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Ma no, dai, è la contro-informazione.
Sono tutte balle .........

1) In una lettera ufficiale al presidente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati statunitense,
Mark Zuckerberg ammette che l’amministrazione Biden-Harris
ha fatto pressioni per censurare diversi contenuti ai tempi del COVID.
Lettera svelata dal @JudiciaryGOP

2) Riconosce di aver ceduto in più di un’occasione a queste pressioni,
privando quindi i cittadini statunitensi del diritto costituzionale a un’informazione libera e trasparente.

3) Certifica di aver impedito la diffusione della notizia del computer del figlio di Biden, Hunter,
pubblicata dal New York Post pochi giorni prima delle presidenziali del 2020,
quando si affidò ai fact checkers di Meta che validarono la versione dell’FBI
secondo cui si trattava di disinformazione russa.


E invece era tutto vero;
peccato che la stampa americana lo abbia ammesso solo molti mesi dopo.



Zuckerberg ha espresso rammarico per quanto accaduto
e ha dichiarato che ha cambiato le regole sui fact checkers
.

Resta l’inaudita gravità della sua ammissione.

Abbinatela alle potenzialità censorie del Digital service Act in vigore nell’Unione Europea,
nonché ad altri recenti episodi e il quadro appare drammaticamente chiaro.

Confermo e rilancio:
la libertà di opinione è in pericolo nelle democrazie occidentali.



lettera Zuckerberg

🔴 A poche ore dal caso #Durov#Telegram questo è uno sviluppo molto importante:
1) In una lettera ufficiale al presidente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati statunitense , Mark #Zuckerberg ammette che l’amministrazione #Biden#Harris ha fatto pressioni per… pic.twitter.com/FDmqCS3oeZ
— Marcello Foa (@MarcelloFoa) August 27, 2024
 
Ci vuole più Europa, molta ma molta di più, perché funziona benissimo, è evidente :consolare:



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Ahahahahahahah

In principio era il regno dei progressisti.​

E andava tutto bene.​

Ma poi…​

Ecco la vera storia della battaglia per il controllo della narrazione sui social​

 
Ci vuole una gran disonestà intellettuale per (fare finta di) accorgersi soltanto adesso
che il mondo dei social media non è neutrale rispetto alla politica:

serviva Elon Musk per costringere i commentatori di mezzo mondo a dire questa verità lapalissiana.

È servito Musk non perché egli abbia fatto cose eclatanti
ma perché, molto più semplicemente,
ha rotto il monopolio della sinistra sul controllo dei social
e permesso ai non progressisti di essere più sereni nel manifestare il proprio pensiero online.
 
Agli albori di Facebook,
il primo vero fenomeno social di portata globale,
questo nuovo mezzo di comunicazione disintermediato – o almeno così appariva –
fu ritenuto addirittura l’elemento chiave che portò Barack Obama
prima alla vittoria delle primarie democratiche
e poi della presidenza degli Stati Uniti:

per alcuni anni, la sinistra ne ha avuto pressoché il monopolio,
anche per incapacità di utilizzo da parte dei suoi avversari,
e ciò si è visto sia negli Stati Uniti sia in Europa.


Guardando all’Italia, il social network come strumento politico massivo
è stato impiegato in prima battuta dai meetup grillini
e ciò che poi ne è scaturito, ovvero il Movimento 5 Stelle,

e da un allora rampante politico di centrosinistra che fece di necessità virtù
visto che tutto il partito ufficiale e annesso circo mediatico
lo avversavano apertamente: Matteo Renzi.

Facebook, Twitter e Instagram restavano un qualcosa di lontano per i non progressisti,
ancorati ai vecchi schemi e mezzi di comunicazione:

il massimo fu Angelino Alfano che si portò un ipad nello studio di Ballarò twittando in diretta dalla trasmissione.
 
Questa situazione di monopolio del mezzo crolla dal 2015 in poi:

il mondo non progressista prende dimestichezza con il mondo social
e impara bene e in fretta le principali tecniche e strategie
per creare contenuti sempre più penetranti e in grado di orientare il dibattito pubblico.

La viralità di post, infografiche, meme non è più a solo appannaggio della sinistra,
anzi ormai sono gli altri a padroneggiare molto meglio i social
e saper creare le onde da cavalcare:

ciò accade su tutti i social network meno uno, Twitter,
che il mondo progressista non smetterà di considerare sempre e comunque “cosa sua”.
 
