V2 DAY 25aprile Informazione Libera

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[center:812f8b3dce]Gli schiavi moderni[/center:812f8b3dce]


"La legge Biagi ha dato risultati straordinari, ma come tutte le cose puo' essere migliorata ed e' perfettibile". Silvio Berlusconi.

"La legge si sta rivelando efficace sopratutto nella tutela dei segmenti deboli, in particolare per l'occupazione femminile”. Roberto Maroni.

“ La legge Biagi favorisce occupazione permanente”. Maurizio Sacconi, sottosegretario al Welfare.

“Se in Italia siamo «percentualmente al livello più basso di disoccupazione» il merito è delle «riforme coraggiose» varate dal governo sul lavoro e «in particolare quella che porta il nome di un martire che è Marco Biagi...l' allternativa non è tra contratto a tempo indeterminato e flessibilità ma tra flessibilità», che pure si deve puntare a stabilizzare, «e precarietà»". Gianfranco Fini.

Insomma sono tutti d’accordo: legge Biagi = tutela dei deboli, occupazione permanente, flessibilità e risultati straordinari.

Sarà, ma per me questa legge è un passo indietro rispetto alla schiavitù.

Nel 1850 il costo di uno schiavo in America era di 1.000 dollari equivalenti a 38.000 dollari di oggi.
Un investimento da tutelare. Lo schiavo doveva essere istruito per il lavoro a cui era destinato. La sua salute andava protetta nel tempo.

La legge Biagi, Co.Co.Co. e Co.Co.Pro hanno portato insicurezza e stipendi da fame.

Fare lo schiavo sudista era meglio. Quello almeno poteva farsi una famiglia.

Lo slogan “Lavorare tutti, lavorare meno” è stato quasi raggiunto.
L’Italia si è trasformata in una nazione di precari, di sotto-occupati e di senza lavoro.
Di universitari che rispondono nei call center a 5 euro all’ora.

Le panzane della casa circondariale della libertà sull’occupazione meritano una risposta.

Invito tutti coloro che sono vittime della legge Biagi a raccontare la loro storia con un commento a questo Post.
Le stamperò in un volume che invierò a tutti i segretari di partito.


di beppe grillo
 
Polito e il porno

[center:12bb54f090]La Casta dei giornali/ Polito e il porno [/center:12bb54f090]


Polito distingue il porno dal finanziamento pubblico.
O c'è uno o c'è l'altro.
Ma per il Riformista lui li ha tutti e due.
Ha infatti come risorse il culo e le tasse dei cittadini per illustrare (ben pagato) il suo pensiero agli italiani.

Gli intellettuali di sinistra sono più uguali degli altri, ma sempre con i soldi dei lavoratori.

" «Se il porno rende libero Dagospia, il finanziamento rende liberi noi», affermava Polito, aggiungendo: «Prendendo i contributi non siamo obbligati a rispondere a nessun imprenditore e a nessun politico.

Al Riformista seguiamo solamente le nostre idee... Sono finanziamenti a idee che, senza aiuti, non riuscirebbero ad avere un loro spazio».

È inquietante e forse illuminante l’immagine pornografica che il direttore del Riformista confessava di avere a proposito dei contributi che gli consentivano di dare spazio alle proprie idee.

E Rizzo e Stella rilevavano poi che Il Riformista e Libero, ambedue facenti capo agli Angelucci, pur pretendendosi non obbligati a rispondere ad alcun imprenditore, «si unirono nello stesso coro: massima fiducia e solidarietà» quando Giampaolo Angelucci fu arrestato sotto l’accusa di corruzione e illecito finanziamento ai partiti.

Ma a parte ciò, Polito non spiegava perché lo Stato dovrebbe finanziare e fare spazio alle sue idee, e non a quelle di Pinco Pallo.

Non sembra che Polito possa arrivare a teorizzare che vadano finanziati solo lui e altri quattro o cinque pensatori e agitatori politici come lui, e non Pinco Pallo o altri individui pur provvisti d’idee (e dotati, come lui, d’interessi da difendere), per il semplice fatto che questi possano essere privi di rapporti col Palazzo o con Angelucci o con Berlusconi.

