Dal primo turno di presidenziali, sembra che una vittoria di Javier Milei al ballottaggio con il peronista Sergio Massa è ancora possibile. Allora, la «dollarizzazione» proposta da primo, la sostituzione del dollaro Usa al peso argentino, potrebbe funzionare?
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La «dollarizzazione» in Argentina: cos’è, perché Milei la vuole (ma potrebbe non bastare)
di
Luca Angelini
Delle bizzarrie biografiche e teoriche di Javier Milei, l’economista anarco-capitalista che vorrebbe riformare l’Argentina a colpi di motosega, si è detto e scritto molto
(qui il ritratto firmato per il Corriere da Sara Gandolfi). Del fatto che l’Argentina avrebbe un gran bisogno di cambiare registro, anche. Come ha sintetizzato l’Economist, «un secolo fa, l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi del mondo; oggi è sinonimo di crisi. L’economia è stata mal gestita sia sotto le amministrazioni di sinistra che di centrodestra, con un’inflazione annua pari al 138%, la terza più alta al mondo.
La percentuale di persone che non possono permettersi né un sacchetto di generi alimentari di base né un servizio essenziale come i trasporti o l’assistenza sanitaria è aumentata dal 26% del 2017 al 40% di oggi. L’Argentina deve al Fondo monetario internazionale la strabiliante somma di 44 miliardi di dollari – quasi un terzo dell’intero portafoglio prestiti del Fondo – ma la banca centrale del Paese non ha riserve in dollari per ripagare il prestito. La corruzione è dilagante, la fiducia nelle istituzioni è bassa e gli elettori sono esausti».
Elezioni presidenziali
Tutto ciò premesso, e ricordato che l’esito del primo turno delle Presidenziali ha mostrato che una vittoria di Milei al ballottaggio contro il peronista Sergio Massa è ancora possibile ma tutt’altro che scontata, una domanda sorge spontanea: la «dollarizzazione» proposta dal campione del libertarismo, ossia la completa sostituzione del dollaro Usa al peso argentino (che «essendo emesso dai politici argentini vale meno di un escremento», Milei dixit, con annessa proposta di abolire la Banca centrale) potrebbe funzionare? L’Economist non nasconde lo scetticismo: «Gli economisti temono che la sua sbandierata politica di dollarizzazione comporti molti rischi, anche perché le riserve nette della banca centrale argentina sono in rosso per 5 miliardi di dollari e il Paese non può facilmente prendere in prestito dollari. La dollarizzazione significherebbe lo scambio di tutti i pesos in circolazione più quelli detenuti nelle banche, cosa che secondo le stime del team di Milei richiederà tra i 40 e i 90 miliardi di dollari (il Pil è di 630 miliardi di dollari). La politica potrebbe rappresentare una soluzione rapida all’inflazione, ma potrebbe non risolvere il problema di fondo dell’elevata spesa pubblica».
Politica monetaria degli Usa
Ancora più tranchant era stato, sul New York Times, Peter Coy. È vero che la dollarizzazione potrebbe, in teoria, cancellare l’inflazione dalla sera alla mattina, visto che lo Stato non avrebbe più la possibilità di stampare moneta. Ma le controindicazioni sono da brividi: «Dollarizzare l’economia è come mettersi le manette e poi buttare via la chiave. È un atto di disperazione quando nient’altro funziona. E come la maggior parte degli atti disperati, presenta grossi inconvenienti. Passando al dollaro, l’Argentina adotterebbe di fatto la politica monetaria degli Stati Uniti, perdendo così la capacità di alzare o abbassare i tassi di interesse per adattarsi alle condizioni locali. Perderebbe il profitto noto come signoraggio che deriva dallo stampare moneta. E la dollarizzazione non risolverebbe i problemi strutturali che hanno causato un’elevata inflazione, come la spesa eccessiva del governo».
Delle bizzarrie biografiche e teoriche di Javier Milei, l’economista anarco-capitalista che vorrebbe riformare l’Argentina a colpi di motosega, si è detto e scritto molto
(qui il ritratto firmato per il Corriere da Sara Gandolfi). Del fatto che l’Argentina avrebbe un gran bisogno di cambiare registro, anche. Come ha sintetizzato l’Economist, «un secolo fa, l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi del mondo; oggi è sinonimo di crisi. L’economia è stata mal gestita sia sotto le amministrazioni di sinistra che di centrodestra, con un’inflazione annua pari al 138%, la terza più alta al mondo.
