Perché vedo i 22300?

Dipende da come uno è. Io non mi stresso, al limite stresso :D

Ovvio che non si possono fare operazioni veloci con le commissioni o lo spread di fineco. :titanic: :wall:
Se entri male e/o non stoppi, la leva o il time frame, non fanno differenza. E nemmeno lo strumento.

E poi, qua pochi fanno forex e pochi fanno intraday...quindi stando al tuo ragionamento, devo dedurre che siano tutti in gain... :-o :no:

Magari non perdono in commissioni...capirai. :rolleyes:

Una sola cosa è veramente fondamentale: lo stop.
Non solo aiuta a non perdere ma fa guadagnare di più.

concordo: io losso su ogni time frame, mentre conosco gente capace di guadagnare tradando il settimanale o il grafico a minuto.
Dipende da uno come è: a me mi hanno fatto storto :sad:
 
allora il dott. Sapelli Giulio ha detto che il problema cina è che cercano di far partire i consumi interni trasferendo la popolazione dalle campagne alle città, ma che qs non sta avvenendo.. se non succederà si creerà la più grande deflazione mondiale del secolo con scarse possibilità di riuscire ad evitarlo..se poco poco la fed alza i tassi a settembre allora le porte dell'inferno si spalancheranno..
insomma da qualsiasi parte la si vede la situazione è critica come non mai..:mumble:
 
concordo: io losso su ogni time frame, mentre conosco gente capace di guadagnare tradando il settimanale o il grafico a minuto.
Dipende da uno come è: a me mi hanno fatto storto :sad:

Tu scherzi...il trading non è per tutti.
Non si tratta di intelligenza o capacità particolari.
Invece l'errore è proprio quello secondo me, se ne fa sempre una questione personale.
Sbagli, sei scemo? Non è così.
 
Cina e la fine della globalizzazione
Blog post del 18/08/2015

Un mondo nuovo da studiare seppur terribile” è quello che, nelle parole usate da Giulio Sapelli da queste colonne qualche giorno fa, si apre a chi avesse sufficiente energia (ed il “dono divino della giovinezza”) per cercare di comprendere fenomeni vasti come quello che lega l’anemica ripresa dell’Europa al poderoso rallentamento della locomotiva cinese. Fenomeni che sono solo in parte economici, laddove anzi l’economia sembra dipendere e, contemporaneamente, condizionare la politica e i sentimenti delle opinioni pubbliche.

Ha ragione Romano Prodi quando ricorda che, paradossalmente, l’Italia rischia meno della Germania proprio perché meno di altri Paesi è riuscita negli anni scorsi ad agganciarsi ai grandi treni dello sviluppo globale. Tuttavia, è altrettanto vero che il dimezzamento della crescita della Cina può avere conseguenze di lungo periodo molto più gravi di quelle che la gran parte degli analisti stima, fino al punto da poter segnalare l’inizio della fine di quel processo cominciato all’inizio degli anni novanta e al quale gli storici hanno dato il nome di globalizzazione. Se così fosse le conseguenze per la politica economica dei singoli Paesi e dell’Unione Europea sarebbero devastanti obbligandoci a ripensare obiettivi e strumenti di un ordine globale che si sarebbe definitivamente sfaldato.

I numeri sono, del resto, chiari e consolidati. La Cina che, da sola, ha prodotto dall’inizio della crisi nel 2007 più crescita di sette grandi potenze ad industrializzazione consolidata (G7) messi insieme, sta per dimezzare al 6% il tasso di sviluppo della sua economia rispetto ai livelli ai quali ci aveva abituato nella prima decade del duemila; due (Brasile e Russia) degli altri quattro giganti (BRICS) ritenuti, fino a poco tempo fa, capaci di trascinare il resto dell’economia mondiale, sono in profonda recessione.
Ma ancora più rilevante - e pochissimo discusso - è il dato sull’andamento degli scambi commerciali tra Paesi la cui ascesa è sembrata fino a qualche anno fa fenomeno irreversibile.

In Cina l’atterraggio morbido del tasso di crescita dell’economia , è stato anticipato dalla caduta ben più verticale delle esportazioni - il motore del miracolo cinese per venticinque anni - che sono diminuite rispetto allo scorso anno dell’8,3%. Come per effetto di una forza uguale ma contraria, la Cina tuttavia, da un anno, riduce anche le importazioni (-8,1%) e ciò rischia - se il trend si confermasse con questi ritmi - di chiudere nuovamente l’Impero di Mezzo nell’isolamento nel quale periodicamente sprofonda e di inguaiare la Germania che più di qualsiasi altro Paese del mondo ha puntato sulla Cina.

