Tratto dalla Prefazione ... di Giuseppe Abbinante
per chi me lo ha chiesto in questi giorni ....
Il libro di Eugenio Benetazzo fa riflettere. In realtà lancia un gri-do di allarme ai risparmiatori e più in generale ai cittadini italiani, che spero venga raccolto prima ancora che da loro dalle istituzioni che li rappresentano. Sono solo queste ultime, infatti, le uniche in-sieme ai soggetti collettivi organizzati, con in testa imprese e sinda-cati in grado di invertire la probabile rotta sulla quale ci stiamo diri-gendo.
Si fa fatica a non essere d’accordo su quanto scritto e analizzato, nelle pagine che seguono, sul declino post industriale che stiamo vi-vendo in questi anni e sulla continua destrutturazione del nostro si-stema economico. In più si intravede una cattiva prospettiva di un futuro che sembra avvitato su stesso.
Un’economia avvitata su stessa. Ma cerchiamo di meglio ca-pire i passaggi di questa catena. Le imprese chiedono flessibilità, questa eccessiva elasticità nei rapporti di lavoro, in assenza di un sostegno pubblico che può spendere in sussidi e in formazione, si trasforma in precarietà. Quest’ultima a sua volta a effetti sui redditi prima e sui consumi dopo. Il risultato finale è una domanda interna sempre più debole, che in termini meno cattedratici vuol dire che tutti comprano meno macchine, vestiti, vacanze e addirittura si è scoperta negli ultimi mesi una contrazione dei consumi alimentari. A questo punto ci può salvare solo la domanda estera, cioè le esporta-zioni? Niente affatto, anzi proprio il settore manifatturiero è stato quello più esposto alla concorrenza internazionale con una flessione delle quote mercato e dei posti di lavoro che ha toccato in particolar modo il tessile, il calzaturiero, la manifattura, l’industria pesante. Le ragione di tutto ciò, e fin troppo nota a tutti, ed è la perdita di competività, che ancora una volta tradotto nel linguaggio corrente, vuol dire che le nostre merci sono troppo care rispetto ai prodotti che arrivano dal sud est asiatico e in europa.
A questo punto la palla passa alle imprese che investono meno, chiedendo contestualmente una maggiore flessibilità salariale e il ciclo riprende.
Quando il futuro vuol dire fiducia. Ma fin qui io credo che tutto sia noto a tutti, e il libro di Benetazzo, serve a ricordarlo. Il punto è invece, quando si avvertiranno gli effetti più negativi? e che cosa possiamo ancora salvare? come si arresta, con costi contenuti questo processo?
La prima domanda io credo che sia la più difficile alla quale ri-spondere, nonostante sono molti gli interrogativi posti anche ai mi-gliori economisti di casa nostra. I diversi anni passati in un ufficio studi economico mi hanno portato a pensare, che nulla è possibile di economicamente distruttivo finchè regna la fiducia dei singoli ope-ratori che compongono il sistema. La fiducia per il futuro e per il presente è la barriera più importante alla crisi generalizzata. Oggi questa componente sicuramente non brilla, ma certamente nessuno può affermare con ragionevole certezza che siamo su soglie o livelli di non ritorno. Si continua a spendere e a espandere i debiti. Come ha velatamente ricordato Benetazzo nel corso delle pagine che se-guono pochi infatti sanno che le banconote che conserviamo o che depositiamo presso i principali istituti di credito sono soltanto in parte coperte da un quantitativo di oro contenuti nei forzieri delle Banche Centrali Europee, il resto è mosso a fiducia. Tutti però, e ogni giorno continuiamo a scambiare denaro metallico e cartaceo perché abbiamo fiducia che quel contro valore esiste ed è rappre-sentativo di qualcosa di reale.
Certo stiamo assistendo a qualcosa di epocale. A fronte di un passato dove le imprese erano unità in deficit di denaro e le famiglie in surplus, il sistema va orientandosi verso un deficit anche di parte del secondo aggregato. Cosi interpreto l’ascesa dei mutui o del cre-dito al consumo.