo”, facevano finta di raccogliere dalla tavola una fotografia del soggetto scattata in precedenza, in realtà messa lì di nascosto, e gliela mostravano. Ecco perché tutta la pittura primitiva è figurativa.

Molto più tardi nacque la pittura ad olio: il cond … ehm, il soggetto veniva posto entro un pentolone d’olio bollente circondato e chiuso da quattro grandi tele. Ovviamente il poveretto scappava urlando in qualsiasi direzione, tutto unto e già ricoperto di piaghe, andando così a sbattere contro una o più delle tele, sulle quali rimaneva dunque la sua impronta. Anche questa era dunque pittura eminentemente figurativa.

In tempi più recenti la tecnica si è perfezionata: il Ministero dell’Economia manda i suoi esattori proprio mentre il soggetto sta facendo la doccia: egli cerca di scappare dalla finestra e così facendo piomba dentro un autocarro carico di catrame oleoso. Viene poi fatto rotolare sopra una o più tele dove lascia abbondanti immagini di sé e il gioco è fatto.


Per creare sculture il metodo più popolare era quello detto della c’era persa. Vediamo come si procedeva.

Il modello, che non era mai un professionista, ma sempre un pivello alle prime armi, come capiremo di seguito, veniva ricoperto di argilla, che poi si lasciava indurire lentamente, spiegando al modello che lui doveva stare assolutamente immobile, come ogni bravo modello che si rispetti. Quando l’argilla era indurita si faceva passare attraverso un foro posto sulla sommità il metallo fuso, inizialmente piombo, poi bronzo o ferro. Il cond … ehm, il modello non poteva più torcersi dal dolore essendo ormai immobilizzato, così l’opera riusciva perfettamente, il soggetto originario spariva per combustione totale e alla fine al suo posto c’era la statua bell’e pronta. Si chiama appunto metodo della c’era persa perché all’inizio il modello c’era e alla fine non c’era più.


La stampa.

Volendo ottenere molti esemplari dello stesso soggetto si provò dapprima con il burino. Si metteva un romanaccio de Trastevere in mezzo ad un gruppo di giovani e, tempo pochi minuti, tutti erano diventati burini come lui.

Ciò non serviva a nessuno, e pertanto si passò all’acquaforte. Si prendeva un blocco di ghiaccio (acqua forte, appunto, in quanto solida) e si lasciava il soggetto nudo sulla sua superficie, comprimendolo leggermente, per alcune ore. Alla fine il ghiaccio, parzialmente fuso, presentava un perfetto calco negativo, ma non si è mai capito come facessero a trarne delle copie, che comunque venivano malissimo e il cui disegno era sempre caratterizzato da un’inspiegabile freddezza.

Si pensò allora di incidere un materiale duro e poi, inchiostratolo, schiacciarci sopra un materiale morbido, qualcosa sarebbe venuto fuori. Le prime prove vennero fatte con del sapone ed un asciugamano, ma quando si bagnava la lastra di sapone il disegno si rovinava irrimediabilmente (in seguito si trovarono per questi materiali altri usi più opportuni, come il lancio della spugna dall’angolo del ring o il sapone bagnato messo per terra come scherzetto micidiale).

La soluzione geniale fu incidere una zucchina su tutta la superficie e poi farla rotolare, inchiostrata con burro scuro di Ornitorinco, sopra una lunga lasagna. Il sistema, chiamato offset dagli inglesi, notoriamente amanti delle zucchine, è sostanzialmente in uso ancor oggi.
 
CAPITOLO 9 Il commercio dell’arte nell’antichità


Va premesso che l’opera d’arte a quel tempo non interessava a nessuno. Quello delle statue a c’era persa, in mancanza di volontari un po’ scemi o schiavi da consumare senza problemi, era un sistema piuttosto costoso. Pertanto la statuaria rimaneva prerogativa dei governi, che, quando volevano far sparire qualcuno, non avevano bisogno di andare tanto per il sottile.

