FINANZA/ 1. Ecco perché Wall Street vuol scaricare Obama
Mauro Bottarelli
giovedì 5 maggio 2011
Foto Ansa Approfondisci
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Non so voi, ma io questa storia dell’uccisione di Bin Laden non riesco proprio a bermela.
Sarò prevenuto, ne avrò viste troppe, ma la foto che capeggiava ieri sulla prima pagina di molti giornali, con Barack Obama, Hillary Clinton e alti papaveri dell’amministrazione chiusi nella Situation Room della Casa Bianca intenti a seguire l’operazione dei Navy Seals in diretta,
mi sa tanto di immagine scattata mentre guardavano una partita di pallacanestro.
Tant’è, di certo non mi spiace in sé che al mondo ci sia uno psicopatico in meno,
ma la puzza di bruciato elettorale che aleggia attorno a questa vicenda è fortissima: e non fa altro che dilazionare i tempi affinché gli Usa affrontino i reali problemi che li affliggono, in primis il debito e in secondo luogo il prezzo della benzina ormai fuori controllo a fronte del petrolio ai massimi da due anni e mezzo: e si sa che, al netto delle scorte, la spesa energetica declinata in import va a gravare ulteriormente sul deficit commerciale.
Stando a un sondaggio del
Washington Post del 3 maggio, grazie all’eliminazione di Bin Laden, Barack Obama può contare ora sul 56% dei consensi, un aumento di nove punti rispetto all’ultima rilevazione fatta in aprile dal Post e da
Abc News.
Peccato che i sondaggi vadano saputi leggere: approfondendo i dati, si scopre infatti che quando la domanda verteva sulla gestione dell’economia da parte del governo, il buon Obama non guadagnava nemmeno una frazione di punto. Inoltre, il picco massimo di aumento per il presidente è stato registrato tra gli elettori cosiddetti indipendenti, più 10 punti a quota 52%.
Peccato che lo stesso identico risultato fu ottenuto, sempre tra gli indipendenti, da George W. Bush dopo la cattura di Saddam Hussein: detto fatto, la spintarella elettorale svanì nell’arco di sei settimane.
Inoltre, un altro sondaggio, questa volta condotto da
Cnn e
Orc, vede il sostegno a Obama al 52%, soltanto un punto percentuale in più rispetto al periodo precedente al blitz. Insomma, numeri tutti da interpretare. Ma, soprattutto, la certezza che la storia si ripete quasi sempre. E proprio la storia vuole che un’elezione americana inizi sempre un anno prima della sua naturale scadenza, quindi quanto successo da marzo fino a oggi, va letto in chiave totalmente strategica da parte del presidente.
Non deve stupire, quindi, che Barack Obama abbia già annunciato la sua ricandidatura per il prossimo anno, muovendo in anticipo le sue pedine e inviando emissari presso i grandi elettori e soprattutto le lobbies. Nonostante Thanos Papasavvas, capo del monetario alla Investec Asset Management, interpellato da Cnbc, dia per certo che Obama verrà riletto, «poiché ogni segnale di deterioramento nell’ambito economico vedrà la Fed intervenire prontamente con la terza ondata di quantitative easing», la realtà appare differente e vede Wall Street - che nel 2008 scommise proprio sul candidato democratico - nettamente intenzionata a riportare i propri favori in casa repubblicana.
I segnali, in effetti, da settimane si sprecano. Prima la lettera inviata al segretario al Tesoro, Timothy Garthner, dall’ad di JP Morgan, Matthew Zames, a nome delle principali istituzioni bancarie Usa riunite nel Treasury Borrowing Advisory Committee, per mettere in guardia da un rischio di default causato dal mancato innalzamento limite di debito, avvertendo che anche un breve ritardo nel pagamento di un interesse o una cedola potrebbe avere effetti devastanti per i mercati finanziari. Poi la minaccia di John Noehner, speaker repubblicano alla House of Representatives, secondo cui «se il presidente non diventa serio sulla necessità di affrontare il tema del nostro incubo fiscale, c’è la possibilità che un voto (sull’innalzamento del tetto di debito, ndr) possa non esserci».
Alcuni analisti del budget a Washington pensano che il compromesso potrebbe nascere sulla base di un’estensione a breve termine del debito che non contempli aumenti superiori ai 1000 miliardi di dollari, ma i Repubblicani alla House, su montante pressione proveniente proprio da Wall Street, potrebbero resistere a questa ipotesi, dando battaglia sui dettagli. Infine, il messaggio non interpretabile da parte
dei manager di hedge funds, gli stessi che nel 2008 raccolsero milioni di dollari per la campagna di Barack Obama. Come Daniel Loeb, fondatore della Third Point LLC, il quale dall’insediamento del Presidente a oggi ha donato 468mila dollari ai Repubblicani e solo 8mila ai Democratici.
Il perché appare chiaro, almeno a New York: Wall Street sta reagendo alle attacchi populisti di Obama contro la finanza (leggasi la frase che pronunciò in occasione del salvataggio di Chrysler, «Non sto al fianco di chi vuole far pagare solo a voi contribuenti il prezzo della crisi»)
e all’intenzione di innalzare le tasse, ovvero il piano di presidente e Democratici per porre termine all’era dell’aliquota del 15% di capital gains su parte dello stipendio per i manager di fondi speculativi e di equity. L’iniziativa fallì perché faceva parte di un progetto di legge più ampio che fu bocciato e ora è da ritenersi lettera morta, visto il controllo repubblicano della House of Representatives: stranamente, l’emendamento che inseriva la norma fu presentato dal senatore democratico di New York, Charles Schumer, il quale ancora nel 2010 riuscì a ottenere 500mila dollari di finanziamenti da manager di fondi per il mid-term.
Nel 2008, Barack Obama ottenne qualcosa come 750 milioni di dollari di donazioni e i suoi strateghi puntavano a 1 miliardo per la campagna della rielezione: difficile, visto che oltre a Wall Street, anche gli attivisti liberali e ambientalisti hanno minacciato diserzioni, poiché delusi dal poco vigore di Obama nel mantenere le promesse. Storicamente, poi, i Democratici negli ultimi vent’anni si sono sempre accaparrati la parte più consistente delle donazioni da parte degli hedge funds: dal 1990 al 2008, stando ai dati del Center for Responsive Politics, i manager di fondi speculativi e il loro dipendenti hanno contribuito con 40 milioni di dollari per i candidati al Congresso e alla presidenza, due terzi dei quali finiti ai Democratici.