"Ciascuno è schiavo di ciò che l'ha vinto"
[San Cassiano. Istituzioni cenobitiche. 400 d.C. circa medi]
Chi non ha conosciuto per esperienza la verità di queste parole?
Se non sappiamo praticare la rinuncia elementare, piccola, insignificante, come possiamo pretendere di essere liberi?
Se non sappiamo controllare l'istinto anche per una piccola quantità di cibo, come potremo mai disciplinare i bisogni?
Se non siamo in grado di controllare la mente di fronte ad una tentazione, anche piccola, come potremo mai disciplinarla?
La voracità del cibo è la voracità sessuale. Entrambe affondano le radici nello stesso terreno.
Cibo e sessualità sono relazione. Con il proprio corpo e con gli altri.
Senza controllo è possibile la deformazione, la deviazione del rapporto. Chi perde il controllo assolutizza sé stesso. Il proprio istinto. La propria pulsione. E si chiude. Vede solo sé stesso. Non è più in relazione.
Cibo e sessualità, oralità ed eros vengono ridotte alla genitalità o all'ingordigia con la conseguenza che al posto della relazione, al posto del dono, c'è il possesso.
Del cibo.
Dell'oggetto di piacere, sessuale e non.
Il possesso è attrazione. E su questa strada l'attrazione diventa violenza.
Così l'unità del corpo e della psiche viene tragicamente spezzata. E l'altro viene cosificato. Trasformato da soggetto di relazione a mero oggetto di consumo.
E' la strada che porta all'infelicità.
Perché ciascuno "diventa" schiavo di ciò che l'ha vinto.
Se non si accede ad una qualche grado di disciplina la schiavitù, la mancanza di libertà e, in ultima analisi, l'infelicità sarà il nostro presente.