Qatar : uno tsunami geopolitico

tontolina

Forumer storico
giu 17
Qatar: uno tsunami geopolitico

TUTTI CONTRO IL QATAR
Con una decisione senza precedenti Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein e Egitto hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar, chiusa l’unica frontiera terrestre del Paese (quella con l’Arabia Saudita), bloccati il traffico aereo e quello marittimo ed intimato ai cittadini qatarioti (in visita o residenti nei Paesi del Golfo) di tornare in patria entro tre settimane. Una sorta di isolamento forzato.

L’Arabia Saudita accusa il Qatar di essere sponsor del terrorismo islamista.
E in effetti lo è.

Ma è paradossale che l’accusa arrivi da un paese che ha creato Al Qaeda e che ha prodotto e finanziato per lungo tempo l’Isis e che (almeno fino a poco tempo fa) ha foraggiato i gruppi integralisti in Siria (come ammise l’ex vicepresidente americano Joe Biden)
D’altro canto il rapporto tra Arabia Saudita e gruppi islamici più integralisti è cosa risaputa non solo in Medio Oriente; in Europa, sono i sauditi i principali finanziatori di moschee e scuole coraniche in cui imam salafiti istigano all’odio per l’Occidente e per i suoi valori;
ed è l’oscurantismo religioso wahabita, base della monarchia Saud, a ispirare le follie ideologiche del Califfato e dei tagliagole dell’Isis.

Certo è che il Qatar, i suoi rapporti con le organizzazioni integraliste islamiche li ha intensi e in alcuni casi storici. Ma, per semplificare, potremmo dire che appoggia “gli integralisti sbagliati”. Vediamo perché.

GLI AMICI DEL QATAR
Fratelli Mussulmani: innanzitutto il Qatar appoggia i Fratelli Mussulmani, la potente organizzazione islamica ritenuta terroristica in molte regioni del Medio Oriente. Fu Al Jazeera la macchina di propaganda mediatica dell’Emirato a costruire l’immaginario delle Primavere Arabe e l’ascesa dei gruppi legati ai Fratelli Mussulmani in molti paesi, tra cui l’Egitto, destabilizzando l’intera regione.
Non a caso, come riporta la Reuters, ieri il Presidente egiziano al-Sisi, nemico storico della Fratellanza Mussulmana, ha dichiarato che la politica del Qatar “minaccia la sicurezza nazionale araba e getta i semi della discordia e della divisione all’interno delle società arabe”.

Hamas: in quest’ottica, il Qatar finanzia Hamas (organizzazione terroristica della Fratellanza) e da sempre attua una politica filo-palestinese in netto contrasto con la linea israeliana della Casa saudita.

Al-Nusra: in Siria, il Qatar continua a finanziare Al-Nusra e i ribelli anti-Assad legati ad Al Qaeda che, almeno formalmente, i sauditi hanno smesso di finanziare da quando l’arrivo di Donald Trump ha interrotto l’appoggio che l’America di Obama aveva loro dato.

Libia: in Libia il Qatar supporta i gruppi jihadisti contrapposti al Gen. Haftari appoggiato invece da Emirati Arabi e Russia.

Afghanistan: E da sempre il Qatar è al fianco dei mujaheddin afghani (Doha è l’unica capitale al mondo ad ospitare una rappresentanza diplomatica dei talebani).


Iran
: ma l’accusa più grave rivolta è quella di coltivare legami con l’Iran, nemico storico dei sauditi e degli arabi sunniti. Ed è proprio il recente rifiuto dell’Emiro del Qatar di partecipare all’alleanza anti-iraniana promossa da Trump durante il suo recente viaggio in Arabia Saudita, ad aver scatenato la reazione contro il piccolo Stato del Golfo.