Ad ogni modo,
l’egemonia culturale della sinistra sui social finisce attorno a quell’anno lì
e, non a caso, è in quegli anni che suddetto mondo elabora tre concetti interconnessi fra loro

che sono

“post-truth”,

“fake news” e

“fact checking”:

dietro il nobile intento di combattere la disinformazione,
si nascondeva il tentativo di riprendersi la narrazione online
sostenendo che ci fosse bisogno di un arbitro
e al contempo applicando metri di arbitraggio alla Byron Moreno.


Agli “analfabeti funzionali”

– altro termine del loro glossario guarda caso spuntato fuori dopo il 2015 –
va spiegato che il memino indignato che hanno condiviso sul loro profilo è una balla
e per farlo c’è un tizio predisposto a spiegare agli “analfabeti funzionali” perché sono tali:

nasce così il debunker.


Nel giro di poco, diventa chiaro a tutti quelli in grado di vedere che i debunker, in media,
non sono neutrali ma giocano per una parte:

scelgono in maniera arbitraria cosa è da verificare e cosa invece no,

hanno criteri di valutazione propri,

con il risultato che nella gran parte delle volte
questa pratica colpisce i non progressisti e il gioco viene rapidamente scoperto.
 
Il primo tentativo di riprendersi il controllo della narrazione online

fallisce miseramente

e a certificarlo ci sono i due risultati elettorali più clamorosi degli almeno ultimi cinquant’anni:

Brexit e la vittoria di Donald Trump,

maturate nonostante l’impegno dei media tradizionali nel sostenere Remain e Hillary,
affiancati dai debunker di professione a presidiare il web

(chissà perché nessuno di loro, né nel 2016 né negli anni a venire,
si è mai preoccupato di debunkare la bufala del dossier Russiagate su Trump montata da Hillary).


Relativamente a casa nostra,
il fallimento della strategia fatta di accuse di creduloneria agli utenti
e impiego di “certificatori di verità” di professione
è reso lampante dalle elezioni politiche del 2018
da cui il Movimento 5 Stelle esce come primo partito d’Italia
e Matteo Salvini come politico più popolare.
 
La battaglia sui social era perduta,
e al mondo progressista non rimase che una cosa da fare:

alzare il tiro e arrivare alla censura
.

Fatte le prove generali durante la pandemia,
il salto di qualità lo si ebbe durante le elezioni presidenziali americane del 2020:
le piattaforme adottarono ufficialmente i fact-checker
al punto da mettere in piedi delle task force interne
e arrivarono a condizionare gli stessi codici informatici
su cui poggiano le piattaforme al fine di favorire un candidato e azzoppare l’altro.


E lo fecero in maniera sfacciata:
si spinsero al punto da censurare una notizia del New York Post su Hunter Biden,
il figlio di Joe Biden, molto dannosa per la sua campagna,
negando la possibilità di condivisione, bollandola come falsa,
anzi come propaganda russa – e addirittura Twitter
arrivò a bannare il quotidiano dalla piattaforma.

Non paghi, una volta certi che Donald Trump fosse fuori dalla Casa Bianca,
decisero di spegnere la sua voce sui social
con l’accusa di aver orchestrato l’assalto a Capitol Hill
per tentare un colpo di stato, fomentando violenza e odio.
 
Ricordiamo che giusto l’estate precedente
i social network non fecero assolutamente nulla
per bloccare le manifestazioni (quelle sì!) di violenza e odio
provenienti dal movimento Black Lives Matter,
che mise a ferro e fuoco le metropoli di mezza America
anzi i vertici dei social coccolarono quel movimento.

Di più: quando l’area trumpiana provò a radunarsi su una piattaforma alternativa
(Parler, per chi non la ricordasse), avendo fiutato l’aria di censura conseguente alla cacciata di Trump,

quella piattaforma fu silenziata da Big Tech,
con Amazon che rescisse il contratto per i server
e Google che fece sparire l’app dal Play Store.

Per riprendere il controllo della narrazione social, alla fine,
fu necessario l’intervento diretto dei vertici di quei social,
tutti o quasi di orientamento progressista.
 

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