Tedeschi studiano fine euro, è allarme disoccupazione
Tedeschi studiano fine euro, è allarme disoccupazione
Di Francesca Gerosa
Tedeschi studiano fine euro, allarme disoccupazione - Milano Finanza Interactive Edition
Mentre uno studio tedesco sottolinea che un eventuale fine dell'euro sarebbe una catastrofe per tutti a livello mondiale, Germania compresa, è allarme disoccupazione in Ue. Da uno studio condotto dall'Istituto per la ricerca economica mondiale di Amburgo (Hwwi) e della società di auditing Pwc di Francoforte emerge che una spaccatura dell'Eurozona o una riduzione dell'euro a pochi Paesi avrebbe per le imprese conseguenze imprevedibili a livello mondiale.
In particolare, un euro ristretto a pochi Paesi avrebbe conseguenze catastrofiche proprio per le esportazioni tedesche. Per il presidente di Hwwi, Thomas Straubhaar, ad aver ancora meno interesse a una spaccatura dell'euro sono i Paesi europei in crisi, poiché in primo luogo traggono profitto dalla forza della Germania nell'euro, in secondo luogo sarebbero fuori gioco nel competere da soli con economie così potenti come quelle di Cina e Stati Uniti.
L'Eurozona dovrà affrontare una
lunga fase di consolidamento e di grandi riforme di struttura, poiché almeno
per i prossimi cinque anni i Paesi europei in crisi avranno bisogno del sostegno di quelli dell'Ue più stabili.
Ciò comporterà una crescita ridotta nell'Eurozona e un durevole livello di disoccupazione.
Le aziende dovranno puntare nei prossimi anni sulla crescita al di fuori dell'Eurozona, in particolare in Cina e negli Stati Uniti.
Al contempo i responsabili dei due istituti invitano le aziende tedesche a investire nei Paesi europei in difficoltà. "Per aumentare la competitività a livello internazionale", è scritto nel rapporto, "
le aziende tedesche devono prendere in esame un'accresciuta produzione nei Paesi dell'euro in crisi", perché "in essi il livello dei salari dovrebbe crescere di poco a medio termine. Un'altra opzione è la partecipazione o la
presa di controllo di aziende nei Paesi in crisi".
Facile a dirsi, difficile a farsi visto che anche in Germania a sorpresa è aumentato leggermente il numero dei senza lavoro ad aprile. Il tasso di disoccupazione su base destagionalizzata è infatti salito il mese scorso al 6,8% dal 6,7% col numero dei disoccupati in rialzo di 19.000 unità a 2,87 milioni, secondo i dati dell'Ufficio federale del lavoro.
Si tratta del primo incremento da sei mesi a questa parte. Le attese erano per un calo di 10.000 unità. Il tasso grezzo di disoccupazione è comunque sceso su base annua al 7% dal 7,3%, con un calo mensile di 65.000 unità a 2,963 milioni. Se dunque l
a disoccupazione cresce, ma solo leggermente, in Germania, in Europa, e in Italia in particolare, è vero allarme.
Secondo Eurostat, a marzo è salita al 10,9%, rispetto al 10,8% del mese precedente, nell'eurozona, mentre nell'Ue a 27 è rimasta stabile al 10,2%. Un anno fa il tasso di disoccupazione era rispettivamente del 9,9% e del 9,4%. Per quanto riguarda l'Italia, a marzo è salita al 9,8%, rispetto al 9,6% di febbraio ed all'8,1% del marzo 2011, mentre la disoccupazione fra i giovani sotto i 25 anni è balzata al 35,9%, rispetto al 33,9% del mese precedente.
L'Ufficio statistico dell'Ue stima che a marzo ci fossero 24 milioni 772mila senza lavoro tra uomini e donne, di cui 17 milioni 365mila nell'area euro. "Gli ultimi dati sulla disoccupazione in Europa sono molto preoccupanti e confermano l'urgenza di creare un mercato del lavoro più dinamico", ha commentato un portavoce della Commissione europea.
"Abbiamo bisogno di riforme del mercato del lavoro nei Paesi membri", ha insistito Jonathan Todd, portavoce del commissario all'Occupazione, sottolineando anche la necessità di prendere misure non solo per creare più posti di lavoro, ma anche posti di lavoro migliori e sostenibili.
L'Italia da parte sua ha accorciato il divario con la media europea (ma il dato reale anche solo considerando una parte degli scoraggiati sale attorno al 13%, cioè ben più della media europea, secondo Fulvio Fammoni della Cgil Nazionale), ma non c'è nulla da rallegrarsi.
La disoccupazione ha raggiunto una dimensione che mette oggettivamente a rischio la coesione sociale che sin qui, nonostante tutto, nel corso di questi quattro anni difficili, ha retto, tanto che per l'ex ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, i dati sembrano indicare qualcosa di più grave di una recessione, una vera e propria depressione dell'economia e della società.
"Ciò implica una risposta ben più forte nel segno della liberazione della vitalità dai tanti lacci e lacciuoli che la inibiscono e ciò vale anche per la regolazione del lavoro. Il disegno di legge non deve solo migliorare rispetto a se stesso ma soprattutto rispetto alla legislazione che c'è in termini di propensione ad assumere. Sarebbe davvero antistorico un provvedimento subìto dalle imprese e percepito come una ulteriore ragione di freno ad assumere. Serve esattamente il contrario. Altrimenti è meglio tenere la regolazione che c'è", ha sottolineato Sacconi.
La Cgil punta il dito contro chi "ancora incredibilmente teorizza l'utilità di licenziamenti facili" e risponde alla destra che ancora oggi indica la precarietà come soluzione al problema. "Basta agli slogan e agli annunci inconcludenti. Questo dramma sociale si inverte solo arrestando la recessione, con politiche di crescita e di sviluppo straordinarie".
La Cisl parla addirittura di una "miscela esplosiva" nel Paese, tra aumento della disoccupazione, aumento delle tasse, blocco degli investimenti pubblici e privati. E' chiaro ormai per il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che il Governo dei professori non basta. "Qui occorre una svolta nella politica economica, altro che spending review", ha aggiunto il leader della Cisl.
Sono passati quasi 6 mesi dall'insediamento del Governo Monti, occorrerà nominare nuovi tecnici? E' sicuramente preoccupante che lo stesso ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, abbia ammesso che i dati di oggi dell'Istat "sono l'effetto delle misure che abbiamo dovuto prendere per evitare lo scivolamento dei conti pubblici, mentre non si può avere ancora l'effetto delle misure strutturali per lo sviluppo della crescita".