Gli affreschi nelle caverne, invece, interessavano a tutti, però all’epoca non esisteva ancora il denaro, perciò non nacque nessun commercio. In pratica, il più forte di tutti si prendeva la caverna meglio affrescata a suon di colpi di mazza. Da allora si usa dire Ho comprato casa, ma mi sono fatto una mazza così.

Con l’invenzione del denaro divenne infine più facile truffare il prossimo, e nacque il commercio dell’arte. Si apriva una bottega dove non si faceva nulla, però alle pareti erano appesi molti rettangolini colorati e la gente li guardava con stupore.

“Ma tu non lavori?”

“Io no, mi basta stare qui a godermi queste opere d’arte”

“E riesci a vivere?”

“Certo”

“Anch’io, voglio anch’io!”

Nacque così la speculazione sui rettangolini: quelli che li avevano dicevano che bastava vederli in casa per stare benissimo, gli altri si accalcavano per comprarne a loro volta, finché tutti ne furono saturi. A quel punto i rettangolini valevano moltissimo.

Poi, un giorno, un tale volle cederne uno per curarsi un dente.

“E chi la vuole sta roba qua?”

“Ma l’ho pagata un fottìo”

Tuttavia nessuno ne voleva sapere. Il tale andò allora a cercare chi gliel’aveva venduto, ma sulla serranda chiusa c’era solo un bigliettino “Trasferitomi alle Baleari”.

Questa storia, tuttavia, ne anticipa un’altra molto più tarda da vedere in seguito, non vorremmo che il lettore facesse confusione, pertanto sul punto per ora ci fermiamo qui.
 
CAPITOLO 10 Alcuni grandi pittori del Rinascimento europeo


Si può cominciare con il grandissimo Dürer, un bergamasco, come si intuisce dalla pronuncia, trasferitosi al nord per farsi togliere l’umlaut (invano, fu ancora peggio). Egli creò sia quadri che incisioni, e la sua attività era così frenetica che talora, confondendosi, spennellava la carta o incideva col bulino la tela, così poi doveva buttare via tutto. Le sue incisioni furono imitate da molti, specialmente in Italia, dove si tendeva ad ammorbidire un poco la sua durezza. Pertanto i falsi Dürer si riconoscono perché, per esempio, Caino non uccide Abele ma lo batte a scopone, Sansone si limita a ruttare (assai forte, peraltro) contro i Filistei e il Giudizio Universale viene ambientato in un’osteria di Trastevere.


Rembrandt ugualmente era pittore ed incisore. Di solito si faceva l’autoritratto e poi si stupiva di non avere clienti, ma a chi vuoi che interessi?, dico io. Il suo quadro più famoso si chiama La Lezione d’anatomia, lo dipinse per rallegrare le pareti di un orfanatrofio: rappresenta un tizio tutto impettito che estrae le budella (in realtà sono i nervi del braccio, ma lo schifo è uguale) da un poveretto più morto che vivo, mentre intorno sei o sette tizi dal volto assai preoccupato pensano “Fa’ che poi non tocchi proprio a me”.


Rubens invece amava dipingere delle rosee ciccione così grasse che quasi non ci stavano dentro i quadri. Nei lavori destinati alle chiese, le ciccione erano tutte nude: per questo motivo riusciva a vendere tantissimo ai preti, ma anche alle tribù di cannibali, che davanti a quelle tele venivano rapiti in estasi, poi guardavano le loro donne magrissime e tutte nere e si mettevano ad imprecare e a prenderle a calci. Per questo motivo Rubens non fu mai molto popolare presso le africane.


Goya, infine, era così disturbato che per ogni quadro tranquillo che faceva doveva dipingerne un altro dove ficcare tutti i mostri e i demoni che avevano cercato di rompergli la concentrazione. Divenne così famoso che tutti volevano vedere i suoi mostri: fu perciò costretto ad esporli in permanenza maschi o femmine che fossero. Da allora un’esposizione si chiama anche mostra, in chiaro omaggio al Maestro. Nell’incisione invece non era popolare, perché faceva troppi capricci.
 