GUERRA O REGIME CHANGE?
In genere, accelerazioni come queste preannunciano destabilizzazioni profonde o addirittura un conflitto; è però improbabile che quest’ultimo si verifichi per tre fondamentali ragioni:

1) Non si fa la guerra ad un paese che ha un fondo sovrano (il Qatar Investment Authority) tra i più importanti del mondo, con un patrimonio di oltre 300 mld di dollari e partecipazioni azionarie nelle più importanti aziende del pianeta (dalla Volkswagen a Tiffany, da Credit Suisse a Barclays, dalla russa Rosneft a Citic China); che è azionista di maggioranza del London Stock Exchange (la Borsa di Londra che a sua volta controlla anche quella di Milano), che possiede pezzi interi di Manhattan, che ha il più grande patrimoni immobiliare di Singapore e i magazzini Harrods a Londra, solo per citare qualcosa; ed il cui Ceo è membro della famiglia reale.

2) Il Qatar ospita, nella base di Al Udeidi, il CentCom, il Centro di Comando americano che sovrintende le operazioni in Medio Oriente con circa 10.000 soldati Usa; base costata miliardi di dollari all’Emiro e che di fatto è garanzia di inviolabilità per il Paese.

3) il Qatar ha recentemente stipulato un accordo militare con la Turchia che consente ad Ankara di dislocare sul territorio 3.000 soldati (100 anni dopo la fine della presenza Ottomana nel Golfo Persico) in cambio della difesa in caso di aggressione.

È probabile che l’azione aggressiva contro il Qatar abbia un altro obiettivo: un regime change morbido, interno alla famiglia reale. Magari con un suo membro più moderato e più incline alla mediazione e disposto ad allineare il Qatar alle posizioni dei Paesi del Golfo; ad esempio Hamad bin Jaber al-Thani già primo Ministro fino al 2013 (e vice Presidente del QIA), potentissimo uomo d’affari particolarmente gradito agli Stati Uniti (è membro del Brooking Institute, l’influente think tank atlantista) e alla Francia con la quale ha chiuso, da Premier, le partecipazioni più importanti (Total, Gdf Suez, Vinci) oltre che i maggiori accordi di acquisto armi.


E TRUMP?

La decisione di rompere le relazioni con il Qatar è un vero e proprio “tsunami geopolitico”, inaspettato e devastante.
La decisione è avvenuta pochi giorni dopo la visita ufficiale di Donald Trump in Arabia Saudita; è perciò chiaro che la Casa Bianca l’ha condivisa.
In quell’occasione il Presidente americano, il Re saudita e il Presidente egiziano, in una cerimonia dall’inquieto sapore esoterico, hanno individuato i due nemici “sostenitori del terrorismo”: l’Iran e i Fratelli Mussulmani.
Ma mentre l’Iran gode della protezione storica della Russia (ed è tuttora impegnata in Siria nella lotta contro l’Isis e Al Qaeda), i Fratelli Mussulmani non hanno alcuna copertura una volta neutralizzato il Qatar.

Washington è alleato dei sauditi, Mosca degli iraniani;
ma americani e russi sanno che non conviene infilarsi nel secolare conflitto tra sunniti e sciiti.
Se siamo di fronte ad un’accelerazione finalizzata ad aprire uno scontro diretto con l’Iran (sullo sfondo di una guerra per procura che sauditi e iraniani combattono nello Yemen e che i sauditi non stanno vincendo) il rischio di un conflitto su larga scala rende improbabile che America e Russia lo accettino.

Se al contrario, gli slogan anti-iraniani di Trump sono solo una false flag per combattere il terrorismo jihadista e sunnita (quello dei Fratelli Mussulmani) portandosi dietro coloro che quel terrorismo lo hanno alimentato e trovando convergenza con gli obiettivi di Mosca, allora ci troveremmo di fronte ad un cambiamento storico della politica estera Usa in Medio Oriente.

Insomma, la partita che passa per il confine del Qatar servirà a capire se Trump ha la forza di essere Trump o la debolezza di rimanere un presidente succube della lobby saudita e neo-con e del partito della guerra che ha dominato Washington in questi anni.

