Ciao Rott, il punto che sollevi è come sempre interessante, oggi molto discusso e giustamente al centro dell’attenzione. Cercherò allora di chiarire perché, in linea generale, non mi convinca l’ipotesi interpretativa che vede nella strategia finanziaria anglosassone una delle matrici fondamentali della debolezza europea, pur avendo essa, a prima vista, molte prove inconfutabili.
Parto dalla considerazione in grassettato, di cui condivido in pieno l’elemento performativo attribuito alla comunicazione e la sua rilevanza strategica, con una precisazione. In un Occidente in decadenza demografica, saturo di debiti, in arretramento nel manifatturiero e dunque portatore di un modello socio-economico non più sostenibile è il controllo della leva finanziaria stessa a diventare condizionante in quanto è il rifinanziamento del debito il mezzo del ricatto: pone limiti al potere di negoziazione degli stati medesimi. In questo modo essenziale non è più tanto (e solo) il controllo del bene materiale, ma la gestione dell’immateriale, cioè dell’equivalente universale nella sua forma di moneta-credito. Di qui la tecnocraticità anelettiva delle istituzioni internazionali principali, ovvero una polarizzazione crescente tra élites – cioè gruppi che dispongono oligarchicamente della facoltà di controllare i beni illimitati quindi condizionanti – e stragrande maggioranza della società civile e politica, esclusa e dunque fondamentalmente impotente. Polarizzazione che va intesa in senso cogente: non trovo lecito, quindi, attribuire alle élites quel mood antieuropeo di cui pur sono impregnati molti mezzi di comunicazione anglosassoni proprio perché l’asimmetria tra gruppi di potere e massa degli esclusi è tale da rendere efficaci nella loro funzione gli stessi mezzi di comunicazione solo se temperano l’universalismo dei primi sussumendo in qualche modo (demagogicamente) la frustrazione degli altri e il conseguente particolarismo gregario che in tutto l’Occidente trova sostegno crescente. Questo è anche il paradosso in cui siamo immersi, per cui i particolarismi e i localismi sono ormai, in forme diverse, fenomeno di massa, in reazione sterile all’universalismo elitario tanto progressista quanto conservatore che va dal banchiere all’intellettuale, dal tecnocrate al Ceo di una transnazionale.
Pensare che Soros piuttosto che un qualsiasi gestore di hf, che Goldman S piuttosto che Barclays o che l’amministrazione Usa piuttosto che i fondi pensione vedano di buon occhio le difficoltà europee per il fatto che, in una misura relativa, possono trarne benefici limitati e temporanei è, imho, riduttivo. Che i report di Ubs o di Morgan St, o i possibili downgrades in serie di S&P & Co (se giudicheranno l’accordo insufficiente procederanno senza pietà) siano battenti sulle difficoltà dell’euro testimoniano, per quello che ho detto sopra, molto di più il timore concreto che l’euro stia diventando una minaccia sempre più reale per il sistema finanziario occidentale nella sua totalità – di cui tutti gli esponenti di cui sopra fanno rigorosamente parte, nella gioia e nel dolore, in salute ed in malattia – facendone esplodere le contraddizioni latenti (leva crescente rispetto all’economia reale) piuttosto che la decisione a tavolino di una speculazione internazionale che, dalla propria torre d’avorio, si può permettere di bastonare a destra e a manca raccogliendo i frutti della propria forza comunicativa – non è più questo il tempo.
Che poi alcuni hf abbiano ottimamente performato in questo contesto non toglie il fatto che la loro performance è e resta necessariamente marginale in un contesto in cui tutte le banche occidentali subiscono la pressione degli spreads sui margini di interesse, i bilanci entrano in sofferenza, l’interbancario è in stato comatoso. L’Europa gode di pessima fama non per questioni generiche di principio o per questioni di funding debt degli Usa o della Gbr, ma perché è percepita oggi come l’anello debole, il possibile punto di rottura di un sistema finanziario, quello occidentale, in fortissima tensione. Che poi il messaggio sia di minaccia/ricatto secondo gli usi degli analisti finanziari sotto dettatura (che richiederebbero più Europa, un prestatore di ultima istanza e inflazione salvifica) o di euroscetticismo all’ennesima potenza condito da una buona dose di pregiudizi a buon mercato rivisti e rielaborati come nei tabloid inglesi, beh, questo ha a che fare con l’eterogenesi dei destinatari e la crescente polarizzazione delle società in cui viviamo.
Quanto alle mosse britanniche faccio fatica davvero ad intravedere come avrebbero potuto (se anche avessero voluto e non volevano) agire diversamente; come indica nel messaggio successivo al tuo Bosmeld, semplicemente gli inglesi, oggi, non si possono permettere di perdere lo status di centro finanziario; una convergenza stretta all’eurozona del fiscal compact da un lato imporrebbe, in prospettiva, costi elevatissimi per un paese in largo deficit strutturale e dall’altro metterebbe in questione l’asset principale del paese, ponendo questioni, a breve termine, sul Gilt che solo una politica monetaria autonoma può ancora sostenere.
Come tutto questo, infine, possa influenzare i corsi delle t1 è davvero impossibile da prevedere, i meccanismi di trasmissione sono molti e non unidirezionali; rimane però indicativo il fatto che, pur in mezzo a visioni contrapposte ed interessi divergenti abbia prevalso, ancora una volta e pur in modalità rabberciata e insufficiente, il tentativo di tenere in piedi l’euro. A fronte delle disfunzioni e dei costi palesati negli ultimi 2 anni dall’architettura europea è una controprova di quanto le dinamiche aggregatrici siano in opera e di quanto il rischio di un meltdown finanziario in seguito al ritorno alle proprie valute nazionali incuta fortissimi timori. Da possessore di perpetue continuo a ritenere che lo sfaldamento, per i motivi sopra detti, rimanga poco probabile e che, come nelle recenti precisazioni della Merkel sull’idea di una partecipazione dei privati alle perdite, il sistema finanziario nella sua complessità mantenga un enorme potere contrattuale. Perciò tengo e resto fermo, abbastanza fiducioso sul medio periodo anche se le entrate sono state sbagliate e, a questo punto, anche in caso di buon esito, il rendimento annualizzato a tender offer accettata – in molti casi mi sembra la strada più probabile – non poi superiore a quello che si otterrebbe, oggi, investendo su senior di istituti bancari primari. In ogni caso non una genialata