Claire
ἰοίην
... pandori e regali, di mercatini e di alberi addobbati, mi domando come mai due giorni fa non si sia parlato del giorno della memoria.
Forse è un passato troppo recente per prenderne le distanze e parlarne in modo sereno?
Forse si rischia di cadere nel retorico?
Forse nessuno aveva voglia di aprire un thread serio?
Forse... forse...?
Non è che mi importi il perché. Sono donna di pancia e di cuore e quando sento forte dentro di me alcune emozioni e impulsi li trattengo con difficoltà.
Non sono una storica, non sono una filosofa, non sono nemmeno una politica, ma ho voglia di esprimere un pensiero al riguardo.
Forse avete letto che, nel 1949 il filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno, rifugiatosi in California in fuga dalla furia nazista in quanto antifascista ed ebreo da parte di padre, diceva: "Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie."
Intendeva dire, Adorno, che l'Olocausto è stato un evento tanto drammatico e di valenza simbolica così fondamentale per la modernità che si doveva rifiutare ogni sua "esteticizzazione" o ogni forma di "catarsi". Doveva invece restare una ferita aperta, un abisso indicibile, fonte di continua disperazione e vergogna, un monito a chi doveva ricostruire l'Europa dopo la barbarie della Seconda Guerra Mondiale.
Ma...
Vent'anni più tardi, Adorno, nel suo capolavoro filosofico Dialettica negativa, si correggeva scrivendo: "La sofferenza incessante ha tanto il diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie".
E quindi, mi chiedo e rifletto:
Che cosa deve rappresentare, per noi, l'Olocausto a settant'anni di distanza?
Non certo solo "pietà" o "compassione" per le vittime, non un semplice monito alla tolleranza o a evitare gli errori del "passato", come se il genocidio non fosse un'occorrenza quotidiana anche oggi. Non basterebbe: niente di questo farebbe giustizia al sistematico svuotamento e annientamento dell'umanità da quegli uomini e da quelle donne imprigionati nei lager perché ebrei o zingari o portatori di handicap o perché oppositori politici.
L'Olocausto deve restare una ferita aperta per tutti (non certo solo per i Tedeschi) per ricordare la potenziale minaccia presente ogni volta che si sventolano "interessi nazionali", ogni volta che ci si fa prendere la mano dall'entusiasmo etnico-territorial-nazionalista, ogni volta che si giustifica la riduzione dell'uomo a mezzo o a merce, per qualsiasi ragione (politica, economica, culturale, religiosa), ogni volta che ci si fa prendere dall'indifferenza e dalla codardia e si rinuncia a combattere per l'uguaglianza, l'accettazione, la solidarietà con l'altro, col diverso, soprattutto con l'abbrutito, con il derelitto, nel nome di una semplice "tolleranza" (che non significa altro che "sopportazione") di ciò che ci infastidisce.
Ha scritto ancora Adorno: "La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è più alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e più misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati”, come si dice in gergo militare, finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte."
L'Olocausto (l'omicidio di massa pianificato con precisione organizzativa industriale) non è una barbarie del passato, ma una caratteristica essenziale della modernità. E' e deve essere una presenza costante nella nostra mente, un pericolo imminente: esiste, respira nascosto all'ombra di certe politiche, di certe concezioni filosofiche, di certi meccanismi produttivi, e non è affatto l'opera di pazzi incantatori di masse, che si chiamassero Hitler, Mussolini, Stalin o Pol Pot, o che parlassero tedesco, italiano, russo o cambogiano.
Ha detto bene ieri sera il ministro Andrea Riccardi che l'Europa va ricostruita a partire da Auschwitz: ma questo non ha nulla a che fare con identità culturali, religiose, o nazionali; ha invece a che fare con il fatto che Auschwitz è l'abisso, è la nuova condizione "primordiale" da cui l'umanità deve ricrescere. Ha quindi prima di tutto un significato politico: ci richiama alla responsabilità delle nostre azioni; ci impedisce di nasconderci dietro l'alibi di un "non sapevo", "non credevo", "non immaginavo", "non c'ero"; ci impone di riconoscersi nell'altro, soprattutto quando l'altro è derelitto, destituito, abbrutito, e ci obbliga a subordinare ogni necessita' politico-economica all'imperativo di proteggere la sua umanità.