La percentuale di persone che non possono permettersi né un sacchetto di generi alimentari di base né un servizio essenziale come i trasporti o l’assistenza sanitaria è aumentata dal 26% del 2017 al 40% di oggi. L’Argentina deve al Fondo monetario internazionale la strabiliante somma di 44 miliardi di dollari – quasi un terzo dell’intero portafoglio prestiti del Fondo – ma la banca centrale del Paese non ha riserve in dollari per ripagare il prestito. La corruzione è dilagante, la fiducia nelle istituzioni è bassa e gli elettori sono esausti».
Elezioni presidenziali
Tutto ciò premesso, e ricordato che l’esito del primo turno delle Presidenziali ha mostrato che una vittoria di Milei al ballottaggio contro il peronista Sergio Massa è ancora possibile ma tutt’altro che scontata, una domanda sorge spontanea: la «dollarizzazione» proposta dal campione del libertarismo, ossia la completa sostituzione del dollaro Usa al peso argentino (che «essendo emesso dai politici argentini vale meno di un escremento», Milei dixit, con annessa proposta di abolire la Banca centrale) potrebbe funzionare? L’Economist non nasconde lo scetticismo: «Gli economisti temono che la sua sbandierata politica di dollarizzazione comporti molti rischi, anche perché le riserve nette della banca centrale argentina sono in rosso per 5 miliardi di dollari e il Paese non può facilmente prendere in prestito dollari. La dollarizzazione significherebbe lo scambio di tutti i pesos in circolazione più quelli detenuti nelle banche, cosa che secondo le stime del team di Milei richiederà tra i 40 e i 90 miliardi di dollari (il Pil è di 630 miliardi di dollari). La politica potrebbe rappresentare una soluzione rapida all’inflazione, ma potrebbe non risolvere il problema di fondo dell’elevata spesa pubblica».
Politica monetaria degli Usa
Ancora più tranchant era stato, sul New York Times, Peter Coy. È vero che la dollarizzazione potrebbe, in teoria, cancellare l’inflazione dalla sera alla mattina, visto che lo Stato non avrebbe più la possibilità di stampare moneta. Ma le controindicazioni sono da brividi: «Dollarizzare l’economia è come mettersi le manette e poi buttare via la chiave. È un atto di disperazione quando nient’altro funziona. E come la maggior parte degli atti disperati, presenta grossi inconvenienti. Passando al dollaro, l’Argentina adotterebbe di fatto la politica monetaria degli Stati Uniti, perdendo così la capacità di alzare o abbassare i tassi di interesse per adattarsi alle condizioni locali. Perderebbe il profitto noto come signoraggio che deriva dallo stampare moneta. E la dollarizzazione non risolverebbe i problemi strutturali che hanno causato un’elevata inflazione, come la spesa eccessiva del governo».
Recessione
Iván Werning, economista del Massachusetts Institute of Technology (Mit), cresciuto in Argentina prima di laurearsi all’università di Chicago (uno dei templi del liberismo), conferma i dubbi di Coy: «Se la conversione venisse effettuata oggi, si potrebbe verificare un’estrema carenza di moneta nell’economia, che molto probabilmente causerebbe una profonda recessione perché i prezzi e i salari non si adatterebbero facilmente alla scarsità di dollari. Rinviare la conversione potrebbe peggiorare la situazione, innescando un’esplosione anticipata di inflazione». È vero che Milei è convinto che una sua vittoria costituirebbe un cambio di regime tale da convincere la popolazione argentina a rimpatriare buona parte dei 200 miliardi di dollari oggi all’estero o in cassette di sicurezza. «Ma se fosse vero, non ci sarebbe bisogno di alcuna dollarizzazione» commenta Werning.
Gli esempi di Ecuador ed El Salvador
Quella di Milei rischia di essere una «dollarizzazione senza dollari», come scrive su lavoce.info Marco Lossani, docente di Economia internazionale e Economia dei mercati emergenti alla Cattolica di Milano. Per rispondere alla domanda di cui sopra, Lossani è andato a rispolverare l’esperienza di chi la dollarizzazione l’ha già fatta: «La storia recente di paesi come Ecuador e El Salvador, che hanno provveduto a dollarizzare i loro sistemi economici sin dai primi anni Duemila, dimostra come i benefici siano stati limitati. In Ecuador il tenore di vita è fermo da dieci anni, e il Paese ha vissuto ben due episodi di default da quando ha dollarizzato nel 2000. Il previsto rilancio dell’economia salvadoregna (atteso in conseguenza della dollarizzazione del 2001) non è mai avvenuto. Al punto che il presidente Nayib Bukele nel settembre del 2021 ha approvato una legge che affianca il Bitcoin come legale circolante al dollaro, nel tentativo (ormai già fallito) di ridare vigore a un’economia in crisi».