Su Twitter: @GiampaoloRossi

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10 June 2017 - 06:00
di Luciano Tirinnanzi

L’attentato effettuato dallo Stato Islamico a Teheran il 7 giugno non deve sorprendere. L’Iran ha infatti sempre saputo di essere vulnerabile. Nel 2016 il ministero dell’Intelligence iraniano aveva annunciato di aver sventato diversi complotti terroristici all’interno dei confini nazionali (a giugno e ad agosto) che, secondo i funzionari della sicurezza, avevano come obiettivo principale attaccare proprio la capitale Teheran. E lo stesso Stato Islamico il 28 marzo scorso ha rilasciato un video di minacce nei confronti dell’Iran, sollecitando una rivolta contro gli Ayatollah e incitando i militanti iraniani apparentemente affiliati al gruppo a promuovere attacchi contro Teheran che si è poi concretizzato mercoledì 7 giugno.

Inoltre, Jaish al-Adl (“Esercito della Giustizia”), gruppo salafita afghano in quota Al Qaeda, minaccia l’Iran con attentati contro civili e militari dal 2012. Anche il Movimento Arabo di Lotta per la Liberazione di Ahwaz, un’organizzazione separatista vicina ai Fratelli Musulmani e a gruppi salafiti che operano nel vicino Kuwait, da tempo minaccia la stabilità dell’Iran meridionale, a cavallo con l’Iraq. Infine, vi sono il Movimento di Resistenza Popolare dell’Iran (People’s Resistance Movement of Iran, PRMI) e i Soldati di Dio (Soldiers of God, Jundallah) che operano nella regione orientale del Sistan e Baluchistan, dove da decenni conducono una guerriglia contro le forze di sicurezza iraniana al confine con il Pakistan. Si tratta sempre di minoranze sunnite.

Per ciò che concerne nello specifico l’attacco del 7 giugno, più che una controffensiva è da intendersi come la risposta alla “chiamata” del Califfato per un bagno di sangue durante il mese sacro del Ramadan, che è cominciato a fine maggio. E difatti abbiamo visto un incremento di attacchi: in Medio Oriente (Iraq, Egitto), Asia (Afghanistan, Filippine, Indonesia) ed Europa (Londra, Parigi oltre all’Australia). In teoria, compiere il martirio durante questo periodo garantirebbe ai jihadisti una più veloce ascesa verso il paradiso. Nella realtà, è una strategia che punta a instillare la paura e, specie nel caso iraniano, a destabilizzare la società.

Riad contro Doha e il ruolo di Trump
Sono in molti a collegare l’ultima ondata di tensioni in Medio Oriente al viaggio fatto a fine maggio del presidente americano Donald Trump a Riad. Ciò però è vero solo da un certo punto di vista. Il ritorno dell’America all’alleanza storica con Arabia Saudita (e Israele) in Medio Oriente ha fatto sentire Riad più forte e più sicura, grazie anche alla commessa milionaria di armi che presto raggiungerà il Golfo, e l’Iran nuovamente isolato dopo che invece Barack Obama aveva sconfessato la linea politica delle precedenti Amministrazioni. Ragion per cui, anche la scelta di isolare il Qatar con cui Teheran condivide un business miliardario, ovvero il più grande giacimento di gas al mondo che si trova nelle acque del Golfo di fronte a questi due paesi, è una chiara mossa in funzione anti-iraniana.

Per quanto riguarda la tenuta del patto sul programma nucleare iraniano, per il momento l’intesa resta ovviamente in vigore, ma già tra un decennio sarà carta straccia, come è previsto d’altronde dagli stessi accordi. Il rischio che si corre oggi è che un ipotetico fuoriuscire dai binari dell’accordo anzitempo da parte di Teheran possa condurre ad azioni unilaterali americane, che come politica di coercizione come noto contemplano anche l’uso della forza. Ovviamente, questo sarebbe un disastro epocale.


