Tra sabato e domenica, tra Washington e Parigi, i Grandi devono trovare
"l'arma nucleare" contro la crisi. Protezione statale del mercato interbancario
Nel week end l'ultima spiaggia
48 ore per evitare il crac globale
 
 
di FEDERICO RAMPINI
 
 Un broker della borsa di New York
 
 
 
È L'ULTIMA spiaggia, è il weekend in cui i leader mondiali devono fare il miracolo. Un frenetico susseguirsi di vertici - oggi si chiude il G7 a Washington, domani si ritrova l'Eurogruppo a Parigi - deve riuscire in 48 ore a dare una parvenza di controllo su una situazione impazzita. La ricchezza bruciata nelle Borse rispetto a un anno fa raggiunge 14.300 miliardi di dollari: è sparito esattamente l'intero Pil annuo degli Stati Uniti. 
 
E queste sono "solo" perdite su azioni, non includono i crolli obbligazionari, né le bancarotte o le altre insolvenze di debiti. Sotto la pressione dell'onda di panico, i governi e i banchieri centrali tentano da ieri sera di mostrare un fronte comune. Per placare il terrore deve uscire una sorpresa dal G7 o dal vertice europeo, un eccezionale sussulto di leadership. Ieri sera il primo incontro del G7 ha partorito una bozza in cinque punti, le cinque priorità su cui si concentra l'azione dei governi: impedire fallimenti di grandi istituzioni finanziarie; scongelare i mercati del credito; ricapitalizzare le banche; garantire sicurezza ai depositanti; aumentare la trasparenza dei bilanci. Un'aggiunta finale promette politiche macroeconomiche anti-recessione. 
 
Quel documento diffuso da Washington nella serata non scioglie un'ambiguità. Non si capisce quanto sia un riassunto razionale di tutto ciò che i singoli governi hanno fatto finora, e continueranno a fare ciascuno per conto suo. Oppure se il G7 segnali il passaggio a un'azione comune, pienamente coordinata, quindi anche con energie unificate, risorse moltiplicate. "La risposta fin qui non ha avuto un carattere globale", denunciava ieri il Fondo monetario internazionale. Basteranno le dichiarazioni comuni per cambiare il segno degli avvenimenti? 
 
 
Le mosse più importanti in riserva sono di tre tipi. Primo: una ricapitalizzazione massiccia delle banche con l'uso di fondi pubblici (e quindi nazionalizzazioni parziali o totali). Secondo: l'annuncio che gli Stati estenderanno la protezione pubblica non soltanto ai depositi dei risparmiatori, ma garantendo perfino i prestiti che gli istituti di credito si fanno tra loro sul mercato interbancario. Terzo: il varo di forme di solidarietà tra paesi che vadano ben oltre la concertazione già attuata fra le banche centrali. 
 
Il primo punto è già contenuto nel documento del G7 che promette iniezioni di capitali per stabilizzare le banche. Il secondo, cioè l'ombrello di protezione statale esteso dai depositi dei risparmiatori fino all'intero mercato interbancario, potrebbe essere "l'arma nucleare" in grado di colpire l'epicentro strategico della crisi che è il crollo di fiducia tra banche e la paralisi nei flussi di credito: è sostenuto dagli inglesi, ha l'inconveniente dei costi incalcolabili e potenzialmente illimitati. Infine, le solidarietà intergovernative per essere credibili devono poggiare su strumenti nuovi e risorse consistenti: rispunterà forse in seno all'Eurogruppo di Parigi l'idea del fondo unico europeo sul modello dei 700 miliardi di dollari del piano Paulson (per ricomprare dalle banche i titoli-spazzatura). 
 
Resta però il dubbio che non basti, visto che Wall Street ha già digerito e dimenticato l'esistenza del fondo Paulson con una lunga serie di cadute. 
La vigilia del weekend al cardiopalmo è stata turbata anche dalla dichiarazione a mercati aperti di Berlusconi, sull'ipotesi di chiudere le Borse per "preparare una nuova Bretton Woods", battuta poi rimangiata dall'interessato e smentita perfino dalla Casa Bianca. La conferenza di Bretton Woods in cui vennero ridisegnate le regole dell'economia mondiale durò dal primo al 22 luglio 1944 e forse oggi non basterebbero neppure tre settimane per rifare quell'impresa storica, permessa allora da una leadership americana tanto illuminata quanto unipolare, nonché dalla statura di personaggi come Roosevelt, Churchill e Keynes. La voce della chiusura delle Borse mondiali circolava da giorni nelle sale mercati, ma come un'ipotesi di pura disperazione. Tutti i limiti coercitivi imposti contro la speculazione ribassista sono stati dei clamorosi autogol, erano in vigore quando il Dow Jones perse 777 punti in una sola seduta: finché le grandi piazze finanziarie restano aperte vuol dire che, sia pure a prezzi in caduta libera, c'è ancora chi compra. L'alternativa è molto peggiore. 
 
Spezzare la spirale vorticosa dei crolli è diventato sempre più complicato via via che si sovrappongono due paure: alla glaciazione del credito si aggiunge la certezza di una recessione mondiale. Le due malattie si acutizzano a vicenda. Perfino le più costose nazionalizzazioni bancarie hanno effetti deludenti: ieri è tornata ad allargarsi a livelli d'allarme la forbice tra i tassi d'interesse dei Bot americani, e i rendimenti che devono offrire sul mercato gli istituti Fannie Mae e Freddie Mac per finanziare i loro mutui. 
 
Visto che i due colossi del credito immobiliare sono sotto controllo pubblico, vuol dire che ormai non basta più neppure la garanzia federale che Washington offre. 
Il ministro del Tesoro britannico, Alistair Darling, ha fatto la diagnosi più realistica: "Abbiamo bisogno di decisioni internazionali subito, o si va al collasso mondiale dei mercati". 
 
Il conto alla rovescia è cominciato, il lunedì mattina si avvicina a grandi passi. Nessuno può permettersi che questo weekend sia una replica dei vacui G4 o Ecofin dei giorni precedenti, con dichiarazioni altisonanti a cui non ha fatto seguito una vera azione di squadra. Nessuno osa immaginare che cosa accadrebbe alla riapertura dei mercati. 
(
11 ottobre 2008)