Né sembra che Polito possa arrivare a pensare che le sue idee siano più meritevoli di altre e che per questo uno Stato Illuminato ed Etico debba finanziare le prime e penalizzare le seconde.

Polito probabilmente è convinto che, nel libero mercato delle idee, le sue siano risultate particolarmente pregevoli e quindi degne di pubblico sostegno.
Peccato che, al contrario di Dagospia –
che il suo spazio, il suo ruolo e il suo porno li conquista quotidianamente in un mercato altamente competitivo quale è quello di Internet –

non risulta affatto che Il Riformista e le idee di Polito abbiano agito in un libero mercato, vincendo la concorrenza in edicola (no, lì proprio non l’ha vinta), vincendo nel confronto politico-culturale (no, la visibilità assicuratagli dall’amico Mieli sul Corriere della Sera e

la cooptazione diretta nella casta politica garantitagli dall’amico Rutelli non significano questo) e vincendo infine il libero concorso per l’assegnazione degli incentivi pubblici (no, questo lo sa benissimo Polito, per accedere alle provvidenze dell’editoria non c’è

stato alcun concorso né sono servite le sue pur pregevoli idee: è bastato l’accesso ai fondi del Dipartimento acquisito da Macaluso, quando berta filava, con la sua nobile ma marginale rivista).
Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa
 
Gli schiavi moderni 2

[center:135dc9147f]GLI SCHIAVI MODERNI 2[/center:135dc9147f]


Il post “Gli schiavi moderni” ha raggiunto i 3227 commenti.
Hanno scritto ventenni, trentenni, quarantenni da tutta Italia.
Situazioni critiche, penose, di mobbing, di salarielemosina.

Leggere i commenti fa stringere un po’ il cuore, soprattutto per ragazzi e ragazze con diploma, laurea, master che si ritrovano a lavorare, se ci riescono, sottopagati, senza garanzie, per pochi mesi.

Senza nulla.

La legge Biagi va abolita, è una legge pensata dalla sinistra e approvata dalla destra. Una legge bipartisan.
Una legge che esternalizza il rischio dall’imprenditore al dipendente, ora trasformato in co.co.co e co.co.pro.

L’azienda va male? Il sottoccupatosottopagato va a casa.
L’azienda va bene? Altri tre mesi di sottoccupazione.

Nei commenti il principale lavoro disponibile per i neo laureati è il call center (a 3/5 euro all’ora) che, tradotto in italiano, vuol dire rompere le b..e a qualcuno al telefono per vendergli servizi non richiesti.

E’ questo il futuro che vogliamo? Fare i centralinistipiazzisti?
Basta con le vendite telefoniche. Basta con le prese per il c..o.

Cosa stiamo facendo? Esportiamo le industrie in Cina e ci teniamo i call center?
Ma facciamo il contrario piuttosto.

Biagi è diventato un martire, un santino della sinistra usato dalla destra, ma questo da solo non è un buon motivo per tenerci una pessima legge con il suo nome.

Invito chi non l’avesse ancora fatto a raccontare la sua storia in questo nuovo post che rimarrà permanente con una bandierina sulla destra del blog.

Oltre ad inviare un estratto ai segretari di partito (avete notato che nessuno vuol parlare di questa legge?), sceglierò le testimonianze più importanti e le renderò disponibili gratuitamente sotto forma di libro on line con il titolo:

“Gli Schiavi Moderni”.

Che spero diventi un best seller.


Beppe Grillo
 
SCHIAVI MODERNI 3

[center:cacdfef918]SCHIAVI MODERNI 3[/center:cacdfef918]

L’iniziativa “Gli schiavi moderni” continua con questa lettera di Mauro Gallegati della Facolta' di Economia Giorgio Fua' dell’Universita' Politecnica delle Marche, che si è preso la briga di dimostrare con numeri e tabelle quello che è sotto gli occhi di tutti: che i posti di lavoro diminuiscono e che il precariato aumenta insieme ai nuovi poveri, quelli che in Francia sono stati chiamati “generazione low cost”.
Scrivete le vostre storie, le più interessanti saranno raccolte in un libro on line scaricabile gratis da questo blog.

