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L'ANALISI
Usa, una voragine da 2 trilioni di dollari
di NOURIEL ROUBINI
UN anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.
Si pensava che in totale le perdite sui mutui subprime non avrebbero superato i 200 miliardi di dollari. Come avevo sottolineato, in un contesto che vede gli Stati Uniti e l'economia globale scivolare sulla china di una grave recessione, le perdite delle banche non si potevano limitare ai mutui subprime, ma tendevano ad estendersi ad altre forme di prestiti ipotecari (near-prime e prime), alle carte di credito, al settore immobiliare commerciale, a crediti di vario tipo (in favore di studenti, di imprese commerciali e industriali o per l'acquisto di automobili), ai corporate bond, ai titoli sovrani o emessi da stati ed enti locali, oltre che a tutti gli asset di copertura dei suddetti prestiti. Ma di fatto, da allora i write-down delle banche Usa hanno oltrepassato la soglia di un trilione di dollari (la cifra da me indicata come previsione minima delle perdite), e a questo punto istituzioni quali l'Fmi e la Goldman Sachs prevedono perdite per oltre due trilioni.
Se qualcuno continua a ritenere esagerata questa cifra, vorrei far notare che secondo le ultime valutazioni di Rge Monitor, il mio istituto di ricerca e consulenza, la cifra complessiva delle perdite sui prestiti concessi dagli istituti finanziari Usa, cui vanno aggiunte quelle risultanti dal calo del valore di mercato degli asset in loro possesso (ad esempio i titoli garantiti da mutui ipotecari) potrebbe arrivare addirittura a 3,6 trilioni.
Le banche Usa e gli intermediari sono esposti per la metà circa di questa somma, cioè per 1,8 trilioni di dollari. Il resto è distribuito tra altre istituzioni finanziarie, sia negli Usa che altrove. L'autunno scorso il capitale a copertura degli asset bancari era di appena 1,4 trilioni, per cui il sistema bancario Usa risultava in rosso per 400 milioni di dollari; e anche dopo gli interventi di ricapitalizzazione ad opera del governo e del settore privato, la sua riserva di capitale è praticamente pari a zero.
Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell'Europa continentale.
Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all'attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una "bad bank" governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative - dopo un'iniziale perdita delle banche - degli asset tossici; l'acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l'attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione - chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio "government receivership") in caso di rifiuto di questo termine scabroso - delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.
Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della "bad bank", il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l'ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo ( nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato.
La soluzione della "bad bank" comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all'idea - invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro - che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo - è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.
Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi - con una garanzia da parte del governo - a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della IndyMac Bank).
La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un'importanza sistemica, "too big to fail" - cioè troppo grosse per poter fallire - e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.
Le fusioni tra "banche zombie" ricordano un po' il comportamento degli ubriachi che cercano di aiutarsi l'un l'altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of Americ hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.
E' questa la soluzione che all'inizio degli anni '90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l'attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di "banche zombie", che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.
Copyright: Project Syndicate, 2008. www. project syndicate. org (traduzione di Elisabetta Horvat)
(26 febbraio 2009)
Usa, una voragine da 2 trilioni di dollari
di NOURIEL ROUBINI
UN anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.
Si pensava che in totale le perdite sui mutui subprime non avrebbero superato i 200 miliardi di dollari. Come avevo sottolineato, in un contesto che vede gli Stati Uniti e l'economia globale scivolare sulla china di una grave recessione, le perdite delle banche non si potevano limitare ai mutui subprime, ma tendevano ad estendersi ad altre forme di prestiti ipotecari (near-prime e prime), alle carte di credito, al settore immobiliare commerciale, a crediti di vario tipo (in favore di studenti, di imprese commerciali e industriali o per l'acquisto di automobili), ai corporate bond, ai titoli sovrani o emessi da stati ed enti locali, oltre che a tutti gli asset di copertura dei suddetti prestiti. Ma di fatto, da allora i write-down delle banche Usa hanno oltrepassato la soglia di un trilione di dollari (la cifra da me indicata come previsione minima delle perdite), e a questo punto istituzioni quali l'Fmi e la Goldman Sachs prevedono perdite per oltre due trilioni.
Se qualcuno continua a ritenere esagerata questa cifra, vorrei far notare che secondo le ultime valutazioni di Rge Monitor, il mio istituto di ricerca e consulenza, la cifra complessiva delle perdite sui prestiti concessi dagli istituti finanziari Usa, cui vanno aggiunte quelle risultanti dal calo del valore di mercato degli asset in loro possesso (ad esempio i titoli garantiti da mutui ipotecari) potrebbe arrivare addirittura a 3,6 trilioni.
Le banche Usa e gli intermediari sono esposti per la metà circa di questa somma, cioè per 1,8 trilioni di dollari. Il resto è distribuito tra altre istituzioni finanziarie, sia negli Usa che altrove. L'autunno scorso il capitale a copertura degli asset bancari era di appena 1,4 trilioni, per cui il sistema bancario Usa risultava in rosso per 400 milioni di dollari; e anche dopo gli interventi di ricapitalizzazione ad opera del governo e del settore privato, la sua riserva di capitale è praticamente pari a zero.
Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell'Europa continentale.
Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all'attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una "bad bank" governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative - dopo un'iniziale perdita delle banche - degli asset tossici; l'acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l'attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione - chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio "government receivership") in caso di rifiuto di questo termine scabroso - delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.
Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della "bad bank", il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l'ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo ( nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato.
La soluzione della "bad bank" comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all'idea - invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro - che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo - è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.
Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi - con una garanzia da parte del governo - a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della IndyMac Bank).
La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un'importanza sistemica, "too big to fail" - cioè troppo grosse per poter fallire - e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.
Le fusioni tra "banche zombie" ricordano un po' il comportamento degli ubriachi che cercano di aiutarsi l'un l'altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of Americ hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.
E' questa la soluzione che all'inizio degli anni '90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l'attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di "banche zombie", che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.
Copyright: Project Syndicate, 2008. www. project syndicate. org (traduzione di Elisabetta Horvat)
(26 febbraio 2009)