in passato lotrovai per caso e subito rimasi colpita dalla sua lucida intelligenza
oggi scrive nel BLOG di Investire Oggi e quando lo leggo... mi lascia davvero ammirata...
certo è che mi toglie ogni speranza...
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Speciale Montanelli
27 Sep
Posted by Michele Spallino as Speciali
Perchè non scrivo mai(o molto poco) sull’Italia? perchè provo lo stesso “sentiment” che provava Montanelli. Indro Montanelli ha scritto , con Mario Cervi, La Storia d’Italia dal 1250 al
1997. La consiglio a tutti. Ha concluso l’opera con un poscritto che, per la sua eccezionale attualità e perchè lo condivido parola per parola, riporto integralmente (mi sono solo permesso di titolarne i paragrafi, per facilitarne la lettura):
Congedo
“Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni
anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il
congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un paese che non mi
appartiene più e a cui sento di non più appartenere.
Forma non sostanza
E’ stato proprio l’impegno profuso nella stesura di questi volumi, nei quali la
Storia si confonde con la testimonianza diretta, anche questa condivisa
pienamente da Cervi, a rendermi consapevole che quello nostro era qualcosa di
mezzo tra il resoconto di un fallimento e l’anamnesi di un aborto. Uno dei primi
volumi usciti dalla nostra collaborazione, nonostante il titolo “l’Italia della
disfatta” reca i segni delle speranza e delle illusioni con cui ne avevamo
vissute le drammatiche ma esaltanti vicende. Credemmo che l’Italia avesse
liquidato sia pure a carissimo prezzo e grazie a forze altrui (ma questo è il
leitmotiv della nostra Storia non soltanto di questo secolo) un regime che le
aveva impedito di essere se stessa.
Ed invece gli eventi che abbiamo seguito passo passo coi volumi successivi ci
dimostravano che non era affatto cambiata col cambio di regime. Erano cambiate
le forme ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica.
Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto
cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie.
Cosa nostra
Al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, Cervi ed io ancora non ci
conoscevamo e ci trovammo su posizioni opposte. Cervi si pronunciò per la
Repubblica, io per la Monarchia. Ma entrambi eravamo convinti che quella fosse
la data d’inizio di una “vita nova”, molto diversa da quella che avevamo
vissuto, o meglio subito: e di questa grande speranza fummo entrambi (anche se
io forse meno), partecipi. Essa ci sostenne, e in certi momenti forse anche ci
esaltò, fino agli anni del “miracolo” che furono i primi Cinquanta. Poi….
Noi questo “poi” lo abbiamo vissuto da giornalisti militanti, entrambi al
Corriere della Sera. Entrambi assistemmo e fummo i cronisti della rapida
degenerazione della democrazia in partitocrazia, cioè in un oligopolio di
camarille e di gruppi che esercitavano il potere in nome della cosiddetta
“sovranità popolare”; in realtà nel solo interesse di quei gruppi e camarille
che d’interesse ne avevano uno solo: che il potere restasse “cosa nostra”, come
infatti per cinquant’anni è stato e come seguita ad essere anche ora che ha
cambiato titolari, ma sempre restando “cosa nostra”.
Il Fascismo e lo Stato
In questo sistema abbiamo visto corrompersi tutto, a cominciare dallo Stato. Lo
Stato che il fascismo aveva trovato quando assunse il potere non era gran che.
Però una categoria di funzionari abbastanza onesti e ligi ad un certo rigore e
decoro di comportamenti, nei pochi decenni di Storia unitaria si era formata. E
Mussolini la rispettò. Ne mise tutto il personale in camicia nera, ma non ne
toccò i posti, le carriere e le competenze. Anche in periferia il Prefetto,
organo dello Stato, prevalse sempre, o quasi sempre, sul segretario federale,
organo del Partito. E questo atteggiamento fu particolarmente visibile nel campo
della giustizia. Per perseguire il delitto d’opinione, il regime dovette
istituire una sua magistratura di partito perché quella ordinaria si rifiutava
di considerare l’opinione un delitto e il regime rispettò questo rifiuto.
La Republica e lo Stato
Anche la Repubblica, “nata dalla resistenza” com’era d’obbligo chiamarla,
riconobbe ed anzi enfatizzò l’indipendenza della magistratura dal potere
politico. E per meglio garantirla, la dotò di un organo di autogoverno, il
Consiglio Superiore della magistratura, riservandosene però una componente
“laica”, cioè di non magistrati nominati a quei posti dal potere politico, e per
esso dai tre maggiori partiti, che se lo contendevano, o meglio se lo
spartivano. Ma la contaminazione non si era fermata qui. Aveva investito tutta
la magistratura dividendola in “correnti”, ognuna delle quali faceva capo ad un
partito o ad un area.
E’ questo che spiega l’impunità con cui le forze politiche poterono compiere la
loro opera di corruzione, che non consisteva soltanto nel prelievo dei pedaggi
imposti a tutte le attività economiche pubbliche e private – le famose
“tangenti”- ma anche nell’annessione e addomesticamento di tutti quegli organi
di controllo – Corte costituzionale, Corte dei Conti, Consiglio di Stato,
Ragioneria Generale – che alla corruzione avrebbero dovuto porre un freno e che
invece ne diventarono lo strumento.