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CAPITOLO 11 L’Ottocento


Se vi offrono i pasticcini e vi mettete a fare troppo i complimentosi, va a finire che se li magna qualcun altro, rovinandovi la giornata. Ugualmente successe che dopo il Rococò, una variante del barocco con glicemia spropositata, venne, opponendosi ad esso, un periodo che più triste non si può, il Romanticismo. Invece di floride donnone e cavalli elefantiaci dal membro trionfante si cominciarono a dipingere donnine piangenti e soldati feriti a morte, camere che era difficile immaginare più misere, prive di sole e di aria fresca, e paesaggi autunnali che veniva il magone a vederli. I pittori, per trarre ispirazione, si facevano fustigare mentre lavoravano, le modelle erano, manco a dirlo, vestitissime, per di più con miseri abitucoli; le tele, infine, per risparmiare, venivano ricavate cucendo assieme mutande usate e pannoloni, perciò avevano un tale odore che nacque allora, e non con gli impressionisti come comunemente si crede, l’uso di guardare i quadri da lontano con gli occhi socchiusi (all’inizio con il naso tappato). Per fuggire da tutto ciò si cominciò a rivisitare la storia, almeno così si sarebbe avuto qualche soggetto meno opprimente. Da questa astuta variante nacquero quadri meno tristanzuoli, per non dire atti a favorire il buonumore, quali La morte di Marat, La morte di Cesare. La morte di Socrate e il Massacro degli innocenti.


All’inizio dell’800 era appena stata inventata la litografia, che permise di moltiplicare le immagini sempre più facilmente. Prima, come sappiamo, si doveva porre il pigmento sopra un malcapitato e poi schiacciarlo contro il muro (in seguito sulla carta). Ora, invece, era il muro che veniva coperto di inchiostro, poi si comprimeva contro di esso il malcapitato, infine si ottenevano sul foglio delle immagini simili a ritratti. Intanto il poveretto litigava con il tipografo e lo prendeva a graffi e schiaffoni, da cui nacque il nome litograffia. Quando usciva del sangue la litograffia si diceva a colori, se il poveraccio si muoveva e il lavoro veniva sfocato si chiamava Non à tirer, perché veniva a tutti di tirarlo fuori della finestra e ciò era proibito.

Nell’800 nacque anche la caricatura, che consisteva nel disegnare personaggi con teste enormi, sproporzionate, e corpi assai piccoli: ciò faceva ridere tutti, fuorché i neonati, che invece si offendevano a morte.
 
CAPITOLO 12 I Macchiaioli


Dopo che fu inventata la fotografia i pittori cominciarono a suicidarsi: tutti i loro studi e le loro capacità non servivano più a nulla. Alcuni, esacerbati nell’animo da questa constatazione, si misero a tirare piangendo grumi di pigmento sulle tele già pronte, e fu così che nacque la corrente dei Macchiaioli. Costoro andavano all’aria aperta a lanciare pennelli e colori sulle loro tavolette, sortendone in tal modo dei quadri insoliti, dove ognuno poteva vederci quel che voleva, bastava pagasse il dovuto.

Il più noto tra essi era Fattori: egli usava recarsi dove stava per svolgersi una battaglia tra eserciti nemici, meglio se a cavallo, si appostava a qualche metro di distanza e traeva ispirazione dai fischi delle pallottole e dalle urla dei moribondi per creare graziosi quadretti idilliaci lanciando il pennello sulla tela da dietro un masso e a distanza di sicurezza.

Il successo dei Macchiaioli fu enorme, o quantomeno lo fu all’interno dei manicomi dove vennero rinchiusi. La borghesia comprava i loro quadri, poi li rivendeva ai proletari a prezzo maggiorato, creando una moda che dura ancora oggi.