“ Caro Grillo,
aiutami. Passo il giorno a spulciare e produrre statistiche sull’economia, e sotto campagna elettorale non so se spararmi a un piede o chiedere a lui di sparare a me. So che non è facile fidarsi di uno che per mestiere dà i numeri, ma vorrei solo dare due chiarimenti su cosa è successo a lavoratori e disoccupati negli ultimi 10 anni, da quando è andato al governo Prodi, a quando ci è andato Berlusconi, a oggi.

Se su deficit e debito pubblico, Pil, competitività internazionale e indebitamento delle famiglie siamo tutti unanimi nel dire che le dinamiche sono state tra il bruttino e il disastroso, quelle sull’occupazione sono statistiche che il centro destra porta con sicurezza a vanto del proprio operato.

Almeno sinora. Poi qualche giorno fa l’Istat ha detto che l’anno scorso l’occupazione è calata – e Tremonti ha ribattuto che non è vero, e che per lui “conta solo l’Eurostat” (dimenticandosi che all’Eurostat i dati li dà l’Istat). Bankitalia ha detto che il problema è che i posti di lavoro durano poco, e un giovane su quattro è precario – e Maroni ha ribattuto che i posti a termine “sono astrazioni statistiche”. Mi prude, ti dicevo, qualche numero di chiarimento.

L’occupazione si misura in due modi: contando quante sono le persone che stanno lavorando, e quante sono le “unità di lavoro equivalenti”, che tengono conto di quante ore lavora ognuno.
Se ci sono due idraulici che lavorano 60 ore alla settimana, gli occupati sono due, ma visto che entrambi fan l’equivalente di un tempo pieno e mezzo le unità di lavoro sono tre.

Se poi il lavoro va male, ed entrambi lavorano solo 20 ore, i lavoratori sono sempre due, ma le unità di lavoro sono solo più una. In pratica, in un caso si contano “le teste”, nel secondo quanto lavoro c’è.

Nel grafico allegato si vede cosa è successo a lavoro e lavoratori nel decennio che si apre con Prodi e si chiude con Berlusconi. La prima cosa da dire è che l’occupazione è cresciuta durante il centro destra.

Ma la crescita era già in atto con il centro sinistra. La “piccola” differenza, è che durante il centro sinistra l’occupazione parte fiacca e poi cresce, durante il centro destra parte crescendo, e rallenta bruscamente negli ultimi due anni.

Guardando alle unità di lavoro poi il rallentamento è ancora più drastico, e diventa un calo nell’ultimo anno (quello che sottolineano sia Istat che Bankitalia). Da notare che per la prima volta nella storia repubblicana sono più i lavoratori che le unità di lavoro: c’è più gente che lavora, sì, ma di lavoro ce n’è poco.


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Nel secondo grafico che allego si vede che anche la disoccupazione è calata negli ultimi cinque anni. Di nuovo, non è un dono del centro destra, il calo è in corso (fortunatamente) da circa un decennio.

Il numero dei disoccupati non è una statistica da guardare da sola. Ci sono casi in cui le cose vanno bene, ma la disoccupazione aumenta: quel che capita è che molti sono presi da un turbine di ottimismo e si mettono a cercar lavoro, e finché non lo trovano il numero di disoccupati aumenta.

E ci sono casi in cui il mercato è talmente depresso che molti alzano bandiera bianca, smettono di cercar lavoro, e il numero di disoccupati diminuisce. Nel grafico ho riportato il numero dei cosiddetti “scoraggiati”, cioè persone senza lavoro che a domanda dell’Istat “Perché non sta cercando lavoro?” barrano la X su “Ritiene di non riuscire a trovarlo”.

Il numero di scoraggiati – 600 mila fin verso il 2003 – nel 2004 ha una prima impennata che li porta al milione, per poi salire ancora a circa 1.250.000. Basta convincere un altro mezzo milione di persone che è inutile stare a cercarsi un lavoro e porteremo la disoccupazione ad un confortante 5.5%.


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Infine, i precari. Dai dati Eurostat, risulta che Berlusconi prende il testimone del precariato, nel secondo trimestre del 2001, a circa il 9.5%: questa era la percentuale dei lavoratori con contratto temporaneo sul totale dei dipendenti. Nel secondo trimestre del 2005 eravamo già al 12.5% (e non stiamo contando i co.co.co.).