La corruzione
La corruzione non è un fenomeno soltanto italiano. Clemenceau diceva che non c’è
democrazia che ne sia al riparo. Ma quella che aveva sotto gli occhi lui, in
Francia, si limitava alla classe politica, forse non molto migliore della
nostra. Ma a sbarrarle la strada c’era uno Stato che dai tempi di Colbert era
servito da una vera e propria casta di “commis”, di funzionari rigorosamente
selezionati in scuole speciali ed alla corruzione impermeabili. La burocrazia
italiana non disponeva di personale di altrettanto livello e non oppose
resistenza al potere politico che se l’annesse distribuendo favori soprattutto
di carriera agli arrendevoli, e castighi a chi non si adeguava. I due milioni di
miliardi e passa di debito pubblico non si possono spiegare che come il frutto
di un reticolo di complicità fra classe politica e classe amministrativa che
rese del tutto vano il disposto costituzionale secondo cui lo Stato non poteva
procedere a spese che non fossero coperte da adeguate entrate. Gli organi cui
era affidata l’osservanza di questa regola ne avallarono tutte le
contravvenzioni, richieste, ed anzi imposte da un potere pubblico che badava
soltanto a sopravviversi distribuendo favori e indulgenze. Di questo processo di
corruzione potrei citare infiniti altri casi con prove e dettagli. Ma lo ritengo
non solo superfluo, visto che è sotto gli occhi di tutti, ma anche fuorviante
in quanto può rafforzare nel lettore la convinzione che sia dovuto soltanto alla
classe politica.
Responsabilità di tutti
Non è così. Che la classe politica che ha esercitato il potere
negli ultimi 30 o 40 anni sia stata, nel suo insieme, corrotta e corruttrice, è
vero. Ma è altrettanto vero che al potere è sempre rimasta col nostro voto.
Perché, si usa dire, l’unica alternativa erano i comunisti che avrebbero fatto
dell’Italia una succursale dell’Unione Sovietica. Ed anche questo è vero. Ma i
voti ai comunisti chi glieli dava? Ed ora che l’incubo dei comunisti è finito,
forse che le cose sono cambiate e la classe politica è migliorata?
L’anagrafe mi ha consentito, o forse mi ha condannato, a partecipare a tutte le
grandi speranze di questo secolo italiano. Studente negli anni venti, ho sognato
come tanti, quasi tutti i miei coetanei, di contribuire a fare del fascismo una
cosa seria, e automaticamente ce ne trovammo emarginati. Ci schierammo con le
poche forze liberaldemocratiche della Resistenza, e ce ne ritraemmo vedendola
trasformata in uno strumento di partito e ridotta a grancassa della sua
propaganda col consenso – o la sottomissione – della maggioranza degli italiani.
La speranza di contribuire a qualcosa di buono si riaccese subito dopo la
Liberazione sotto la guida di pochi vecchi uomini del prefascismo, presto
anch’essi emarginati dalle nuove leve di mestieranti della politica, abilissimi
nei giuochi di potere, ma soltanto in quelli. E da allora cominciò la
degenerazione mafiosa della democrazia sotto gli occhi indifferenti, o
ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alle mafie assuefatta da
secoli.
Il virus genetico
Oramai sono giunto alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o
quel regime o da queste o quelle “regole”, di cui battiamo , inutilmente, ogni
primato di produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e
di cui non abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente
contaminato. Se ci danno la democrazia, la riduciamo a partitocrazia, cioè ad un
sistema di mafie. E la cultura , da cui avrebbero potuto e dovuto venirci moniti
ed esempi, si è adeguata, come del resto volevano le sue origini. La cultura
italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che
fosse, e non poteva essere altrimenti, visto che il Principe era, in un paese di
analfabeti e quindi senza pubblico mercato, il suo unico committente. Mentre la
Riforma aveva sgominato l’analfabetismo facendo obbligo ai suoi fedeli di
leggere e d’interpretare i testi sacri senza la mediazione del Pastore
autorizzato a dare solo qualche consiglio; la Controriforma, che faceva del
prete l’unico autorizzato interprete delle Scritture, dell’analfabetismo era
stata la fabbrica, che lasciava l’intellettuale alla mercè (in tutti i sensi)
del suo patrono e protettore. Il quale naturalmente se ne faceva ripagare non
solo con la piaggeria, ma anche con la difesa del sistema su cui si fondavano i
suoi privilegi. Così si formò quella cultura parassitaria e servile, che non è
mai uscita dai suoi circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo a
compiervi quell’opera missionaria, di cui le è sempre mancato non solo la
vocazione, ma anche il linguaggio. In Italia il professionista della cultura
parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la gente. E
istintivamente cerca ancora un Principe di cui mettersi al servizio. Scomparsi i
Principi di una volta, il loro posto è stato preso dai depositari del potere,
cioè dai partiti. E questo spiega la cosiddetta organicità dell’intellettuale
italiano, sempre schierato dalla parte verso cui soffia il vento. Se è vero che
l’ambizione di ogni intellettuale è di diventare il direttore della pubblica
coscienza, l’intellettuale italiano la serve al contrario:mettendosene al
rimorchio e facendone la mosca cocchiera di tutti i suoi eccessi e sbandate.
Senza Patria
Ecco il motivo per cui ho deciso di rinunziare al seguito di questa Storia
d’Italia, che del resto rischia di avvilirsi a cronaca giudiziaria. Ho smesso
di credere all’utilità di una Storia scritta al di fuori di tutti i circuiti
della politica e della cultura tradizionali. Anzi ad essere sincero fino in
fondo, ho smesso di credere all’Italia. In un Italia come questa dove anche una
sceneggiata può bastare a provocarne la decomposizione. Sangue non ce ne sarà:
l’Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto a morire.
Dolcemente in stato di anestesia, torneremo ad essere quella “terra di morti
abitata da un pulviscolo umano” che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono.
O forse no: rimarremo quello che siamo, un conglomerato impegnato a discutere ,
con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e
d’interesse. L’Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti burletta come
quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai
quali abbiamo avuto la sventura di appartenere. Per me non è più la Patria. E’
solo rimpianto di una Patria.”
Indro Montanelli