Val
Torniamo alla LIRA
Batto sempre quel chiodo, perchè un suicidio è cosa grave e devono pagare.
In inglese il caso della recensione della pizzeria della signora Giovanna di Sant’Angelo Lodigiano,
che secondo la giornalista Selvaggia Lucarelli e il suo compagno chef sarebbe stata, presumibilmente, falsa
o meglio un tentativo di promozione del locale, sarebbe una questione “petty”, insignificante, frivola, da poco.
Non certo qualcosa da andare ad indagare per un giornalista.
Ma se si decide di fare i Charles Bronson sulle cazzate della notte,
se si opera come un cardiochirurgo a cuore aperto sulle piccole situazioni
più o meno private e insignificanti, per poi ingigantirle,
quando ci scappa il morto bisognerebbe dire alt, fermi tutti:
i giornalisti facciano il loro mestiere, elevare le meschinate del signor Tizio o della signora Giovanna a notizia nazionale,
se non si tratta di grave reato ai danni della collettività, solo perché si è molto seguiti,
non potrebbe essere un uso leggermente distorto del mezzo e della professione?
E se non lo è, è perché qui, a differenza che altrove, non siamo giudici di nessuno.
Non dovrebbe forse sollevare qualche interrogativo se una persona decide di togliersi la vita per la visibilità non richiesta?
Ma d’altronde, il tutto, anche l’accusa e il processo accusatorio al fattarello, si sono svolti sui social e non su un giornale.
E questo è colpa di chi ancora non pensa che chi scrive qualcosa su un social non è esattamente “a casa sua”,
se è iscritto ad un albo, o mette la privacy “solo amici” o si comporta esattamente come un editore.
E lo stesso “padrone”, la società che possiede la piattaforma, dovrebbe rispondere come tale.
In ogni caso, se quello che hai presunto porta alla morte di qualcuno, forse è più grave del fatto in sé.
Non tutti ambiscono ai riflettori, non tutti vogliono fare gli investigatori e i processi mediatici alle intenzioni.
In inglese il caso della recensione della pizzeria della signora Giovanna di Sant’Angelo Lodigiano,
che secondo la giornalista Selvaggia Lucarelli e il suo compagno chef sarebbe stata, presumibilmente, falsa
o meglio un tentativo di promozione del locale, sarebbe una questione “petty”, insignificante, frivola, da poco.
Non certo qualcosa da andare ad indagare per un giornalista.
Ma se si decide di fare i Charles Bronson sulle cazzate della notte,
se si opera come un cardiochirurgo a cuore aperto sulle piccole situazioni
più o meno private e insignificanti, per poi ingigantirle,
quando ci scappa il morto bisognerebbe dire alt, fermi tutti:
i giornalisti facciano il loro mestiere, elevare le meschinate del signor Tizio o della signora Giovanna a notizia nazionale,
se non si tratta di grave reato ai danni della collettività, solo perché si è molto seguiti,
non potrebbe essere un uso leggermente distorto del mezzo e della professione?
E se non lo è, è perché qui, a differenza che altrove, non siamo giudici di nessuno.
Non dovrebbe forse sollevare qualche interrogativo se una persona decide di togliersi la vita per la visibilità non richiesta?
Ma d’altronde, il tutto, anche l’accusa e il processo accusatorio al fattarello, si sono svolti sui social e non su un giornale.
E questo è colpa di chi ancora non pensa che chi scrive qualcosa su un social non è esattamente “a casa sua”,
se è iscritto ad un albo, o mette la privacy “solo amici” o si comporta esattamente come un editore.
E lo stesso “padrone”, la società che possiede la piattaforma, dovrebbe rispondere come tale.
In ogni caso, se quello che hai presunto porta alla morte di qualcuno, forse è più grave del fatto in sé.
Non tutti ambiscono ai riflettori, non tutti vogliono fare gli investigatori e i processi mediatici alle intenzioni.