L’Impressionismo


In Francia successe esattamente la stessa cosa, ma le capacità pubblicitarie dei francesi erano enormemente superiori, e l’Impressionismo, che era la stessa cosa dei Macchiaioli fatta con pigmenti di migliore qualità, ebbe un successo ben superiore.

Anche gli Impressionisti agivano all’aperto, ma stavano accuratamente lontani dalle pericolose battaglie: sedevano invece sulle tranquille rive dei fiumi e ogni tanto buttavano distrattamente qualche tubetto di colore sulla tela senza nemmeno guardare. Con la scusa di servire da modelle loro donne erano sempre nude: in realtà il pittore riceveva una mancia dai guardoni del posto proprio per questo servizio, e in cambio, come copertura, faceva finta di cedere una tela. Di questo le modelle non si accorsero mai, almeno finché le immagini non presero a girare su Facebook.

Per essere ammessi a far parte degli impressionisti il requisito più importante era che il cognome fosse composto di due sole sillabe: perciò Monet, Manet, Renoir, Degas, Sisley e Cassat erano considerati dei maestri, Cézanne e Pissarro, ritenuti troppo pignoli, rimasero confinati ai margini, Caillebotte fu espulso con disonore.
 
CAPITOLO 13 La Belle Epoque


La Belle Epoque fu un breve periodo in cui tutte le donnine di Francia potevano definirsi allegre, mentre tutte quelle dell’Italia desideravano solamente sposare uno ricco, oppure uno povero ma masochista, per potersi allora sfogare liberamente. L’epoca segnò profondamente la cultura dei due paesi, tanto che le cose appaiono ancor oggi esattamente come allora.

In quell’atmosfera torbida e libertina i pittori francesi compirono miracoli, nel senso che non si sa come facessero a trovare il tempo, e soprattutto le energie, per dipingere.

Toulouse Lautrec era il più scatenato. Essendo rimasto piccolino per un incidente aveva il naso perennemente all’altezza delle zone da cui partivano i messaggi ormonali delle modelle, nel suo caso pescate tra i peggiori bordelli di Parigi per risparmiare qualcosa. Dotato di forte volontà, si metteva comunque a dipingere, ma dopo poco non ce la faceva più a tenersi, buttava pennelli e colori per terra e si scagliava sulla mal- o ben capitata, dipende. In mancanza di fonti certe, ciò si deduce anche dal fatto che i suoi lavori appaiono sempre buttati là in fretta e regolarmente incompiuti.

Amedeo Modigliani era un italiano un po’ feticista e molto povero: divenne famoso perché si immaginava modelle con colli lunghissimi, in realtà faceva così perché era un fanatico delle gambe infinite, e secondo lui se il collo era spropositato anche le gambe lo sarebbero state, con sua somma goduria. Purtroppo la miseria gli faceva comprare tele troppo piccole, e quando arrivava alle gambe lo spazio era già finito. Questo fatto lo spinse al suicidio, anche se la vera spinta decisiva, ma dalla finestra, gliela diede la sua amante e modella dopo aver visto come l’aveva conciata nel quadro.

Gauguin, avendo gusti contrari a Modigliani, andò a cercarsi le modelle in Papuasia, dove sono tutte belle sode e anche un po’ tozze. Essendo totalmente daltonico dipingeva con i colori messi a caso: per dire, il crocefisso era così giallo che pareva morto di itterizia, gli alberi rossi da parer infestati di parassiti, le sue rocce rosa ricordavano la cameretta di una bimba. Soltanto le indigene venivano rappresentate con il colore reale della pelle, perché quello lo aveva visto troppe volte da vicino per potersi sbagliare.

Van Gogh capì subito il trucco, e si mise a fare prati azzurri, tetti verdi, strade gialle eccetera. Fu internato in un manicomio e dipinse i guardiani di un forte color viola, nel senso che li spennellò direttamente con quel colore.

