Portafogli e Strategie (investimento) Sunset Boulevard: the Indian Summer of the debt (Vol. VI)

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Considera che la Lettonia è già in cura dal 2008, ed è quindi nel secondo anno della "terapia", la Grecia ha rivelato la propria situazione e provato a sanarla a partire da inizio 2010, quindi ha appena imboccato il sentiero sul quale la Lettonia cammina già da un pezzo... ;)

Da questo punto di vista la Grecia ha un vantaggio notevole.

La fine del 2008 era il peggior periodo possibile per effettuare una manovra di drastica riduzione della spesa pubblica, non a caso Keynes nelle recessioni gravi consigliava di fare esattamente l'opposto, aumentarla per sostene l'economia come hanno fatto USA & company. Ma la Lettonia era messa talmente male che non ha avuto altra scelta... e le conseguenze per il cittadino lettone come possiamo vedere oggi sono state decisamente pesanti.

Oggi grazie al cielo l'economia globale sta meglio e anche se la Grecia non è un forte esportatore dovrebbe comunque giovarsi parziamente della ripresa dell'economia mondiale (specialmente per il turismo)... è un momento decisamente migliore per ridurre il deficit.
 
Bisogna vedere cosa c'è dentro a quel 14%: non penso che sia in grossa parte spesa per investimenti che hanno un impatto di stimolo all'economia e penso che sia in minima parte interventi di sostegno al sistema bancario greco.

Se era spesa improduttiva o soldi spariti per corruzione o perchè qualcuno se li è intascati il loro contributo al GDP è relativamente trascurabile.

L'Italia per come la vedo io non ha sofferto tanto per la riduzione della spesa pubblica (il deficit era già contenuto prima della crisi ed è leggermente aumentato) ma perchè è un paese esportatore come la Germania e ha avuto effetti collaterali simili in seguito al crollo dell'attività economica negli altri paesi sviluppati.

Ora di preciso non ti saprei dire, però circa due punti e mezzo pct erano impieghi a tempo determinato "elargiti" dal governo che ha preceduto quello di Papandreou secondo logiche di tipo clientelare (grosso modo, le cose che vediamo fare qui da noi in Calabria o in Sicilia)... concordo che se fosse stata spesa più produttiva, gli effetti della sua cancellazione sarebbero più drastici, però è un po' come i 400-500mila incaricati pagati settimanalmente dalla amministrazione USA per il censimento o i lavoratori cd "socialmente utili" che c'erano qui da noi, nel senso che se gli toglie quello che è una sorta di sussidio di disoccupazione camuffato, di certo la cosa ha un impatto sui numeri della disoccupazione e sui consumi...

Su quanto dici sull'Italia mi trovi d'accordo... da noi il deficit pubblico è cresciuto di un valore molto modesto... se tuttavia fosse passato dal 4% al 14% anche in spesa improduttiva, credo che i consumi interni avrebbero "retto" meglio ... però non è certo la maniera corretta di affrontare la crisi... sposti solo in avanti il problema (come è successo per i greci).
 
Da questo punto di vista la Grecia ha un vantaggio notevole.

La fine del 2008 era il peggior periodo possibile per effettuare una manovra di drastica riduzione della spesa pubblica, non a caso Keynes nelle recessioni gravi consigliava di fare esattamente l'opposto, aumentarla per sostene l'economia come hanno fatto USA & company. Ma la Lettonia era messa talmente male che non ha avuto altra scelta... e le conseguenze per il cittadino lettone come possiamo vedere oggi sono state decisamente pesanti.

Oggi grazie al cielo l'economia globale sta meglio e anche se la Grecia non è un forte esportatore dovrebbe comunque giovarsi parziamente della ripresa dell'economia mondiale (specialmente per il turismo)... è un momento decisamente migliore per ridurre il deficit.

E tuttavia, se si fossero attestati al 6,5% di deficit/PIL che avevano indicato ad inizio anno, la correzione da attuare adesso si sarebbe rivelata meno repentina.... anche perché è vero che c'è stata ripresa in questi mesi, ma la sua tenuta è quantomeno da verificare ... ;)
 
Intanto continua la debolezza del mercato delle nuove emissioni del corporate HY USA, sebbene in una settimana, quale quella precedente, che aveva visto un rimbalzo dei corsi dopo la brusca caduta verificatasi a partire da maggio...

Vedete bene dal grafico come la nuova fase della crisi del debito sovrano abbia determinato una forte contrazione delle nuove emissioni HY, che è poi una sostanziale chiusura del mercato per gli emittenti più deboli, quelli di rating più modesto...
 

Allegati

Ieri altra buona giornata per l'HY, che procede nel suo rimbalzo. A fronte dei minimi segnati attorno a quota 400 dall'ITraxx Crossover 5Y al (probabile) picco di ciclo dell'HY nel movimento partito nel post Lehman e conclusosi ad aprile 2010, ieri ci siamo attestati attorno a quota 495, di rimbalzo dei 615-620 raggiunti in coincidenza del forte storno borsistico delle settimane scorse...