Un Maroni potrebbe sostenere però che il fatto che un contratto a termine non cambia un granchè, che sapere che il tuo posto di lavoro è solido salvo contrordine, o che è a termine salvo contrordine, non cambia nulla.

Questa è una tale eresia che ho sacrificato il sabato sera, ed ho calcolato da dati di fonte Inps una semplice statistica: la correlazione che si osserva tra il tipo di contratto che ha una lavoratrice, e il fatto che questa decida o meno di fare un figlio. Bene, avere un lavoro precario riduce di dieci volte la probabilità che una lavoratrice faccia un figlio.
Grazie per l’ospitalità”.


di Mauro Gallegati
 
SCHIAVI MODERNI 4

[center:267d98923a]SCHIAVI MODERNI 4[/center:267d98923a]


La legge Biagi, o meglio la sua applicazione, ha avuto come conseguenza la precarietà e l’abbassamento degli stipendi insieme all’utilizzo di professionalità elevate: ingegneri, tecnici, informatici, per lavori di bassa o infima qualità.

Questo me lo avete detto voi, con le vostre testimonianze che riporterò nel libro: “Gli Schiavi Moderni” che sarà pubblicato entro l’estate su questo blog.

Il libro sarà scaricabile gratuitamente o acquistabile nella sua versione cartacea.

Due, comunque, mi sembrano le modifiche da operare subito alla legge Biagi:
- aumentare la remunerazione per i precari rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato con una politica fiscale che sostenga il lavoro precario
- porre un tetto massimo alle imprese per l’utilizzo di precari, ad esempio il 10%.

Il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz mi ha inviato questa analisi sul mercato del lavoro in Italia .

Belin, un premio Nobel che scrive a un comico!

“Caro Beppe,
dall'Italia mi giungono notizie allarmanti: la legge sul primo impiego viene ritirata in Francia dopo poche settimane di mobilitazione studentesca e da voi la legge 30 resiste senza opponenti dopo anni.

Permettimi allora una breve riflessione. Nessuna opportunità è più importante dell'opportunità di avere un lavoro.

Politiche volte all'aumento della flessibilità del lavoro, un tema che ha dominato il dibattito economico negli ultimi anni, hanno spesso portato a livelli salariali più bassi e ad una minore sicurezza dell'impiego.

Tuttavia, esse non hanno mantenuto la promessa di garantire una crescita più alta e più bassi tassi di disoccupazione. Infatti, tali politiche hanno spesso conseguenze perverse sulla performance dell'economia, ad esempio una minor domanda di beni, sia a causa di più bassi livelli di reddito e maggiore incertezza, sia a causa di un aumento dell'indebitamento delle famiglie.

Una più bassa domanda aggregata a sua volta si tramuta in più bassi livelli occupazionali.
Qualsiasi programma mirante alla crescita con giustizia sociale deve iniziare con un impegno mirante al pieno impiego delle risorse esistenti, e in particolare della risorsa più importante dell'Italia: la sua gente.

Sebbene negli ultimi 75 anni, la scienza economica ci ha detto come gestire meglio l'economia, in modo che le risorse fossero utilizzate appieno, e che le recessioni fossero meno frequenti e profonde, molte delle politiche realizzate non sono state all'altezza di tali aspirazioni.

L'Italia necessita di migliori politiche volte a sostenere la domanda aggregata; ma ha anche bisogno di politiche strutturali che vadano oltre - e non facciano esclusivo affidamento sulla flessibilità del lavoro.
Queste ultime includono interventi sui programmi di sviluppo dell'istruzione e della conoscenza, ed azioni dirette a facilitare la mobilità dei lavoratori.

Condividiamo l'idea per cui le rigidità che ostacolano la crescita di un'economia debbano essere ridotte. Tuttavia riteniamo anche che ogni riforma che comporti un aumento dell'insicurezza dei lavoratori debba essere accompagnata da un aumento delle misure di protezione sociale.

Senza queste la flessibilità si traduce in precarietà.

Tali misure sono ovviamente costose.
La legislazione non può prevedere che la flessibilità del lavoro si accompagni a salari più bassi; paradossalmente, maggiore la probabilità di essere licenziati, minori i salari, quando dovrebbe essere l'opposto.