La messa in discussione degli equilibri che Obama aveva raggiunto con Rouhani è stata accolta positivamente da Tel Aviv. Israele ha tutte le ragioni per essere contrario al patto sul nucleare. Teme, infatti, che Teheran voglia sfruttare il nucleare a fini militari. Ed essendo la distruzione di Israele nell’agenda politica degli Ayatollah, si possono ben comprendere i loro timori al riguardo. La ritrovata armonia con Washington offre garanzie in più alla loro sicurezza e alla stabilità. Gerusalemme, tuttavia, non attenderà di ritrovarsi di fronte al fatto compiuto. Già in passato hanno sabotato gli impianti nucleari iraniani, e di certo non si tireranno indietro in futuro.

Teheran o Riad: chi rischia di più?
Nonostante il tentativo di isolare l’Iran da parte di USA e Arabia Saudita, Teheran può ancora contare su molti alleati. L’alleanza russo-iraniana, ad esempio, ha consentito alle forze sciite di avere la meglio in Siria e Iraq sul fronte sunnita, di cui l’Arabia Saudita è il principale sponsor. In questo senso, hanno per così dire già vinto la guerra. Il punto, adesso, è come reagiranno le forze sunnite sconfitte. Se non si troverà un accordo per una spartizione equa di quei territori che un tempo conoscevamo col nome di Iraq e Siria, potremmo trovarci di fronte a una guerra ancor più lunga e devastante di quella di cui oggi siamo spettatori.

Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, invece, la situazione è molto rischiosa. La nuova generazione della famiglia regnante Saud appare molto spregiudicata e assetata di risultati. Questo li espone moltissimo. Inoltre, come ogni regime autoritario, i rischi per la destabilizzazione interna sono maggiori che in ogni altro paese del Golfo, considerato anche che l’ideologia wahhabita e salafita dei jihadisti è più forte là che in ogni altro luogo. Per l’ISIS come per la Fratellanza Musulmana i Saud sono da abbattere né più né meno degli sciiti in Iran. Perciò, l’aver punito il Qatar per essersi avvicinato troppo a Teheran, è stato un azzardo. A meno che non ci sia una strategia precisa e questo non sia che il preludio di ben altre azioni.

(Tratto da un’intervista pubblicata su Giornale di Sicilia)



Donald Trump has become Saudi Arabia’s puppet in the Qatar crisis


Trump's Mixed Messages Over Qatar

What Exactly Is the U.S. Policy on Qatar?
 
Qatar, cosa succede se si isola chi amministra un fondo sovrano enorme
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di Spazio Economia per Italia Aperta | 11 giugno 2017Più informazioni su: Arabia Saudita, Bahrain, Fondi Investimenti, Investimenti, Qatar, Usa
di Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia

La vicenda del Qatar, accusato da Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrain di finanziare gruppi terroristi e che per questo hanno interrotto i rapporti diplomatici, ci incuriosisce per i suoi aspetti economici internazionali, più che per il rischio concreto di escalation militari. Il piccolo Stato mediorientale, infatti, gestisce uno dei più grandi fondi sovrani, alimentato dalla vendita del gas, di cui possiede le maggiori scorte mondiali. Tale fondo è molto attivo negli investimenti sui mercati finanziari e immobiliari del mondo e come tale potrebbe costituire un problema per gli assetti globali.

Innanzitutto, ricordiamo che i fondi sovrani sono fondi di investimento di proprietà diretta o indiretta di enti nazionali o governativi, banche centrali o organismi governativi, che si differenziano tra loro secondo la provenienza dei capitali e le strategie di investimento operate. Generalmente, derivano i loro fondi da avanzi primari delle economie nazionali a cui appartengono, generati dall’ esportazione di risorse naturali energetiche o produzioni nazionali di beni e servizi e operano a lungo termine, investendo originariamente in partecipazioni finanziarie e industriali o in immobili. Ultimamente questa distinzione si è stemperata grandemente. La genesi temporale deriva dai primi anni dei cosiddetti “petrodollari” per arrivare agli ultimi in ordine di tempo, generati dal surplus di economie come quella cinese

