Da mercati 24 di pochi mesi fa......
Unicredit, apocalisse alle porte
Il salvataggio di
Banca Etruria, Banca delle Marche, Popolare di Ferrara e Carichieti che ha distrutto i risparmi di migliaia di ignari risparmiatori? Una passeggiata. L’
aumento di capitale di Banca Popolare di Vicenza che ha distrutto 6 miliardi di valore in un anno? Niente di speciale. Siamo impazziti? Proprio noi che da sempre segnaliamo, con toni anche aspri, le criticità e le fragilità del sistema bancario italiano adesso diciamo che le più gravi crisi bancarie degli ultimi 30 anni non sono state così gravi.
In effetti è così, se le confrontiamo con quello che sta succedendo in Unicredit. Questo perché noi di Mercati24 non abbiamo paura di niente e di nessuno, quando dobbiamo parlare, parliamo. E questo giusto per rispondere a chi, nei commenti a questo articolo sulle magagne di
Banca Popolare di Bari ci aveva accusato di essere teneri con le grandi banche e feroci con le piccole. Siamo feroci con tutti perché il nostro obiettivo è da sempre quello di difendere i diritti del trader o del risparmiatore.
Ma perché la situazione di Unicredit è così grave?
Unicredit è la seconda banca italiana ed è sull’orlo dell’apocalisse. Letteralmente. Giusto per riassumere la situazione, diciamo subito che per rimettere in sesto Unicredit servirebbero almeno 9 miliardi di euro. Il problema è che nessuno ha 9 miliardi di euro da buttare dentro Unicredit, anche perché sicuramente non sono sufficienti a mettere in salvo la banca in maniera definitiva. Quindi chi si dovesse
sacrificare, mettere una mano al portafoglio e un’altra sul cuore, si troverebbe a dover ripetere l’operazione, forse già nel giro di un anno.
Ma andiamo con ordine e proviamo a raccontare la storia di questa banca:
una storia italiana, in tutti i sensi, che potrebbe avere un finale drammatico per tutto il Paese e potrebbe anche esporre ad un
salvataggio bancariomilioni di italiani.
La gestione Profumo
Possiamo dire che Unicredit ha imboccato la strada dell’apocalisse fin dall’inizio, fin da quando l’allora CEO forgiò la Banca aggregando realtà italiane, a partire dal Credito Italiano e da Banca di Roma, e tedesche. La banca crebbe velocemente, è inutile ricordare tutte le aggregazioni e le acquisizioni, e Profumo divenne l’alfiere della finanza Ulivista, politicamente schierata senza pudori. Il gigante, però, aveva i piedi di argilla.
I dipendenti erano (e sono) troppi, mal organizzati, pagati in maniera eccessiva e con una bizzarra organizzazione del lavoro. Pensiamo ad un esercito composto da generali e colonelli, dove per caso di tanto in tanto si trova un soldato semplice che può andare in trincea a fare la guerra. Avevamo raccontato la
storia dell’esercito di generali in questo articolo e ovviamente ci siamo dovuti sorbire la solita sequela di attacchi e offese. Ma ci siamo abituati e ormai quasi non ci facciamo più caso.
In questo contesto, il management spinse in modo forsennato per aumentare la redditività della Banca con metodi che possiamo definire al limite della legalità e che, in alcuni casi sanzionati dalla magistratura, questo limite lo hanno più che abbondantemente superato. Giusto per fare un esempio, pensiamo a Divania, florida azienda barese, che venne coinvolta da Unicredit in operazioni con derivati estremamente opache tanto che il tribunale civile di Bari ha appena condannato Unicredit a risarcire Divania con 12 milioni di euro. Peccato però che Divania nel frattempo è fallita con la conseguente distruzione di moltissimi posti di lavoro, distruzione ancora più dolorosa tenendo conto dello stato di prostrazione economica dell’area barese.
In ogni caso la gestione Profumo terminò non tanto per la sua
malagestione ma perché si trasformò in una specie di lacchè dell’allora dittatore libico Gheddafi che entrò in forza nel capitale della banca. Fondazioni come CRT o Carimonte e i soci tedeschi mal digerivano infatti che per garantire il suo personale potere Profumo si era messo direttamente a 90 gradi, obbediente alle richieste del feroce dittatore libico. In effetti, Profumo poteva fare quello che voleva, ma doveva evitare di umiliare in questo modo la seconda banca italiana.