Perfino l'economia liberista insegna che se proprio volete comprare un bond ad alto rischio (tipo quelli argentini o Parmalat, ad alto rischio di trasformazione in carta straccia), vi devono pagare interessi molto alti.

I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento.
In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e che fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.

Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?
Grazie per l'ospitalità.”
Joseph E. Stiglitz
 
Gli schiavi moderni/5

[center:04c4e1399b]SCHIAVI MODERNI 5[/center:04c4e1399b]


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Ho l’impressione che i politici vivano in un mondo a parte, lontano dai cittadini. E che si cibino di intenzioni di voto, di tendenze elettorali, di poltrone e poltroncine. Ma anche una sedia a dondolo gli può bastare.

L’unica realtà che conoscono è la loro e il cittadino è sempre suddito. Nessuno ha chiesto truppe in Libano, indulto, aumento della clandestinità e bavaglio alle intercettazioni. Se Prodi si fosse presentato con un programma del genere, l’originale avrebbe preso il 90% dei voti.
La legge Biagi è uno scandalo, perchè il Governo non ci ha messo mano nei primi 100 giorni? I ragazzi italiani valgono meno dei delinquenti? Che spettacolo: importiamo schiavi e li creiamo contemporaneamente a casa nostra.

Pubblico un’analisi degli effetti della legge Biagi di Roberto Leombruni di LABOR e di Mauro Gallegati della Facoltà di Economia di Ancona.

“Caro Grillo,
quello che è successo all’Atesia, cui l’Ispettorato del lavoro ha imposto di assumere a tempo indeterminato 3200 collaboratori “a progetto” (le virgolette sono s’obbligo, perché il “progetto” era quello di rispondere ai telefoni di un call center), dimostra quanto sia urgente tornare su un contratto di lavoro – il contratto di collaborazione coordinata e continuativa – che è talmente precario che quando hai finito di dire come di chiama è già finito. A meno che non intervenga un giudice, appunto.

Bene, dato che Prodi ha affermato più volte che la lotta al precariato è una priorità del suo governo, sarebbe una buona idea aiutare i giudici e riformare radicalmente un contratto che negli ultimi dieci anni ha tenuto milioni di giovani ai margini del mercato del lavoro – posizione dalla quale è stato più agevole un loro pacato sfruttamento.

Quanti sono veramente i collaboratori?
Sì, sono milioni.
Era da dieci anni che aspettavamo stime affidabili.
Basti dire che l’Istat – forse pensando fossero pochi – ha atteso il 2004 prima di introdurre una domanda ad hoc nelle sue indagini, e dalle prime stime sembrava non fossero poi molti (se 400.000 vi sembran pochi).

Pochi giorni fa però l’Inps ha finalmente pubblicato il suo osservatorio basato su dati reali, e ora sappiamo la verità: i collaboratori, solo nel 2004, erano quasi il triplo, erano più di un milione.
Non stiamo parlando dei soli collaboratori, tenendo quindi fuori i professionisti, che di solito vengono considerati tra i salvati (ma su questo vedi più sotto, alla voce “apri la partita IVA o ti licenzio”).

E anche considerando solo le persone per le quali la collaborazione è l’unica forma di lavoro, e hanno un contratto con un solo committente – categoria di solito identificata come la più debole – sempre al 2004 se ne contavano 840.000.
Perché sono da cambiare.

Per tanti motivi, che vengono fuori da tante storie che si leggono anche in questo blog. Ma il vero problema è che son nate male.
Prima del ’96 l’unico modo regolare per prendere un lavoratore per un periodo breve era quella di assumerlo con un tempo determinato, pagando contributi sociali di circa il 33%, e – come in tutto il mondo civile, da un secolo a questa parte – pagandogli ferie, tredicesima e liquidazione.

Esisteva però una prassi molto vicina al lavoro nero, che era quella di proporre un contratto di prestazione d’opera occasionale “e poi magari vediamo”, evitando così di pagare contributi e tutto il resto.
Nel ’96 però nasce la famigerata formula della “collaborazione coordinata e continuativa”, che se ha regalato un 10% di contributi a quei lavoratori quasi in nero, di fatto ha finito per legalizzare la prassi di mascherare dei rapporti di lavoro dipendente sotto una etichetta ancora più innocente della prestazione occasionale.