Lo scopo della loro fondazione deriva dall’esigenza di gestire le masse enormi di denaro dei business originati, investendole adeguatamente per ottenere utili svincolati dal destino delle economie delle nazioni proprietarie e del prodotto alla base dell’accumulo. Così da garantire alle generazioni future di quegli Stati una tranquillità economica duratura, mitigando anche le fluttuazioni di bilancio che potrebbero intaccare le risorse pensionistiche e previdenziali nazionali. Caratteristiche comuni alla maggior parte dei fondi sovrani è la gestione svincolata da quella delle economie nazionali, la propensione ad investire all’estero i propri capitali e la scarsa presenza di passività implicite nei loro bilanci. I capitali sono disponibili e non vincolati a scopi statutari come quelli dei fondi pensione. Attualmente, esistono 84 fondi sovrani che operano in tutto il mondo e gestiscono un totale di 5,9 miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro), i principali dei quali vengono elencati nella tabella seguente.

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Come possiamo notare, le prime nove posizioni derivano da proventi, come sopra elencati, generati dal commercio di Commodities (generalmente idrocarburi solidi e gassosi) e dal surplus commerciale delle economie nazionali. Tornando al casus belli di questo articolo, cosa potrebbe comportare l’isolamento del Qatar da parte delle Nazioni confinanti e i successivi downgrade (riduzione del rating di una società) e problemi finanziari che ciò comporterà?

La vocazione internazionale sopra menzionata dei fondi sovrani ha portato infatti tale agglomerato finanziario a investire negli Usa in modo diversificato fra proprietà e media, in Asia con la prevalenza di energia e grattacieli e in Europa, nella quale, dopo la crisi finanziaria, il fondo Qatar investment authority (Qia) è intervenuto a sostegno di numerose banche: da Barclays (la quota è ora al 6,3%) a Credit Suisse, fino in tempi recenti a Deutsche Bank (più del 10% è di sua proprietà). In Italia, come risulta dai dati del ministero dello Sviluppo economico aggiornati a settembre del 2015, i rapporti commerciali con il Qatar raggiungono un valore di circa 1,7 miliardi di euro, comprendendo partecipazioni azionarie (Qatar airways possiede il 49% di Meridiana, tramite la società Mayhoola for investment, i reali hanno comprato la maison Valentino per 700 milioni di euro) e investimenti immobiliari, primi fra tutti la partecipazione del 100% di Porta Nuova, che ha consegnato agli emiri l’intero quartiere di Milano, noto, a livello internazionale per il grande progetto di riqualificazione e per il Bosco verticale di Boeri, giudicato l’edificio alto più bello del mondo, e l’acquisto praticamente totale della Costa smeralda. Oltre a vari immobili e alberghi di prestigio.

Non dimentichiamo gli investimenti in Gran Bretagna, che arrivano a valere almeno 40 miliardi di dollari. Le conseguenze di una crisi finanziaria della piccola Nazione, in un periodo di bassi prezzi degli idrocarburi e quindi di minori incassi, potrebbe destabilizzare diversi comparti delle economie mondiali, come visto intrise di partecipazioni e interessi degli Al Thani. Le partecipazioni gestite in modo da massimizzare i profitti a scapito della gestione corretta o la messa in vendita di proprietà e altri asset in modo accelerato e caotico, d’altra parte potrebbe cambiare pesantemente il livello dei prezzi medi di tali settori.

In senso più ampio, sarà interessante seguire anche l’evoluzione degli investimenti dei vari fondi (per esempio il potentissimo Cic, fondo sovrano cinese) e come potrà influire sugli eventi interni alle Nazioni e Continenti interessati. Le turbolenze dei mercati delle commodities o del commercio mondiale, potrebbero significare molto di più dei semplici numeri da loro generati.
 
BEIRUT — Three years after the last war in Gaza, the leaders of Israel and Palestine seem to be lurching toward another round of fighting—although not for the reasons you may think.

On Sunday, the Israeli security cabinet agreed, at the request of the Palestinian president, to reduce the amount of electricity it supplies to the blockaded territory by 40 percent. The officials came to the decision even after top Israeli generals warned it would lead to a humanitarian crisis in the strip, where 1.9 million people are bracing for a scorching summer with perhaps only three hours of power per day. Hamas, the militant Islamist group that controls Gaza, warned of an “explosion.”