Il dopo Profumo
Dopo la defenestrazione di Profumo la situazione non migliorò di molto: non si è mai avuto il coraggio di incidere in una situazione di sprechi faraonici, sovrapposizioni di filiali frutto delle aggregazioni, dipendenti costosi e poco efficienti (la parola lavoratori, per questi dipendenti, sarebbe eccessiva).
E poi arrivò la crisi.
Una banca ben gestita, con i conti a posto, un equilibrio di gestione e un costo del lavoro adeguato, avrebbe potuto superare la crisi con qualche doloretto ma senza danni. Unicredit non era in queste condizioni. Ma per i primi anni, nascondere la polvere sotto il tappeto nel più puro stile italiano, fu semplice. I clienti fallivano (alcuni come nel caso di Divania, vennero fatti fallire per derivati capestro proprio dalla stessa Unicredit, ma non sottilizziamo) o iniziavano a non restituire i prestiti. Le sofferenze quindi, salivano in maniera esponenziale e oggi siamo arrivati alla somma mostruosa di 79 miliardi di crediti in sofferenza.
Prima di procedere, fermiamoci.
79 miliardi di sofferenze, 79 miliardi prestati da Unicredit che molto probabilmente saranno recuperati solo in piccola parte. Anche a voler immaginare che si riesca a recuperarne il 20%, significa per Unicredit una perdita secca di più di 63 miliardi. E la nostra ipotesi di un recupero del 20% del valore del credito, è estremamente ottimistica: inviatiamo il lettore a cercare da solo a quanto sono stati valutati, ad esempio, i crediti di Banca Etruria. E poi ci dicono sempre che siamo cattivi e pessimisti.
E’ vero che ci sono stati accantonamenti e che gli utili generati dall’attività bancaria sono stati utilizzati in parte per coprire questi crediti. Ma è come voler svuotare l’oceano utilizzando un cucchiaino, bucato per di più.
L’apocalisse di Unicredit
In problema è che gli utili delle banche italiane sono in picchiata. La colpa è di Draghi che ha abbassato fino ad annullarli i tassi di interesse ma questo ha distrutto anche il margine di intermediazione delle banche. A questo punto Unicredit ha dovuto fare i conti con la realtà. Il management ha deciso di dare un calcio nel didietro dell’attuale Amministratore Delegato Ghizzoni e di provare a cambiare rotta. Ma di cose da fare ce ne sono poche. Quello che servirebbe subito sono 9 miliardi di euro. Senza questi soldi la strada di Unicredit si fa difficile. Un aumento di capitale da 9 miliardi di euro avrebbe però un effetto devastante: diluirebbe il peso delle Fondazioni Bancarie. Di solito su Mercati24 non ci stracceremmo le vesti per un evento del genere, abbiamo sempre criticato Amato per aver creato le fondazioni e le vedremmo volentieri abolite con l’ingentissimo patrimonio gestito adeso con metodi più che clientelari, devoluto al fondo di ammortamento del debito pubblico.
Ma nel caso di Unicredit, l’aumento di capitale da 9 miliardi avrebbe l’effetto di diluire la quota azionaria delle fondazioni per rafforzare il primo azionista, il fondo Aabar degli Emirati Arabi Uniti. O il quarto azionista, il fondo sovrano libico che malgrado la guerra civile che infuria in Libia ha trasferito la sede a Malta e continua i suoi oscuri traffici sui mercati finanziari oltre che a finanziare milizie di ogni tipo in patria. Insomma, non proprio una bella situazione. Le fondazioni si oppongono, dunque all’aumento, forse potrebbero essere disposte a sottoscrivere pro quota un aumento di capitale da appena 5 miliardi. Ma le sofferenze sono mostruose, un aumento da 5 miliardi non servirebbe a molto, al massimo permeterebbe alla banca di continuare a galleggiare per qualche mese. Poi saremmo punto e a capo. Loro non hanno soldi, i fondi libico o degli Emirati Arabi sì e si prenderebbero la banca per meno,
molto meno di un piatto di lenticchie. Cosa ne farebbero poi questi moderni predoni non è dato sapere.
