Le organizzazioni criminali italiane, e in particolare la ‘Ndrangheta, sono in cima alla lista delle preoccupazioni del governo elvetico. Secondo alcuni, però, la Svizzera è poco attrezzata per lottare contro le mafie.
«Il pericolo maggiore è costituito dalla ‘Ndrangheta». Nel comunicare a fine marzo 2012 le priorità della strategia di lotta alla criminalità per il periodo 2012-2015 il governo svizzero non poteva essere più chiaro. Anche se non sono stati registrati gravi fatti di sangue come quello accaduto a Duisburg nel 2007 (6 calabresi uccisi), le ‘Ndrine – le cosche – sono ormai bene impiantate anche nella Confederazione.
Per tutti gli addetti ai lavori, il campanello d’allarme tirato dal Consiglio federale non rappresenta una novità. Da anni, infatti, magistrati, poliziotti e qualche politico sottolineano che le organizzazioni mafiose italiane stanno rafforzando la loro presenza in Svizzera. Una vera e propria presenza fisica, che si è accentuata con la crescente pressione a cui sono confrontate le mafie in Italia e con la ‘conquista’ del nord, attestata dalla recente ondata d’arresti in Lombardia.
Numerose prove ed indizi
Prove e indizi di questa presenza non mancano. Nel maggio 2011, ad esempio, un pericoloso ‘ndranghetista, che viveva indisturbato a Frauenfeld, nel canton Turgovia, è stato arrestato a Genova. Appena un paio di mesi prima, al termine dell’operazione Crimine 2, la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria aveva messo in evidenza l’internazionalità delle cosche calabresi, con propaggini importanti in Germania e anche in Svizzera, in particolare a Frauenfeld e a Zurigo. «In queste località – scriveva il giudice per le indagini preliminari – è stato replicato il modello strutturale della ‘Ndrangheta calabrese».
Le intercettazioni ritrascritte negli atti dell’indagine non lasciano spazio a dubbi. Ad esempio, in una conversazione dove si accenna a un sedicente ‘Ntoni dalla Svizzera’, che ha chiesto al capocosca Giuseppe Antonio Primerano, arrestato in Italia nel luglio 2010, di poter esercitare il proprio dominio anche in Germania oltre che nella Confederazione. Oppure quando Domenico Oppedisano – il capo dei capi arrestato anche lui nel luglio 2010 – parla di una «fideiussione di 20 milioni» da «scontare in una banca in Svizzera».
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Riciclaggio, traffici e investimenti
La Svizzera è particolarmente apprezzata dai mafiosi per la «forza della sua economia e della sua piazza finanziaria, nonché per le sue infrastrutture», indica il Ministero pubblico della Confederazione (MPC).
Una sorta di piattaforma logistica, dove ripulire denaro, utilizzando non solo gli istituti bancari e fiduciari, ma anche investendolo, ad esempio nel settore immobiliare, come denunciato recentemente durante la sesta conferenza sul riciclaggio (vedi articolo correlato).
Oppure un luogo dove impiantare traffici illeciti o cercare rifugio. Nel 2010, «molte persone appartenenti ad organizzazioni criminali italiane, tra cui la ‘Ndrangheta, sono state estradate nel loro paese d’origine, dove erano già state condannate a lunghe pene detentive», scrive nel suo rapporto annuale la Polizia federale. «Alcune di loro avevano compiuto reati anche in Svizzera, soprattutto trafficando stupefacenti. Altre invece avevano svolto per lunghi periodi un lavoro normale in Svizzera senza dare nell’occhio».
Meglio tardi che mai
Già 25 anni fa, il giudice Giovanni Falcone aveva avvertito i suoi omologhi svizzeri di fare attenzione, poiché dopo i soldi della mafia sarebbero arrivati anche i mafiosi. Non ci si è svegliati un po’ tardi? Il Ministero pubblico della Confederazione si limita ad osservare che è dal 1994, con l’introduzione nel codice penale del reato di partecipazione o sostegno a un’organizzazione criminale, che le azioni penali vengono coordinate a livello federale. E da ormai 10 anni la competenza della procedura è della Confederazione e quindi dell’MPC.
«Meglio tardi che mai», commenta dal canto suo Nicolas Giannakopoulos, fondatore dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata di Ginevra. «Finalmente si è deciso di prendere il toro per le corna. Bisogna ora vedere come affrontare il problema. Più si tergiversa, più è difficile risalire una pista. Il solo mezzo sarebbe di collaborare in modo molto più stretto con gli italiani, poiché tutto parte dall’Italia e ritorna in Italia».
Mezzi sufficienti?
Un primo passo in questo senso è stata la nomina di un coordinatore per l’azione antimafia, il procuratore federale Pierluigi Pasi, basato a Lugano. «Disponiamo di mezzi sufficienti», indica l’MPC, sottolineando che la creazione di questa nuova funzione «è un esempio concreto» che mostra la volontà di ottimizzazione delle risorse e di coordinare le indagini con le autorità inquirenti italiane. Una collaborazione definita «eccellente» dal procuratore nazionale antimafia italiano Pietro Grasso in un’intervista alla Tribune de Genève.
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La difficoltà è soprattutto un’altra, sottolineano. Le inchieste, di per sé già molto complesse quando vi sono di mezzo organizzazioni estremamente impermeabili come la ‘Ndrangheta, sono rese ancora più difficili dalle restrizioni imposte per l’uso di certi metodi d’indagine. Come le intercettazioni telefoniche, i pedinamenti o la penetrazioni in sistemi informatici. Potere usare questi metodi solo dopo aver già raccolto prove serve a poco.