ARGENTINA obbligazioni e tango bond vol(2) (9 lettori)

AtuttoGAZ

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Milei's challenging first weeks: remain Underweight.

Ambitious reforms could meet governability challenges. Willingness to pay is high, but the PBoC swap or IMF flexibility will be necessary in coming weeks. Postponing dollarization plans would be key to prevent a deeper FX crisis and more destabilizing inflationary path. We remain Underweight the sovereign credit.

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Bello studio-riassuntone sulla situazione Argentina fino praticamente ad oggi (fino alla vigilia del doppio turno di voto,per la verità, ma comunque dopo il PASO). Report per il Parlamento Europeo.
Molto ben fatto a mio avviso.
Cercavo qualche dato e ci sono incappato per caso.
Originale in inglese. Ne ho anche fatto una copia automatica in italiano ottenuta con Google translate, tradotta ormai davvero piuttosto bene, pure con formattazione conservata. Prodigi dell' IA :jack:.
 

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tommy271

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Amico mio,
ci conosciamo da tanto.
Ho toppato sul referendum sulla Brexit, idem ho sbagliato previsione sul referendum greco, idem sulle presidenziali USA Clinton-Trump. Al ballottaggio davo per favorito Massa (anche se dopo il dietrofront di Schiaretti ho iniziato ad avere qualche dubbio).
Visto il mio track record non bello (se non da interpretare al contrario :) ) e' bene che la mia opinione (dalla quale non mi faccio influenzare) faccia meno danni possibile.
Ciao !
Siamo in due.
 

tommy271

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Rendimenti treasury ancora in calo su tutta la curva, soberanos Latam positivi ad eccezione di Bolivia ed El Salvador.
Continua la luna di miele post-elettorale con i mercati finanziari: ci si aspetta un cambio di passo e una "normalizzazione" di Milei.
Il prossimo step, per quanto ci riguarda, sarà la definizione della squadra economica che poi andrà direttamente a trattare con il FMI.
Nel frattempo il rischio paese scende a 2175 pb. da 2249 pb.
Seguitano a stringere anche i CDS a 7147 pb. da 8157 pb.
Altra ottima giornata per i bond post swap.
Un poco addormentata la "993", ultimo a 28,33.

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pietro17elettra

Nonno pensionato


Argentina, storia di un disastro: dall’opulenza alla bancarotta​

Federico Rampini | 21 novembre 2023
Fu uno dei Paesi più ricchi al mondo, con un reddito pro capite superiore a quello della Francia. Oggi la vittoria di Milei è l’inevitabile conseguenza dei disastri economici del peronismo che hanno lasciato l’Argentina con le casse vuote


«Sono illusioni, non sono le soluzioni che promettevano di essere…»