Markit Indices
 
Un bel report di fitch sull'andamento del corporate HY USA.

Si muove dalla considerazione che l'attuale default rate, se considerato non sulla lunghezza dei 12 mesi, ricomprendendovi anche il secondo semestre 2009, ma da inizio 2010, si attesta ad un modestissimo 1%, decisamente inferiore alla media storica (poco sopra il 4%) ed assolutamente insostenibile, anche all'avverarsi delle ipotesi più rosee sull'andamento dell'economia USA.

Poiché si viene da un picco di ciclo stimato da Fitch al 13,7% di default rate fatto nel 2009, la drammaticità dell'inversione è evidente e porta Fitch alla conclusione alla quale si era giunti nel 3D qualche mese fa, ossia che l'elevato livello di indebitamento complessivo del sistema USA (e del corporate in particolare) porti ad una vulnerabilità tale da fare sì che i prossimi cicli della liquidità e del debito siano sempre più brevi.


"High Yield No Longer has a Claim on Leverage - Shorter Credit Cycles Possible in Coming Years

....

As shown by the events of the past few years, high debt levels combined with the global markets’ interconnectedness may mean shorter and more
volatile credit cycles going forward. The 2008 acceleration in high yield defaults, for example, occurred just five years following the last corporate credit downturn, faster than the time between the early 1990s and the 2001 surges.

....."

Tutte le considerazioni fatte dall'agenzia per il futuro prossimo inducono dunque alla conclusione che l'inversione del default rate sia certo nei prossimi mesi, una volta che abbia smesso di produrre effetti sul default rate sui 12 mesi il secondo semestre del 2009.

La domanda che si pone è quindi quella della velocità della risalita... ed anche qui tornano interessanti le considerazioni conclusive dell'agenzia...

...

"While Fitch believes that the risk of a double-dip recession is low (Fitch is forecasting U.S. GDP growth of 2.9% in 2011), nonetheless, the combined impact on 2011 economic activity of higher taxes, financial regulation, less stimulus spending and very likely higher interest rates is not fully known.

In addition, a large sovereign or corporate default at this point in the recovery could also undermine confidence, disrupt capital flows and economic activity, and lead to a new round of defaults. Interestingly, while
the actions of U.S. companies in response to the recession have been positive in terms of their self preservation, corporate behavior going forward could also be problematic.

The pace of employment gains, for example, is a critical factor in sustaining therecovery into 2011, but to date, companies have been cautious on the hiring front. A persistently high unemployment rate could ironically turn the sluggish growth environment companies feared into a reality."

.....

Il report è munito di molte tabelle, facile da leggere ed interessante anche nel ripercorrere l'incidenza della stagione dei default del 2009 sul comparto del corporate HY USA.
 

Allegati

Al capezzale dell'economia
Il tema centrale del G20: come evitare la recessione
25 giu 2010
di ALFONSO TUOR

