La politica si erge a depositaria della verità:
decide cosa sia “sostenibile”,
quali energie meritino di esistere,
quali comportamenti debbano essere incoraggiati o puniti.
La conoscenza, che dovrebbe essere libera, viene amministrata;
l’innovazione, che dovrebbe nascere dal rischio e dall’iniziativa, viene regolata.
In tale visione rovesciata, la scienza – invece di liberare – diventa un’arma di dominio.
L’ambientalismo istituzionale trasforma il sapere tecnico in strumento di potere:
i nuovi “sacerdoti del clima” sostituiscono i dibattiti con i dogmi
e la discussione pubblica con le sanzioni.
In nome della salvezza collettiva, si legittima ogni intrusione nelle scelte individuali.
Per effetto di tutto ciò, la cosiddetta “transizione ecologica”
si è così trasformata in un processo di centralizzazione.
Non è più la naturale evoluzione dell’innovazione e della concorrenza,
ma un piano di riconversione imposto dall’alto.
Si vietano tecnologie invece di lasciarle competere,
si impongono standard invece di favorire la scoperta di soluzioni più efficienti.
È il ritorno del principio autoritario
secondo cui la politica deve “guidare” l’economia,
come se la conoscenza, la creatività e la responsabilità individuale
fossero pericolose.