In assenza di controlli efficaci non c’è voluto molto perché si cominciassero a utilizzare le collaborazioni anche nei call center (l’equivalente moderno della catena di montaggio) e per lavori di durata di anni.
Chi ne ha voluto approfittare si è garantito una forma di lavoro a costi stracciati – rispetto al lavoro dipendente il risparmio era di circa il 40%, meglio di un tre per due al supermercato – e una generazione di lavoratori si è trovata a lavorare per anni senza quasi mettere da parte nulla per la propria pensione, e con un livello di tutele da Inghilterra dei tempi della rivoluzione industriale.

Basti pensare che solo nel 2000 è arrivata la copertura per gli infortuni e le malattie professionali. Del diritto di sciopero ovviamente ancora niente.
Perché la riforma Biagi ha peggiorato le cose.
Per la verità una riforma c’è appena stata, con la legge Biagi, ma a parte cambiare il nome in un “cocoprò” dal suono appena meno avicolo è stata una riforma per molti versi peggiorativa.

Le intenzioni erano di limitare l’utilizzo improprio delle collaborazioni, e per far questo la legge richiede una forma scritta al contratto (prima non era necessaria, anche all’invenzione della scrittura ci abbiamo messo un po’ ad arrivarci), e che si identifichi uno specifico progetto.

Se non si può identificare un progetto l’impresa può essere obbligata ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro dipendente.
È questa la clausola che è stata applicata per Atesia (come è stato osservato, è poco credibile che più di tremila lavoratori di un call center abbiano ciascuno il proprio progettino specifico da svolgere).

Peccato che la stessa legge stabilisca (art. 69) che il controllo del giudice “non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”.
E che con la circolare 1/2004 Maroni, come ulteriore liberalità, abbia precisato che una cocoprò può essere rinnovata quante volte vi pare.

Come dire, basta far la fatica di scrivere una volta all’anno un progetto ah hoc e si può tenere un dipendente a vita come collaboratore.
Nei fatti, la Biagi ha provocato una reazione quasi schizofrenica da parte delle imprese. In molti casi, le vecchie cococò sono state semplicemente trasformate in cocoprò.

Altri, temendo la clausola citata sopra, hanno reagito con l’arma del ricatto.
Lo dimostra una ricerca dell’IRES, condotta su un campione di persone che hanno aperto una partita IVA tra il 2003 e il 2004, dalla quale è venuto fuori come nel 50% dei casi questi l’hanno aperta perché gli è stato chiesto dal datore di lavoro, pena il non rinnovo del contratto. Peccato che il 40% di loro abbiano un unico committente (l’80% contando i rapporti quasi esclusivi), e continuino a essere a tutti gli effetti in quella categoria dei “collaboratori puri” che si diceva”.
 
GLI STIPENDI DEI DIRETTORI

Molte famiglie italiane vivono sotto la soglia di povertà.

Ma anche i poveri pagano le tasse.
Ogni euro che versano è per loro un vero sacrificio.

Lo Stato però li ripaga.
Senza il loro contributo gente come Ferrara, Polito, Belpietro, Feltri non avrebbe potuto vivere come un pascià.

I loro stipendi li devono a noi.
La loro felicità è anche la nostra.
Ci addolora solo che non ci dicano mai un grazie.
Che questi dipendenti statali non pubblichino mai una notizia vera.

"Un’occhiata agli stipendi dei direttori: Gianluigi Paragone, direttore della Padania, 5.000 euro netti; Menichini, 4-5.000 euro netti; Padellaro, 9.000 euro netti («Le posso assicurare che la mia retribuzione è in linea con quello che prendevo all’Espresso e al Corriere della Sera».).

Ferrara: «Massimo, quanto guadagno al Foglio io? 8.000 al mese.
Non è una cosa eccezionale, no? Ma Padellaro vale meno di me, no?
Ma mi sembra ovvio, è un signor nessuno, io sono Giuliano Ferrara, non so se ti rendi conto... ».

Diaconale: «Io ne prendo di meno, molto di meno».
Polito: «Purtroppo è così basso che non ci faccio una bella figura... 9.200 euro mensili».

Feltri: «15.000 euro il mese».
Belpietro: «9.000 euro al mese più un bonus»..."

Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa
 

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