Il tema centrale delle discussioni del G20 che si apre stasera a Toronto è chiaro: come evitare una ricaduta in recessione dell’economia mondiale. Sino alla fine della settimana scorsa il copione delle discussioni sembrava già scritto: il principale imputato avrebbe dovuto essere la Cina. Il capo di imputazione era semplice: Pechino non contribuisce alla correzione degli squilibri dell’economia mondiale a causa della sua valuta da due anni legata al dollaro attraverso un tasso di cambio fisso.
La Banca centrale cinese ha stravolto il copione già preparato per questo G20, annunciando la settimana scorsa che il tasso di cambio del renminbi sarà d’ora in poi flessibile, anche se ha subito precisato che l’obiettivo resta quello di un tasso di cambio stabile. In altri termini la mossa, particolarmente azzeccata nella scelta dei tempi, è servita principalmente ad evitare a Pechino di finire in una posizione scomoda di fronte agli altri Paesi del G20 senza essere costretta a fare eccessive concessioni. Infatti non è assolutamente chiaro quale sarà l’ampiezza della rivalutazione della moneta cinese.
Essendo riuscita la Cina a sfilarsi dal ruolo di capro espiatorio, sono emerse in tutta chiarezza le profonde divergenze tra i Venti Grandi. Il pomo della discordia riguarda le politiche economiche necessarie per evitare la ricaduta dell’economia occidentale in recessione. Da una parte vi è l’amministrazione Obama sempre più giustamente preoccupata della solidità e soprattutto della sostenibilità della ripresa americana. Washington è consapevole che la politica fiscale non ha ulteriori spazi di manovra a causa del livello raggiunto dal deficit pubblico e anche che si stanno esaurendo le cartucce a disposizione della Federal Reserve. L’amministrazione americana chiede dunque ai Paesi con forti avanzi commerciali (Germania, Giappone e Cina) di adottare politiche espansive per sostenere la ripresa e sostituire la locomotiva americana, che è oramai spossata.
Dall’altra parte vi è l’Europa costretta, a causa della crisi di fiducia sulla sostenibilità dei debiti pubblici di molti Paesi di Eurolandia, ad adottare politiche fiscali restrittive. Ma soprattutto vi è la Germania, che si rifiuta di prendere il testimone della guida della crescita. Anzi, Berlino, sebbene non abbia il fiato dei mercati sul collo, ha sottolineato con forza, attraverso il varo di un piano di austerità di 80 miliardi di euro nell’arco di quattro anni, che non desidera che l’economia tedesca svolga la funzione di traino dell’economia europea né tanto meno di quella mondiale.
Queste divergenze non emergeranno sicuramente nel comunicato finale del vertice del G20 in terra canadese. Anzi è pressoché certo che con un linguaggio paludato si sottolineerà la forza della ripresa e si porrà l’accento sugli impegni congiunti per rendere la crescita solida e duratura.
La realtà rischia di essere ben diversa. L’unico e vero sostegno alla ripresa americana ed europea era costituito dalle politiche monetarie e fiscali espansive. Negli Stati Uniti l’esaurimento degli effetti di questi stimoli si accompagna, con una rapidità invero sorprendente, al moltiplicarsi di segnali di debolezza e al riemergere della crisi del mercato immobiliare, come ha anche messo in evidenza la Federal Reserve mercoledì scorso. In Europa la svolta nelle politiche fiscali è destinata a far ripiombare nella crisi la maggior parte dei Paesi del Vecchio Continente, anche perché il deprezzamento dell’euro sta aiutando soprattutto i Paesi europei forti.
Il quadro è ancor più a tinte fosche se si guarda agli effetti della crisi finanziaria, tuttora in corso, sulle dinamiche dell’economia reale. Infatti occorre ricordare che dal fallimento della Lehman Brothers, ossia dall’autunno del 2008, è in atto una stretta creditizia. Negli Stati Uniti questa stretta si esplicita nella chiusura, pressoché totale, del mercato delle cartolarizzazioni, ossia della possibilità del sistema bancario di impacchettare i crediti erogati in titoli da collocare sul mercato. Questo vale soprattutto dopo che la Federal Reserve, alla fine dello scorso mese di marzo, ha concluso il suo programma di acquisti, che ha portato la banca centrale americana a rilevare titoli (principalmente quelli in cui erano impacchettate le ipoteche) per ben 1.250 miliardi di dollari. L’uscita dal mercato del principale acquirente di questi titoli, che finora è stata poco avvertita, porterà le banche americane a restringere ulteriormente i criteri per la concessione dei crediti. In Europa la crisi greca e le difficoltà dei Paesi deboli di Eurolandia hanno contribuito a rimettere al centro dell’attenzione lo stato di precarietà del sistema bancario europeo a tal punto che per gli istituti bancari di alcuni Paesi si è chiusa la possibilità di rifinanziarsi sul mercato, con la conseguenza che la Banca Centrale Europea è divenuta l’unica fonte di finanziamento. Ciò costringerà le banche a restringere ulteriormente la loro politica creditizia. Quindi, sebbene i tassi di interesse definiti dalle banche centrali siano molto bassi e sebbene le politiche monetarie siano espansive, rischia di risultare ancor più ostruito il canale di trasmissione costituito dalle banche e dai crediti concessi ad imprese e famiglie, ossia all’economia reale. Agli effetti delle stangate fiscali dei Paesi europei bisogna pertanto aggiungere un accesso al credito più difficile e anche più costoso.
Alla luce di queste considerazioni appaiono fortemente giustificate le apprensioni americane sul rischio di una ricaduta dell’economia occidentale in recessione. Più discutibili sono invece le ricette proposte da Washington. Le preoccupazioni dell’amministrazione americana riguardano infatti essenzialmente il breve termine. A Washington non ci si interroga invece sulla sostenibilità nel tempo di queste politiche espansive e soprattutto non si vuole prendere atto che questa crisi non è congiunturale, ma è strutturale e che quindi richiede riforme profonde delle regole di funzionamento non solo del sistema bancario, ma dell’intera economia mondiale.
 
In realtà, riprendendo dall'articolo di Tuor il discorso sulle cartolarizzazioni USA, la CP USA asset backet, che è un rilevante indicatore del livello di funzionamento per la macchina di cartolarizzazione del credito sembra avere fatto un bottom almeno temporaneo a maggio 2010, dopo quasi 3 anni di calo assoluto, sotto quota 400 mld $ (rammento che il picco pre-crisi era superiore a 2.200 mld $).

Siamo tuttavia solo ad un modesto incremento rispetto a quei minimi (435 mld $ nell'ultima settimana di giugno rilevata)

FRB: Commercial Paper Outstandings
 

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