Blackouts are not the only issue, however: If there is a fresh round of fighting, it may be sparked by a diplomatic crisis happening some 1,100 miles away—one that both the Israeli defense minister and U.S. President Donald Trump have goaded on.

On June 5, Saudi Arabia and several of its allies decided, with little warning, to blockade Qatar, in an effort to punish the tiny emirate of 2.7 million residents for supporting the wrong groups across the region—namely the Muslim Brotherhood—and to reinforce an alliance against Riyadh’s real nemesis: Iran. There are already signs that the effort may backfire. Turkey has doubled down on ties with Qatar, fast-tracking a bill that allows it to deploy troops there. Iran rushed to establish an air bridge to Doha, flying in shipments of food.

There is, of course, ample reason to criticize Qatar’s role in the region. The emirate has reportedly paid hefty ransoms to al-Qaeda’s affiliate in Syria, and looked the other way as private citizens funneled millions to jihadists across the Middle East. Al Jazeera’s Arabic service, once the boldest news channel in the area, has degenerated into a sort of propaganda outlet for Sunni Islamists, peddling conspiracy theories and sectarian vitriol about Christians in Egypt, Alawites in Syria, and other groups.

But all this hardly begins to explain this region’s fraught politics. For all the talk of brotherly unity, the six-member Gulf Cooperation Council is a dysfunctional, divided alliance. Saudi Arabia tries to set the tone: It is larger than the other five members of the council, combined, and draws diplomatic and religious clout from its custodianship of the holy sites in Mecca and Medina. Its main fear is Iran, followed by political Islam.

Several of Saudi Arabia’s neighbors feel differently. The first tentative steps toward the 2015 nuclear deal between Iran and several world powers took place in Oman, where the sultan hosted secret talks between American and Iranian officials at a seaside villa. Oman has also declined to take part in the Saudi-led war against Houthi rebels in Yemen, which has decimated the poorest country on the Arabian Peninsula, with a looming famine and a recent cholera outbreak. Kuwait, with an Islamist-dominated parliament and a large ethnic-Iranian minority, often prefers to mediate regional disputes, rather than join them.

There are even budding tensions between Saudi Arabia and the United Arab Emirates, its closest ideological ally in the Gulf. The Emiratis have deployed thousands of troops to the south of Yemen, trained up a 30,000-man Yemeni militia, and spent about $2 billion to support Yemen’s battered economy. On the northern front, the Saudis have mostly fought from the air, and they have little to show for it. Militias backed by the two sides engaged in a firefight earlier this year during a battle for control of the airport in Aden.

The case of Hamas is yet another marker of the complexity of this crisis. In recent years, the group has struck an uneasy balance between Saudi Arabia and Iran. While the latter was once Hamas’s biggest patron, supplying it with money and weapons, the two sides parted ways in 2012 when the Palestinians backed the uprising against Bashar al-Assad’s regime in Syria. Soon, Tehran, which backs the Assad regime, cut off military aid to Hamas. The former leader of Hamas, Khaled Meshaal, was forced to leave his longtime base in Damascus, decamping for Doha, where the group received an enthusiastic welcome.

Since then, Meshaal has tried to steer Hamas closer to the Gulf states. He met with King Salman on a rare visit to Saudi Arabia in 2015, and pushed back against the leaders of the Qassam Brigades, the military wing of Hamas, who wanted to pivot back to Iran. He thought such a move would empower the comparatively moderate political wing of Hamas, and perhaps win the group a measure of international recognition. Now, though, the Saudis and their allies are demanding that Qatar cut ties with Hamas and expel its leaders from Doha—quite possibly pushing it back towards Iran.