Così recita uno dei versi della canzone “Don’t Cry For Me, Argentina”, dal celebre musical Evita di Andrew Lloyd Webber che fu un successo mondiale da Londra a Broadway. Ciascuno è libero di applicare quelle parole alle promesse che di volta in volta i populismi di sinistra (peronisti) o i neoliberismi hanno lanciato all’Argentina. La nazione che è diventata il simbolo di un malgoverno economico all’ennesima potenza.
È la tragedia di un paese che fu tra i più ricchi del mondo. Tra l’ultimo quarto dell’Ottocento, e la grande crisi del 1929, l’Argentina era arrivata a essere una delle dieci nazioni più opulente, con un reddito pro capite superiore alla Francia. Ancora nel 1970 aveva un’economia due volte più ricca del Cile, che oggi la supera nettamente.
Laboratorio politico “d’avanguardia” lo divenne fin dal 1946, quando Juan Peròn diede vita al movimento che mescolava ingredienti del socialismo e del fascismo; un’ideologia “giustizialista”, un consenso di massa fondato sui sindacati, la spesa pubblica clientelare, l’assistenzialismo, il protezionismo. Il peronismo disprezzato dai neoliberisti, che si sono rivelati incapaci però di superarlo. Prima di questa tornata elettorale che ha portato alla presidenza il libertario-capitalista Javier Milei, un esperimento di liberismo più classico o “normale” c’era stato con il presidente Mauricio Macri dal 2015 al 2019.
Macri era il beniamino del Fondo monetario internazionale eppure non ha modernizzato il paese, né ha tentato un vero risanamento dei conti pubblici. Dopo di lui è stata la volta della coppia Alberto Fernandez-Cristina Kirchner, il ritorno del peronismo con le sue eterne promesse assistenziali: l’impegno a proteggere i più deboli, la guerra dichiarata alla miseria e alla disoccupazione. Sullo sfondo, il solito “paesaggio” argentino: montagne di debiti esteri da ripagare, prestiti d’emergenza del Fondo monetario internazionale. Le contraddizioni stridenti tra iperinflazione, finanza pubblica sfasciata, e la ricchezza di risorse: non più solo agricole ma anche energetiche come lo “shale gas”, e poi il litio concupito dal resto del mondo per le batterie elettriche. In questo senso, proprio come cent’anni fa, l’Argentina rimane una sorta di Eldorado, una terra con dotazioni inesauribili. A differenza di cent’anni fa, però, pochi argentini ne traggono prosperità.
Riprendo i miei appunti di viaggio del dicembre 2019: ero a Buenos Aires all’epoca dell’alternanza precedente. Da destra a sinistra, allora. Accadeva in un’America latina ancora più instabile di oggi, percorsa da proteste, con governi abbattuti dalla piazza o vacillanti, violenze dei narcos in aumento, esodi di migranti. Anche allora l’Argentina era un modello positivo almeno per un aspetto: la sua democrazia dell’alternanza funziona, il ricordo delle feroci dittature è ormai confinato nei luoghi rituali, come il Parco della Memoria in omaggio ai desaparecidos. In quel dicembre di quattro anni fa, pre-pandemia, Buenos Aires celebrava l’avvicendamento al vertice da Macri al duo peronista Fernandez-Kirchner. Non una vera novità: lei, Cristina, era già stata due volte alla guida del paese. Il passaggio dei poteri si svolgeva in modo ordinato. Anche se Buenos Aires è «la capitale mondiale delle manifestazioni» – è rara una giornata senza cortei che sfilino davanti alla Casa Rosada in Plaza de Mayo – la caduta di Macri era avvenuta nel modo più ordinato possibile, alla scadenza del mandato e col suffragio universale. Lo stesso si può dire finora con la vittoria di Milei.
Tolto questo aspetto importante che è l’alternanza ordinata e pacifica, nessuno si sognerebbe di prendere per modello l’Argentina: in quel dicembre 2019 era giunta alla sua ottava bancarotta sovrana, e nella sua storia turbolenta aveva già “consumato” 30 salvataggi del Fondo monetario internazionale. Uno dei suoi tanti default del debito estero, nel 2001, ha lasciato tracce pesanti e ricordi amari anche nei portafogli di tanti risparmiatori italiani. Lotta alla povertà e alle diseguaglianze: un obiettivo comune univa papa Francesco (che ebbe un’influenza favorevole per il ritorno dei peronisti al potere nel 2019) e il primo dei ministri dell’Economia nominati dalla coppia Fernandez-Kirchner: Martìn Guzmàn, già docente alla Columbia University di New York e allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. Il peronismo tornava al governo nel 2019 con ricette approvate dai populisti di sinistra del mondo intero: allora Stiglitz era uno dei pensatori di riferimento del Movimento 5 Stelle in Italia.