Del resto, se è vero che un tasso di crescita del PIL del 6% è venti volte superiore a quello che sarebbe stato salutato con soddisfazione dal ministro dell’Economia Padoan in Italia venerdì scorso; è altrettanto vero però anche che è molto più complicato governare una frenata così brusca, che oscillare di qualche decimale in più o in meno da un trimestre all’altro. Per la Cina diminuire la velocità può significare andare fuori strada per effetto di una forza centripeta che, da sempre, minaccia un Paese così vasto. Individui e imprese, ad esempio, hanno avuto aspettative così forti di crescita senza fine, da aver quadruplicato, come nota uno studio di McKinsey Global Institute, l’esposizione nei confronti delle banche fino a raggiungere un volume di debito privato che rispetto al PIL è, persino, più alto di quello fatto registrare in Paesi come l’Inghilterra o gli Stati Uniti nei quali famiglie e aziende sono abituate a consumare a debito l’attesa di redditi futuri e a scontare gli eccessi con crisi di liquidità come quella spaventosa del 2007.

Il fenomeno, del resto, non è solo cinese. Se - come ha notato recentemente il Fondo Monetario Internazionale - per tutti gli anni novanta e duemila, ad ogni punto in più del PIL del Mondo corrispondeva un incremento del volume del commercio mondiale di due punti e mezzo, negli ultimi cinque anni tale valore si è ridotto a 0,7 punti per ogni punto addizionale di crescita economica globale. Del resto, gli ultimi dati ISTAT dicono che il motore delle esportazioni che, per tutto il lunghissimo periodo di contrazione dell’economia italiana, aveva continuato a girare, si è improvvisamente fermato, proprio mentre la domanda interna si è svegliata dal letargo. Se il PIL rallenta, ancora più velocemente si stanno chiudendo i Paesi e le macro Regioni del mondo (Europa, Asia, Americhe) e sta rallentando quel fenomeno - la globalizzazione - alla cui inevitabilità ci eravamo tutti abituati.

Diminuiscono, infatti, esportazioni ed importazioni, ma, contemporaneamente, si stanno disintegrando alcune delle catene di produzione globali più complesse e più focalizzati diventano gli investimenti esteri. Soprattutto cresce ovunque, la diffidenza nei confronti dello scambio di informazioni e simboli che continua ad attraversare il mondo digitale; e aumenta il risentimento nei confronti delle migrazioni di donne e uomini che sono un tratto essenziale della mondializzazione che ha accompagnato per vent’anni, dal crollo del muro di Berlino, il periodo di più lunga e poderosa crescita dell’economia mondiale.

“La fine della globalizzazione” è il titolo di un libro dell’Agosto del 2001 che uno storico dell’università di Princeton, Harold James, pubblicò osservando segnali premonitori che sembravano anticipare il ripetersi di ciò che successe nel mondo dal 1920 prima che i nazionalismi precipitassero la storia nella Grande Recessione e poi nella Guerra. Poche settimane dopo, due torri che ambiziosamente qualcuno volle chiamare “il centro del commercio mondiale” (World Trade Center) furono abbattute da terroristi capaci di colpire l’Occidente usando le sue stesse armi.

Non è solo questione di economia. Anche se l’economia crea l’urgenza di un profondo ripensamento strategico, perché è ovvio che con la domanda interna non si va molto lontani.

E' una questione molto più profonda di apertura che non ha alternative se vogliamo continuare a vivere in società che garantiscano a tutti un’opportunità. Ma anche di apertura intelligente, perché la globalizzazione degli ultimi vent’anni è avvenuta al prezzo di un aumento altrettanto esponenziale delle diseguaglianze (secondo il Credit Suisse, l’8,7% della popolazione mondiale possiede l’85,3% della ricchezza del mondo) all’interno dei Paesi (dagli Stati Uniti alla Cina); e di un deterioramento progressivo della capacità delle persone di influenzare concentrazioni di potere sempre più opache. La contraddizione tra globalizzazione dell’economia e politiche che rimanevano sempre più nazionali e impotenti sta, probabilmente, esplodendo. E, su questo ha ragione chi - riecheggiando i toni del “mondo nuovo e coraggioso” di Huxley - ricorda che il primo dei nostri problemi è un vuoto di conoscenza che abbiamo accumulato perdendo tempo nella contemplazione della complessità e che è indispensabile colmare per cercare soluzioni nuove.

problema molto ma molto complesso... come al solito prima arrivano ad un passo dal baratro e poi si svegliano ..qs volta il passo è prima o dopo il baratro ?:mumble:
 
boh io la vedo più semplice, ci sono dei cicli economici e ogni tanto deve stornare.

oggi terrore sulla stampa, forse non hanno visto il grafico a 5 anni sp500
 

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Ho detto shot e shot e stato ora posizionarsi long e a fine ottobre si raccoglie.....con semplicità.....torno in ferie addio
 

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