La soluzione che qualcuno ha proposto e la vendita dei gioielli di famiglia, una serie di banche ad alta redditività che operano in centro e est Europa. Un’idea che ha una serie di controindicazioni. In primo luogo, non si tratterebbe di una vendita ma di una svendita a prezzi così bassi da non risolvere assolutamente il problema. Unicredit in effetti ci ha provato, cedendo la sua controllata Ucraina. Risultato? Ha dovuto mettere nel bilancio 600 milioni di euro di perdite dovute anche al crollo della valuta locale. Conti alla mano, la cessione delle controllate europee di Unicredit potrebbe, se le cose vanno bene, lasciare invariata la situazione patrimoniale. Ma siccome siamo realistici, diciamo che molto probabilmente se Unicredit si mette a vendere per un piatto di lenticchie o meno queste banche, la situazione peggiorerebbe.
E se intervenisse Atlante? Ormai è una figura quasi mitologica del panorama bancario italiano, Atlante dovrebbe salvare proprio tutti. In effetti, diciamo subito che Atlante ha già salvato Unicredit. Lo ha fatto quando ha sottoscritto interamente il capitale della Banca Popolare di Vicenza, evitando quindi che a farlo fosse Unicredit che aveva garantito l’aumento stesso. E se Unicredit avesse dovuto sborsare più di un miliardo di euro, avrebbe dovuto deliberare il giorno dopo a sua volta un aumento di capitale.
Atlante potrebbe fare qualcosa per Unicredit? Forse, al massimo potrebbe rilevare qualche credito deteriorato a prezzi di realizzo ma non potrebbe togliere le castagne dal fuoco a tutti mettendo direttamente tutti i soldi necessari per l’aumento. Perché Atlante non può sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit? Semplicemente perché non ha i soldi. Se Atlante volesse sottoscrivere l’aumento, dovrebbe andare prima sul mercato a cercare altri soldi. Ci sono banche piene di liquidità che potrebbero sottoscrivere altre quote di Atlante? No, al massimo potrebbe essere la famigerata Cassa Depositi e Prestiti, cioè il custode del risparmio postale degli italiani.
Insomma, se alla fine la soluzione sarà quella di Atlante, a tenere aperto per qualche altro mese la seconda banca italiana saranno i risparmi delle vecchiette (e meno male che sono un sacco di soldi grazie al generossissimo sistema pensionistico retributivo). Una forma mascherata, all’italiana, di nazionalizzazione, che servirebbe a tenere aperto il carrozzone e a continuare a distribuire privilegi e prebende varie a dirigenti e dipendendi di Unicredit.
La soluzione vera, l’unica definitiva e sostenibile,
sarebbe l’acquisto dell’intera banca da parte di un cavaliere bianco con un patrimonio solido e capacità gestionali, oltre che dotato del pugno di ferro necessario per riformare la banca e ridurre i costi. Questo cavaliere bianco oggi non esiste, almeno in Italia.
Si finirà con l’
Apocalisse, è questa la fine più probabile di questa triste storia. E tutti i giornali, ovviamente, daranno la
colpa ai tedeschi, alla Merkel (o alla
culona, a seconda del livello culturale), agli Illuminati, alla Massoneria e a chissà quale altro complotto. Gli italiani si meritano quello che gli sta per capitare, su questo non ci sono dubbi.
Quei pochi italiani che hanno ancora la testa sulle spalle e che pensano con la loro testa dovrebbero cominciare a mettere il proprio patrimonio ai ripari. Niente obbligazioni Unicredit in portafoglio perché il bail in potrebbe persino arrivare a colpire le
obbligazioni senior. Azioni di Unicredit? Solo a fine speculativo, anzi meglio speculare su queste azioni con strumenti derivati piuttosto che acquistarle direttamente (e ognuno
specula in Borsa nella direzione che crede).
E poi ci sono i conti correnti. Chi ha più di 100.000 euro depositati su un conto, farebbe bene a cercarsi una sistemazione più sicura per il suo denaro. Il bail in colpisce i conti superiori a 100.000 euro, quindi occhi aperti.
Un’alba rossa si sta per alzare su Unicredit, un’alba tinta dal sangue dei risparmiatori colpiti ferocemente da quello che potrebbe essere il più grande bail in della storia europea.
Chi può, si salvi.