La storia dell’Argentina
Ma è la storia della stessa Argentina ad insegnare, visto che nel 1991 aveva deciso di legare il peso al dollaro in un tasso fisso di conversione 1 a 1. Quella decisione, scrive Lossani, «aveva effettivamente sradicato l’inflazione, contemporaneamente a un iniziale boom del prodotto. Ma quello era il risultato di un cambiamento di regime che era stato preceduto da alcune riforme che avevano reso (almeno temporaneamente) più robusto il sistema e che si accompagnavano a una fase di debolezza del dollaro sui mercati valutari. Col trascorrere del tempo, senza di ulteriori riforme e con il manifestarsi di importanti shock esterni (come la svalutazione della moneta brasiliana), si sono evidenziati i vincoli e le rigidità posti dal currency board (l’autorità che emetteva il peso convertibile, ndr) che è letteralmente crollato alla fine del 2001, facendo precipitare il Paese in una crisi senza precedenti» (la convertibilità 1 a 1 con il dollaro era stata cancellata nel febbraio 2002).
Ridurre la spesa pubblica
Ciò di cui l’Argentina ha veramente bisogno, dice al Financial Times Alberto Ramos, capo economista per l’America Latina a Goldman Sachs, «è un aggiustamento fiscale rapido e drastico, una banca centrale indipendente e riforme strutturali di ampio respiro per rendere il Paese più aperto e flessibile». Senza questo tipo di disciplina fiscale, è improbabile che la dollarizzazione porti benefici, ha scritto Ramos in una nota recente: «Comporterebbe costi molto significativi in termini di crescita e occupazione, o alla fine crollerebbe. La dollarizzazione può essere parte di una soluzione più ampia ai problemi più difficili, ma allo stesso tempo, da sola, non è per nulla una soluzione». Sul punto, anche Werning concorda. E sostiene che «oggi c’è molto più consenso» fra gli argentini sulla necessità di ridurre la spesa pubblica. Forse fra i seguaci di Milei o della grande sconfitta Patricia Bullrich del centrodestra di Juntos por el cambio. Non nello schieramento peronista, dove di disciplina fiscale non si vede traccia. Tutt’altro. «Mai prima d’ora (mai negli ultimi 40 anni di democrazia, almeno) un candidato alla presidenza aveva sperperato così tante risorse pubbliche a vantaggio della propria campagna elettorale», commenta, a proposito di Massa, Joaquín Morales Solá sul quotidiano argentino La Nacion elencando i «premi monetari straordinari per lavoratori e non lavoratori, l’eliminazione parziale dell’imposta sul reddito e il rimborso dell’Iva a pensionati, dipendenti e monotributisti (contribuenti con piccole attività a basso reddito, ndr), che ha significato più soldi per nove milioni di argentini». Una dimostrazione del fatto che «il populismo è sempre possibile quando metà della popolazione è sotto la soglia di povertà» e che «una parte importante della società argentina ha scelto di perseverare nel facilismo, quella strada che evita i sacrifici e si accontenta solo delle briciole di un’economia decimata».
«Sull’orlo del baratro»
Anche il pronostico di Lossani è nero: «L’amara conclusione è che dopo 8 anni di governi fallimentari – prima con Mauricio Macri (alla guida di un governo conservatore dal 2015-2019) poi con Alberto Fernandez (leader di un governo di ispirazione peronista-kirchnerista dal 2019 al 2023) – l’Argentina si ritrova di nuovo sull’orlo del baratro. Inflazione alle stelle unita al peso in caduta libera non sono le sole cattive notizie. Il Pil ha iniziato a calare, mentre il tasso di povertà è ormai superiore al 40 per cento. È assai probabile che siano le disastrose condizioni del Paese ad aver spinto gli argentini a esprimere il loro consenso a un outsider totalmente estraneo alle formazioni politiche tradizionali. Certamente non il suo programma di governo, che appare del tutto inadeguato per risolvere i problemi di un’economia cronicamente afflitta da una lunga serie di problemi strutturali. Parafrasando il titolo di un importante paper degli anni Ottanta, in caso di una vittoria di Milei verrebbe da dire ”good-bye vecchia politica, hello ennesima crisi finanziaria”».