PARTE LA CORSA AL MONTE PASCHI DI SIENA
C'è una variabile da cui dipendono i futuri assetti del sistema bancario italiano. Nelle prime settimane di febbraio la Commissione Europea dovrebbe esprimersi sul piano di de-risking che il Tesoro (oggi socio al 68%) ha proposto per il Montepaschi. Un progetto articolato il cui obiettivo è accelerare il processo di privatizzazione della banca senese anticipando, se possibile, la scadenza del 2021. L'impresa non sarà semplice, ma un eventuale accordo con Bruxelles porrebbe un tassello decisivo senza il quale è pressoché impossibile immaginare un'uscita dell'azionista pubblico. Condizione preliminare per qualsiasi trattativa è infatti che il gruppo finisca sul mercato pulito e capitalizzato come accaduto per quasi tutte le aggregazioni bancarie degli ultimi anni. Quella di Montepaschi, si sa, è una storia tormentata. Dal 2012 a oggi la più antica banca del mondo è passata attraverso bocciature della Vigilanza, procedimenti giudiziari, cambi di management, aumenti di capitale, salvataggi falliti fino alla nazionalizzazione avvenuta nel 2017 attraverso la precautionary recapitalization prevista dalle regole europee. Una nazionalizzazione però a tempo visto che l'accordo raggiunto dal governo Gentiloni dopo una lunga negoziazione prevede non solo l'uscita dello Stato entro il 2021 ma anche la presentazione di una exit strategy a metà tragitto. Un documento quest'ultimo che il Tesoro avrebbe già dovuto trasmettere a fine 2019, ma che si è congiuntamente deciso di postporre proprio per meglio incardinare il processo di privatizzazione. Il dossier ha cominciato a circolare nei corridoi di via XX Settembre già all'inizio dello scorso quando il team di Alessandro Rivera in stretto contatto con i vertici della banca e con quelli di Amco (la ex Sga) ha iniziato a lavorare su un piano di pulizia dell'attivo. Anche perché sofferenze e unlikely to pay rimangono il problema principale di Siena. La maxi cessione da 24 miliardi chiusa nel 2018 con l'aiuto decisivo del fondo Atlante e le numerose vendite di importo inferiore concluse finora non sono bastate a ripulire l'attivo. Ancora alla fine del primo semestre 2019 il rapporto tra sofferenze e impieghi lordi (il cosiddetto gross npl ratio) si attestava al 16,3%, un livello certamente migliore rispetto a quello di qualche anno fa ma ancora molto al di sopra della media di sistema. Per rendere appetibile la banca ai potenziali compratori serve insomma un'ulteriore pulizia che elimini in tutto o in larga parte i crediti deteriorati ancora presenti nel bilancio. Da qui il progetto di trasferire le non performing exposure in una bad bank affidata ad Amco, per mettere poi sul mercato una good bank ricapitalizzata e pronta per essere ceduta. I numeri? Negli uffici del Tesoro sono circolate molte ipotesi, da una più cauta (7-8 miliardi nominali di npe da espellere) fino a una integrale (14,5 miliardi, pari all'intera esposizione deteriorata riportata nella trimestrale al 30 settembre), tutte però condizionate al vaglio della DgComp di Bruxelles. Tutto del resto ruota attorno al prezzo di cessione: da un lato la Ue chiede che il deal avvenga a prezzi di mercato, pena la contestazione di aiuti di stato. Dall'altro lato, però, il Tesoro sarà molto attento all'impatto contabile del deal che, se effettuato a prezzi troppo lontani da quelli di libro, rischierebbe di portare i requisiti patrimoniali sotto i minimi regolamentari rendendo necessaria una nuova ricapitalizzazione. A settembre il nuovo esecutivo ha ripreso in mano il dossier con l'intenzione di imprimervi un'accelerazione, ma i colloqui con l'Europa sono proceduti a singhiozzo sino alla fine dell'anno. Solo nelle ultime settimane si è registrato un cambio di passo che induce i funzionari del Tesoro a coltivare un cauto ottimismo. Diversi segnali vanno nella direzione di un imminente accordo tra Roma e Bruxelles, a partire dalle fiduciose reazioni delle controparti coinvolte. «Proseguiamo in modo molto costruttivo le nostre interlocuzioni», ha dichiarato in settimana il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, mentre solo qualche giorno prima un portavoce della Commissione si era espresso con toni moderatamente ottimistici sulla partita: il rinvio del Tesoro (di posticipare al 2020 la presentazione di un piano di exit, ndr) «non crea problemi». Secondo quanto risulta un punto di equilibrio tra le due controparti al tavolo potrebbe essere raggiunto su uno stock di 11-12 miliardi e un prezzo di cessione vicino al valore di carico. Si vedrà se il verdetto di Bruxelles arriverà entro i numeri di bilancio di Mps (attesi per il 7 febbraio), come ipotizzano diverse fonti. Vero è che oggi gli occhi del sistema bancario sono puntati sulla vicenda per capire se la privatizzazione sarà o meno imminente. Già da tempo i vertici e gli azionisti delle grandi ex popolari hanno iniziato a ragionare su un processo di consolidamento e nel 2020 i tempi potrebbero essere maturi per una decisione. Praticamente tutte le combinazioni possibili tra Ubi, Banco Bpm e Bper sono oggi sul tavolo delle banche d'affari, ma nulla si muoverà prima che si chiarisca la sorte di Siena. Senza nulla togliere alle altre ipotesi, solo un'aggregazione con il Monte consentirebbe infatti a una di queste banche di fare il salto di qualità e di dare vita a un terzo polo in grado di competere con Intesa Sanpaolo e Unicredit e di proiettarsi a livello internazionale. Negli anni scorsi del resto il dossier è già stato studiato da Ubi, Banco Bpm e Unipol e molte di quelle riflessioni hanno continuato a ronzare nella testa dei rispettivi ceo. Ma al tavolo della privatizzazione potrebbero sedersi anche altri soggetti. A certe condizioni per esempio Bnl e il Crédit Agricole potrebbero dedicare attenzione al dossier. Infine alla finestra ci sono Fortress, Varde e Apollo che nelle scorse settimane hanno iniziato a delineare ai funzionari del Tesoro un progetto alternativo per il Monte. Fortress ad esempio avrebbe illustrato l'ipotesi di farne una banca specializzata, dotata di una robusta infrastruttura digitale e concentrata su alcune attività di nicchia come il factoring. A far gola è soprattutto il brand Montepaschi che qualche società di consulenza si è spinta a valutare mezzo miliardo di euro. Ma, a certe condizioni, l'investitore Usa sarebbe disponibile a subentrare sull'intero perimetro purché naturalmente ci sia piena trasparenza sulla qualità delle attività e sulla dotazione patrimoniale. (riproduzione riservata)