Si dice che questi colori derivassero dalle sue allucinazioni per fame: infatti i suoi “Mangiatori di patate”, opera dipinta quando ancora si nutriva a sufficienza, hanno colori sobri, se non scuri, ed aderenti al reale. Dipinse anche un altro soggetto simile, i “Succhiatori di patata”, che però, per motivi intuitivi, non può proprio essere esposto in pubblico, e così nessuno lo conosce.

Tutti questi artisti produssero una definitiva rottura con la tradizione, per la quale il pittore doveva limitarsi a dipingere la modella sulla tela, e non a sbatterla sul divano. Ciò provocò una rivolta dei modelli maschi, cui peraltro talvolta capitavano avventure non gradite, i quali difficilmente ormai trovavano lavoro. Sequestrarono tutte le modelle e proclamarono uno sciopero a tempo indeterminato, ma furono presto sconfitti dall’ingegnosità di un russo che li fregò definitivamente (v. nel proseguio).
 
CAPITOLO 14 La pittura astratta


La pittura astratta nasce con un pittore russo che amava assai i dischi de La Voce Del Padrone, quelli con il cane che ascolta un disco da quella specie di trombone, e si faceva perciò chiamare Can-dischi (oggi il progresso della tecnica ha fatto sì che sono i cani stessi a incidersi direttamente le registrazioni).

Can-dischi usava ascoltare i suoi cantanti preferiti facendo yoga, di solito a testa in giù. In quella posizione poteva anche guardare sotto le gonne delle modelle, il che era proprio un bel vedere, e anche un bel sedere. Ma un giorno, mentre stava in quella precaria postura, gli fu messo uno specchio davanti alla faccia, e il Nostro si accorse che l’immagine, a differenza di quella dei quadri che da lì apparivano tutti rovesci, pareva proprio diritta.

La cosa lo stupì molto. Fu allora che sentenziò il famoso Teorema di Can-dischi: un corpo immerso nell’acqua si salva, basta che non sia messo a testa in giù. Detto fatto, immerse tutti i suoi lavori in una vasca piena, dove i colori si mischiarono e dopo un po’ non si riconobbe più nulla. Era nata la pittura astratta.

La cosa fu molto osteggiata dalle sue modelle, che rischiavano di rimanere disoccupate. Pertanto, mosso a pietà, il Nostro continuò ad usarle mettendosele davanti a testa in giù e modificando un poco il loro compito; per esempio, se prima dovevano stare ferme ma potevano parlare ogni tanto, ora parlare era divenuto impossibile, mentre qualche movimento era, al contrario, gradito.

Per siffatto motivo Can-dischi ebbe molti imitatori - e anche molte modelle. Il più furbo di essi fu Klee (un tizio assolutamente anonimo, tanto che quando lo vedevano tutti dicevano “Ch’l’è ?2, e così il soprannome gli rimase attaccato – il ch fu poi trasformato in k durante il Nazismo). Ch’l’è/Klee, che insegnava all’asilo, prese a sfruttare per sé il lavoro dei bimbetti: loro gli dipingevano i quadri, poi lui li firmava tutti, sceglieva i migliori, li teneva per sé, e vendeva i peggiori. Pertanto ebbe una produzione enorme, divenne ricco, la fame gli passò e la fama aumentò a dismisura. Naturalmente molti cercarono di imitarlo, finché un certo Du Buffet non rovesciò l’impianto della cosa e si mise lui stesso a creare quadri che poi attribuiva ai bambini. In tal modo la sua fama diminuì e la fame aumentò, come dimostra anche il nome di Du Buffet.

L’impiego della mano d’opera infantile è una grande vergogna della pittura moderna, culminata recentemente nell’opera di un innominabile americano che ruba i palloncini ai bambini e li vende a peso d’oro, anzi, di più, perché a ben vedere non pesano quasi nulla.
 

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