"Lavoro in
oncologia ed ematologia, reparti abituati a confrontarsi con la sofferenza e la morte.
Ma in quei giorni ho avuto l'impressione ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima.
Faceva paura, talmente tanti erano i malati in quei lettini di fortuna.
Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri pazienti, io mi guardavo intorno, incrociavo gli occhi dei colleghi.
Avevamo la percezione di non farcela".
È in quello stato di impotenza che sboccia l'idea di cambiare approccio.
"Nelle riunioni cercavamo sempre di aumentare i posti nelle emergenze e nelle rianimazioni,
ma poi abbiamo capito che questa è una infezione virale che ti lascia del tempo per intervenire.
Non è un ictus, un infarto o un arresto cardiaco che colpiscono in pochi minuti o in pochi secondi:
ti lascia una settimana o anche 10-15 giorni".
C’è quindi spazio per agire prima che il quadro clinico si aggravi.
Il ragionamento è logico: se il paziente in ospedale viene sottoposto a un trattamento basato su un antivirale
e sull'
idrossiclorochina (un antimalarico), tutti farmaci che si assumono per via orale,
cosa ci impedisce di iniziare la cura all'insorgere di primi sintomi?
"Ci siamo detti: cerchiamo di andare nelle case, non solo per la semplice visita ai malati,
ma con tutto l’occorrente per curare la malattia tempestivamente".
Così il 1° marzo Cavanna e un infermiere iniziano il loro tour a domicilio.
Sono spedizioni diverse da quelle realizzate da altre Unità speciali (Usca) in Italia.
Non vanno solo a visitare il paziente a casa o a fare il tampone, sono lì per curarlo come se fossero in ospedale.
Con loro portano i Dpi, un termometro, i palmari per realizzare l’ecografia sul posto, un saturimetro, il tampone e un kit di farmaci già pronti all'uso.
Compresa l’idrossiclorochina, già usata contro Sars e malaria.
"Se l'ecografia toracica è dubbia e mostra polmoniti interstiziali, dopo aver chiesto il consenso del paziente,
consegniamo i farmaci e gli diciamo: 'Lei inizi la terapia, anche in attesa del risultato del tampone'.
Alle persone che presentano polmoniti severe lasciamo anche l'ossigeno.
Poi ogni giorno i pazienti ci comunicano i dati della propria saturazione, in modo da poterli monitorare dall'ospedale".
I primi esperimenti Cavanna li porta avanti (quasi) da solo.
Poi dal 15 marzo l'
Ausl piacentina si organizza e mette in pieni alcune Usca dedicate allo scopo.
"La prima fu una paziente oncologica, una signora che vive da sola", ricorda Cavanna.
"Era entrata al pronto soccorso con la febbre, la tac aveva evidenziato una polmonite interstiziale,
ma lei aveva atteso lì per dieci ore. Poi aveva firmato la cartella, chiamato un taxi e si era fatta portare indietro.
Il giorno dopo mi ha chiamato dicendomi: 'Io sono a qui, da sola, sto male. O mi venite a visitare a casa o io muoio'.
Lei cosa avrebbe fatto?". Domanda retorica.
"Il dramma di questa infezione è che ha abituato gli italiani a morire da soli.
Veder arrivare due sanitari a portare dei farmaci, che lasciano un numero di telefono da chiamare,
un saturimetro e ti spiegano cosa fare, per loro era già una mezza salvezza.
A me questo ha messo in crisi, perché i malati in un Paese evoluto
non dovrebbero mai avere la percezione di sentirsi abbandonati".
In Italia, purtroppo, è andata così.
La cura "precoce" e "a domicilio" si rivela da subito molto efficace.
"Le persone non peggiorano, guariscono prima e soprattutto non muoiono".
Presto i risultati degli studi sul "
metodo Piacenza" saranno pubblicati su una rivista per dare informazioni alla comunità scientifica.
Ma le analisi che a fine aprile Cavanna anticipa sono straordinarie:
"Su 250 pazienti curati a domicilio, le posso dire che nessuno di loro è morto. Né a casa né in ospedale.
Di questi, è stato ricoverato meno del 5% e tutti sono tornati a casa, di cui la metà entro pochi giorni".
Si tratta di dati "veri", "rilevanti" e "rincuoranti", su cui occorrerà fare delle riflessioni.
"Per tanto tempo si è discusso di aumentare i posti in terapia intensiva, una strategia criticabile.
Ma quando un malato va in rianimazione lo dobbiamo vedere come il fallimento della cura.
Dovrebbe essere l'ultima spiaggia: la malattia virale va aggredita precocemente".
Così si può sconfiggere il Sars-Cov-2, "ridurre gli accessi al pronto soccorso"
e "bloccare la storia naturale" del morbo.
Evitando un fiume di vittime.