Forse è un passato troppo recente per prenderne le distanze e parlarne in modo sereno?
Forse si rischia di cadere nel retorico?
Forse nessuno aveva voglia di aprire un thread serio?
Forse... forse...?
Non è che mi importi il perché. Sono donna di pancia e di cuore e quando sento forte dentro di me alcune emozioni e impulsi li trattengo con difficoltà.
Non sono una storica, non sono una filosofa, non sono nemmeno una politica, ma ho voglia di esprimere un pensiero al riguardo.
Forse avete letto che, nel 1949 il filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno, rifugiatosi in California in fuga dalla furia nazista in quanto antifascista ed ebreo da parte di padre, diceva: "Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie."
Intendeva dire, Adorno, che l'Olocausto è stato un evento tanto drammatico e di valenza simbolica così fondamentale per la modernità che si doveva rifiutare ogni sua "esteticizzazione" o ogni forma di "catarsi". Doveva invece restare una ferita aperta, un abisso indicibile, fonte di continua disperazione e vergogna, un monito a chi doveva ricostruire l'Europa dopo la barbarie della Seconda Guerra Mondiale.
Ma...
Vent'anni più tardi, Adorno, nel suo capolavoro filosofico Dialettica negativa, si correggeva scrivendo: "La sofferenza incessante ha tanto il diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie".
E quindi, mi chiedo e rifletto:
Che cosa deve rappresentare, per noi, l'Olocausto a settant'anni di distanza?
Non certo solo "pietà" o "compassione" per le vittime, non un semplice monito alla tolleranza o a evitare gli errori del "passato", come se il genocidio non fosse un'occorrenza quotidiana anche oggi. Non basterebbe: niente di questo farebbe giustizia al sistematico svuotamento e annientamento dell'umanità da quegli uomini e da quelle donne imprigionati nei lager perché ebrei o zingari o portatori di handicap o perché oppositori politici.
L'Olocausto deve restare una ferita aperta per tutti (non certo solo per i Tedeschi) per ricordare la potenziale minaccia presente ogni volta che si sventolano "interessi nazionali", ogni volta che ci si fa prendere la mano dall'entusiasmo etnico-territorial-nazionalista, ogni volta che si giustifica la riduzione dell'uomo a mezzo o a merce, per qualsiasi ragione (politica, economica, culturale, religiosa), ogni volta che ci si fa prendere dall'indifferenza e dalla codardia e si rinuncia a combattere per l'uguaglianza, l'accettazione, la solidarietà con l'altro, col diverso, soprattutto con l'abbrutito, con il derelitto, nel nome di una semplice "tolleranza" (che non significa altro che "sopportazione") di ciò che ci infastidisce.
Ha scritto ancora Adorno: "La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è più alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e più misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati”, come si dice in gergo militare, finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte."
L'Olocausto (l'omicidio di massa pianificato con precisione organizzativa industriale) non è una barbarie del passato, ma una caratteristica essenziale della modernità. E' e deve essere una presenza costante nella nostra mente, un pericolo imminente: esiste, respira nascosto all'ombra di certe politiche, di certe concezioni filosofiche, di certi meccanismi produttivi, e non è affatto l'opera di pazzi incantatori di masse, che si chiamassero Hitler, Mussolini, Stalin o Pol Pot, o che parlassero tedesco, italiano, russo o cambogiano.
Ha detto bene ieri sera il ministro Andrea Riccardi che l'Europa va ricostruita a partire da Auschwitz: ma questo non ha nulla a che fare con identità culturali, religiose, o nazionali; ha invece a che fare con il fatto che Auschwitz è l'abisso, è la nuova condizione "primordiale" da cui l'umanità deve ricrescere. Ha quindi prima di tutto un significato politico: ci richiama alla responsabilità delle nostre azioni; ci impedisce di nasconderci dietro l'alibi di un "non sapevo", "non credevo", "non immaginavo", "non c'ero"; ci impone di riconoscersi nell'altro, soprattutto quando l'altro è derelitto, destituito, abbrutito, e ci obbliga a subordinare ogni necessita' politico-economica all'imperativo di proteggere la sua umanità.
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