A settembre a New York si è svolta l’Assemblea generale dell’Onu, riguardo la quale i media mainstream hanno riferito soltanto quanto riguardava la condanna della Russia: gli interventi contro di essa, le mozioni, le votazioni contro l’aggressione etc.
Nessuno ha riferito che uno dei temi più dibattuti dell’assise è stato la richiesta di avviare dei negoziati tra i belligeranti, come ha riconosciuto, al termine dei lavori, anche Csaba Korosi, il presidente di questa 77a sessione. Nicolas SJ Davies e Medea Benjamin hanno messo in fila tali interventi, contando almeno 66 appelli di altrettanti leader internazionali per dare avvio a trattative che pongano fine, in qualche modo, alla macelleria ucraina.
Li hanno riportati tutti, alcuni più importanti di altri, altri più commoventi di altri, su di un sito al quale rimandiamo. Ci limitiamo a riferirne alcuni. Ci sembra di grande interesse sottolineare che tra questi 66 leader non c’è nessun esponente della Nato, tranne il Primo ministro del Portogallo Antonio Costa e Viktor Orban, primo ministro ungherese, considerato un filo-putiniano.
Gazprom sembra valutare che occorreranno sei mesi per ripararli, altre fonti parlano di anni o ritengono che le infrastrutture siano irrimediabilmente compromesse.
L’esame dei tubi nei punti interessati dalle esplosioni potrà confermare se la deflagrazione è avvenuta all’interno o all’esterno dei gasdotti.
Tra le conseguenze di questo attacco ai gasdotti vi sarà con ogni probabilità un ulteriore indebolimento e frammentazione interna dell’Unione Europea, dove ogni solidarietà (se mai c’è stata) verrà meno e ogni nazione cercherà di sopravvivere all’inverno come meglio potrà, anche tagliando forniture di energia contrattualizzate ai vicini (come sta accadendo all’Italia).
Il fatto che l’Europa sia con tutta evidenza il “bersaglio grosso” di questa guerra ma al tempo stesso nessuno osi inserire gli USA e alcuni alleati nella lista dei sospettati, la dice lunga circa la sovranità e l’autorevolezza che è in grado di esprimere anche di fronte a un disastro di questa portata.
Lo stesso immobilismo che l’Europa mostrò nel 2014 di fronte alle evidenti ingerenze statunitensi e di altri alleati nei fatti del Maidan da cui presero il via le vicende che hanno portato all’attuale conflitto.