Nei miei appunti di viaggio del 2019 l’Argentina mi accoglieva «come una Repubblica di Weimar, ma senza le ombre del totalitarismo in agguato». In comune con la Germania dei primi anni Trenta – oltre ai tanti ebrei tedeschi immigrati – ha il fascino decadente, la vitalità culturale, l’alta istruzione media, librerie musei gallerie d’arte e centri culturali ovunque. In comune con Weimar anche l’iperinflazione, la svalutazione galoppante. Il governo per frenare le fughe di capitali aveva dovuto imporre restrizioni valutarie drastiche: massimo duecento dollari a persona al mese. Il mercato dei cambi mi offriva un piccolo squarcio sulla realtà argentina.
Il centro direzionale di Buenos Aires, proprio attorno alla Casa Rosada presidenziale, ospita i quartieri generali di tutte le grandi banche. Palazzi monumentali, mausolei all’inefficienza, con personale pletorico e inutile, dove si rifiutano di cambiarti dollari se non sei cliente, proprio mentre dovrebbero facilitare quei turisti che portano valuta pregiata; invece loro stessi ti dirottano verso piccole agenzie di strada dove si pratica il cambio nero. Ma non puoi percepire la vera durezza di questa crisi se rimani nel centro di Buenos Aires: i ricchi che abitano nei bei quartieri come Recoleta, La Isla Norte e Palermo con i loro palazzi Art Déco, o nei nuovi grattacieli di Puerto Madero, hanno tecniche ben collaudate di evasione fiscale, nei conti bancari del paradiso fiscale uruguaiano. I ricchi latifondisti delle Pampa, che esportano nel mondo più grano dell’Australia e hanno conquistato anche il mercato cinese della carne suina, sanno come parcheggiare all’estero gli incassi in dollari, euro o renminbi. Perfino il ceto mediobasso ha espedienti antichi: compra gli appartamenti pagando in contanti, o investe i risparmi in auto straniere che si rivendono usate a un prezzo più alto del nuovo, “miracoli” dell’iperinflazione alla Weimar.
La dollarizzazione dell’economia argentina non è una ricetta inventata da Milei, è già una pratica quotidiana: chi può usa una valuta forte per proteggersi dalla distruzione del potere d’acquisto e dei risparmi. Quattro anni fa la vera povertà cominciava ad apparire nel centro di Buenos Aires in forme discrete: qualche homeless, immigrati boliviani e venezuelani, bambini che chiedevano l’emeosina. Ma è la “grande” Buenos Aires (12 milioni dell’area metropolitana esterna, contro i 3 milioni della città) quella che contiene tanta miseria; peggio ancora le campagne. Nulla di tutto ciò è migliorato nel quadriennio del populismo di sinistra. Se nel 2019 un terzo degli argentini viveva sotto la soglia della povertà, oggi gli indigenti sono quasi la metà (stando alle statistiche ufficiali, per quel che valgono). L’inflazione allora era al 55% annuo, oggi è del 143%.
Il fallimento dell’ennesimo esperimento peronista si è accompagnato con un’altra bancarotta sovrana, divenuta ufficiale nel maggio 2020 quando il governo del presidente Fernandez non ha onorato una tranche di pagamento degli interessi in scadenza, su un debito totale (allora) di 65 miliardi. Se avete perso il conteggio delle bancarotte argentine, siete in buona compagnia.
Questo disastro finanziario non ha impedito ai peronisti di unirsi ad altre forze della sinistra populista latinoamericana per lanciare un improbabile «attacco al dollaro». Accadeva nel gennaio di quest’anno. Il vertice dei paesi latinoamericani e caraibici si teneva proprio a Buenos Aires dieci mesi fa. Segnava il culmine di una nuova egemonia della sinistra populista, al governo nei tre paesi più grossi (Brasile Messico Argentina) e in molti altri.
Il summit rilanciava con enfasi l’obiettivo di emancipazione dagli Stati Uniti. In quel contesto veniva resuscitato un antico progetto di moneta unica tra Brasile e Argentina: un modo per ridurre la dipendenza dal dollaro. Anche se ilnuovo padrone del continente ormai è la Cina. Il summit di Buenos Aires a gennaio riuniva i paesi del Celac, che sta per Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caraibenos. A dominare la scena al summit Celac furono il Brasile di Lula da Silva e l’Argentina di Fernandez. L’idea della moneta unica venne presentata come un esperimento da iniziare a due, per poi eventualmente proporla come la valuta di tutto il Mercosur, la comunità economica dei paesi sudamericani. Le motivazioni di questo progetto – non nuovo – rievocano quelle che ispirarono l’euro: facilitare gli scambi commerciali tra paesi vicini e affini; ridurre i costi; infine e soprattutto