This tension is no mere academic matter. Gaza has been devastated by three wars over the past decade. Even hawkish Israeli politicians agree that the only way to prevent a fourth flare-up is to improve living conditions in the strip. But that won’t happen if Hamas is pushed away from the Gulf and back towards Iran—a shift that would be welcomed by the group’s hardliners, who have advocated it for years. “The Arab states have been abusing the Palestinian cause since the creation of Israel in 1948,” Mahmoud al-Zahar, a co-founder of Hamas, told me. “This is a fixed policy.”

Qatar, by contrast, has been one of the few states to provide consistent support, repairing the main coastal highway and building thousands of new homes for families displaced during the wars. It has also spent tens of millions of dollars on fuel for Gaza’s sole power plant. The exchange of funds is managed by a Qatari official who works in one of Gaza’s upscale, half-empty seaside hotels. A cutback in Qatari aid, then, would worsen the already-dire humanitarian situation in Gaza, where nearly half the population is unemployed and three-quarters depend on aid to survive.

Financial aid from Iran, on the other hand, has been mostly diverted to military projects. Tehran also played a key role in helping Hamas produce rockets domestically, inside Gaza. In 2012, the head of the Revolutionary Guard admitted that his forces taught Hamas how to produce a variant of the Fajr-5, a long-range projectile that has been used to strike the Tel Aviv suburbs. The resumption of Iranian aid would give the Qassam Brigades access to both cash and blueprints. “It’s become much more difficult for [Hamas] to rearm recently,” an Israeli intelligence official told me. “So they’ll be looking for the next big thing.”

The pressure on Hamas might also cause a rupture with Egypt, which has been deeply hostile toward Hamas since President Abdel Fattah el-Sisi seized power in a 2013 coup. He has rightly accused the group of collaborating with the Islamic State branch on Sinai, which controls what little remains of a once-thriving cross-border tunnel trade. “The issues in this relationship go back a long time, and they’ve been hard to fix,” Daoud Shihab, a member of Islamic Jihad, which has helped to mediate between the two sides, told me.

Earlier this year, however, the talks between Egypt and Hamas finally started to bear fruit. Hamas agreed to stop sheltering jihadists, and publicly cut ties with the Muslim Brotherhood. Egypt has allowed some commercial traffic across the Gaza border for the first time in a decade. It should be a win-win for both sides. But boosting the Qassam Brigades, which relies on the smuggling tunnels to import arms, threatens to upset the fragile détente.

The timing of all this could not be worse, with Hamas already under pressure from the electricity crisis. Over the past three months, Mahmoud Abbas, the Palestinian president, has also reduced the salaries paid to tens of thousands of civil servants in Gaza, and suspended shipments of medicine and baby formula to hospitals. The public is seething.

Qatar has already expelled several Hamas officials, including Saleh al-Arouri, a prominent figure from the military wing. Israel accuses him of plotting attacks in the occupied West Bank (a charge his colleagues do not dispute). Sources in Gaza say Hamas pocketed millions by charging families for Qatari-built homes, which were meant to be distributed free of charge. The United States and its allies could press Qatar on these issues—but a complete severance of ties, as the Gulf states have so far demanded, would have dire consequences.

Doha may yet accede to its neighbors’ demands. Israel and its allies would see this as a victory: Avigdor Lieberman, the Israeli defense minister, said the crisis gives Israel new opportunities to work with Arab states; President Trump continues to take credit for starting it. Their optimism may not last.

The Qatar Crisis Is Pushing Hamas Back to Iran


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Qatar isolato, Arabia Saudita espelle 9mila cammelli. E i qatarioti importano 4mila mucche in aereo
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Dal 5 giugno scorso, infatti il Paese del Golfo Persico si trova isolato: Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein e Yemen hanno deciso chiudere le frontiere, azzerando i rapporti diplomatici con l'emirato. Che è costretto a importare il 90% dei generi alimentari: almeno il 40% di queste merci arrivava attraverso l’unica frontiera terrestre con l’Arabia saudita

di F. Q. | 22 giugno 2017


Qatar isolato, Arabia Saudita espelle 9mila cammelli. E i qatarioti importano 4mila mucche in aereo - Il Fatto Quotidiano
 

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