baleng
Per i tuoi meriti dovrai sempre chiedere scusa
Parto da una osservazione che mi è "scappata" nel 3d di Jenkins, che vorrà scusarmi ovunque egli sia. Questa:
Potrei motivarla. La superficie del quadro è una materia che si oppone alla profondità del nostro sguardo. Il pittore può reagire considerandola una porta verso l'idea, verso lo spirituale (che non significa affatto tridimensionalità) oppure solo un supporto per un accumulo di materia (che non significa che il pittore non abbia una visione). Il tutto a prescindere dal livello, dalla qualità dell'opera e dell'autore.
Si è visto abbastanza spesso, purtroppo, che il secondo caso porta con sé la tragedia del materialismo, perché il pittore a un certo punto si dice: io vivo solo per fare questi oggetti pieni di colore, anzi, di pigmento, ciò non porta a nulla, la mia vita è sprecata ecc.
Perché a un certo punto ognuno fa un bilancio, e deve trovare un senso per la sua vita. Se il pittore si è legato eccessivamente alla materia, se ha rinunciato a progettare prima con idee, a cercare un contatto con lo spirituale, ebbene, la materia ti trascina giù, e un senso di disperazione può entrare in chi ha dato tutta la vita all'arte, ma percepisce oscuramente di aver mancato proprio l'incontro più importante.
Il suicidio di Nicolas de Stael, (o quello di Chaim Soutine, o di Mark Rothko) secondo me ha proprio questa origine. Potrei aggiungere Tobey e Tancredi, se si vuole. Si potrebbe obiettare che almeno Stael e Rothko a un certo punto passarono da un uso greve di pigmento ad una pittura assai "liquida", ma il punto non è la quantità di materia, bensì l'attenzione esclusiva che per essa ha il pittore, tanta o poca che sia. E i più sensibili (non certo i pittori della domenica, o, per dire, gli Emblema, i Biggi, o certi rappresentanti dell'arte povera) sono più a rischio.
Ripeto, la questione non è che il pittore debba "rappresentare" qualcosa, non è quanta materia usa per dipingere. La questione è se il suo operare si perde nella materia pittorica o se è in grado di fare un passo indietro, di ricordarsi che altro c'è oltre il gesto del dipingere.
(più tecnicamente parlando, si potrebbe dire che creando questo genere di pittura il pittore non usa più l'occhio come tale, con vivacità, con mobilità, ma lo lascia immobilizzarsi quasi in modo da "non vedere": però capisco bene che è un discorso difficile, almeno per chi non abbia confidenza con il concetto reichiano di "blocco" muscolare-espressivo).
Congdon
de Stael
Rothko
Soutine
William Congdon
per me perfetto esempio di come si possa essere disperatamente materialisti pur professando fede cattolica.
Detto dall'altro lato, il cattolicesimo di per sé non è affatto una religione con forza spirituale, ma già ben inserita in un pensiero materialistico (nella sostanza), cioè polenta materialistica con sopra uno spruzzo di parmigiano spirituale.
Perché non si vede il rapporto di coerenza tra spiritualità nell'arte e spiritualità nella vita. E, come notava anche Sgarbi l'altra sera, sopra i fedeli non c'è più uno spazio per Dio, ma travi e materia greve.
Potrei motivarla. La superficie del quadro è una materia che si oppone alla profondità del nostro sguardo. Il pittore può reagire considerandola una porta verso l'idea, verso lo spirituale (che non significa affatto tridimensionalità) oppure solo un supporto per un accumulo di materia (che non significa che il pittore non abbia una visione). Il tutto a prescindere dal livello, dalla qualità dell'opera e dell'autore.
Si è visto abbastanza spesso, purtroppo, che il secondo caso porta con sé la tragedia del materialismo, perché il pittore a un certo punto si dice: io vivo solo per fare questi oggetti pieni di colore, anzi, di pigmento, ciò non porta a nulla, la mia vita è sprecata ecc.
Perché a un certo punto ognuno fa un bilancio, e deve trovare un senso per la sua vita. Se il pittore si è legato eccessivamente alla materia, se ha rinunciato a progettare prima con idee, a cercare un contatto con lo spirituale, ebbene, la materia ti trascina giù, e un senso di disperazione può entrare in chi ha dato tutta la vita all'arte, ma percepisce oscuramente di aver mancato proprio l'incontro più importante.
Il suicidio di Nicolas de Stael, (o quello di Chaim Soutine, o di Mark Rothko) secondo me ha proprio questa origine. Potrei aggiungere Tobey e Tancredi, se si vuole. Si potrebbe obiettare che almeno Stael e Rothko a un certo punto passarono da un uso greve di pigmento ad una pittura assai "liquida", ma il punto non è la quantità di materia, bensì l'attenzione esclusiva che per essa ha il pittore, tanta o poca che sia. E i più sensibili (non certo i pittori della domenica, o, per dire, gli Emblema, i Biggi, o certi rappresentanti dell'arte povera) sono più a rischio.
Ripeto, la questione non è che il pittore debba "rappresentare" qualcosa, non è quanta materia usa per dipingere. La questione è se il suo operare si perde nella materia pittorica o se è in grado di fare un passo indietro, di ricordarsi che altro c'è oltre il gesto del dipingere.
(più tecnicamente parlando, si potrebbe dire che creando questo genere di pittura il pittore non usa più l'occhio come tale, con vivacità, con mobilità, ma lo lascia immobilizzarsi quasi in modo da "non vedere": però capisco bene che è un discorso difficile, almeno per chi non abbia confidenza con il concetto reichiano di "blocco" muscolare-espressivo).
Congdon
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de Stael
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Rothko
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Soutine
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