eliminare la dipendenza da una moneta terza come il dollaro. Le critiche contro quel progetto a gennaio vennero soprattutto da parte brasiliana. Fabio Ostermann, un politico centrista vicino al mondo delle imprese brasiliane, definì il progetto «insensato, l’equivalente di aprire un conto in banca congiunto con un amico disoccupato e indebitato con tutti» (un’allusione non proprio amichevole all’Argentina). Come minimo il progetto di moneta unica poteva essere considerato un diversivo. Non affrontava le radici di un dissesto economico che non ha nulla a che vedere con l’influenza degli Stati Uniti o del dollaro. L’inflazione argentina, ad esempio, deriva da politiche populiste di ispirazione peronista: spesa pubblica facile, elargizioni assistenzialiste, finanziate da una banca centrale che stampa moneta.
L’idea di ridurre la dipendenza dal dollaro però piaceva molto a Pechino – che persegue la “sdollarizzazione” ad esempio nell’interscambio con la Russia – e in questo senso il progetto Lula-Fernandez era in sintonia con gli interessi della nuova superpotenza dominante in questa parte del mondo. Perciò ci fu un seguito: in Sudafrica ad agosto al vertice dei Brics l’Argentina fu accolta tra i sei paesi candidati all’allargamento. In Sudafrica si tornò a parlare di “sdollarizzazione”.
Ora il pendolo dell’alternanza oscilla nell’altra direzione. La vittoria di Milei è l’inevitabile conseguenza dei disastri economici compiuti dal peronismo. Il dietrofront è spettacolare: l’Argentina imbocca la strada opposta a quella di Messico e Brasile, torna a sognare un esperimento liberista, stavolta in forme più radicali rispetto a quello di Macrì. I paragoni con Donald Trump su questo terreno sono azzardati. Trump è stato un liberista nei proclami, ma la sua politica economica è stata segnata dal protezionismo (dazi) e da massicci aiuti a famiglie e imprese durante la pandemia. Il deficit e il debito federali degli Stati Uniti sono aumentati sotto Trump, non diminuiti. Milei ha un linguaggio che sembra ispirato più dal padre teorico del neoliberismo, il Premio Nobel (scomparso) Milton Friedman, che non a Trump. La sua ascesa al potere viene accolta con cautela all’estero, ivi compreso dal grande vicino del Nord, gli Stati Uniti. Nell’immediato (Papa Francesco ha chiamato Milei per congratularsi della vittoria al ballottaggio) i mercati finanziari hanno salutato con favore la sua vittoria e alcuni titoli argentini si sono apprezzati. La sua proposta di “dollarizzare” l’Argentina, abolendo il peso e la banca centrale per adottare la valuta Usa, si scontra con un ostacolo notevole: come comprare i dollari necessari? Poiché le casse dello Stato sono vuote – o peggio, in rosso – Milei dovrebbe convincere il resto del mondo a prestargli altri 30 miliardi di dollari, secondo alcune stime.
Lo scetticismo è comprensibile, tanto più che Milei non ha una maggioranza parlamentare. Gli argentini che lo hanno votato sembrano mossi dalla disperazione: dopo tanti esperimenti falliti, una parte di loro vorrebbero davvero un leader capace di «rivoltare il paese come un calzino». È dai tempi di Evita, quella vera, che l’Argentina ha perso il contatto con la realtà economica, le regole del mercato, i vincoli del bilancio pubblico.
21 novembre 2023, 19:03 - modifica il 21 novembre 2023 | 21:48
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Bzt

Forumer storico
... Più in generale la mia speranza è che si materializzi la tipica traiettoria politica delle nuove stelle emergenti del consenso popolare, che nascono malpancisti e barricaderi (che sia di destra o di sinistra) e poi se riescono a sedersi sugli scranni del governo, muoiono sulla poltrona da democristiani :-D . ...
E la mia speranza è che Milei si riveli lo Tsipras argentino, mutatis mutandi. :d:
 

tommy271

Forumer storico
Il rendimento dei Treasury segna un leggero aumento, ad eccezione del trentennale. Molti osservatori indicano che il picco è stato ormai raggiunto ed ora si attende un taglio al termine del primo semestre del 2024.
I bonos soberanos Latam sono ancora positivi, con l'esclusione di El Salvador e Venezuela.

Ancora una buona chiusura per i bond post swap, anche se si intravede un certo rallentamento: ora si attende la verifica sul campo con la nomina dei possibili ministri.
Intanto il rischio paese segna giornalmente nuovi minimi del periodo a 2124 pb. da 2175 pb.
Così pure fanno i CDS a 6490 pb. da 7147 pb.
La "993" è sempre dormiente, ultimo a 28,39.

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